La meglio psichiatria. Sullo sfondo de "La meglio gioventù" di M. T. Giordana

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3 ottobre, 2012 - 16:20

"E’ matta!", esclama Matteo. Nicola, che ha appena dato un esame a medicina e non sa ancora di cosa si occuperà, si tradisce: "no, non è matta... ha gli occhi intelligenti!" In questo senso il film è la descrizione di una generazione che quegli anni sceglierà di dedicarsi alla psichiatria: molti vi si avvicineranno perché essa rappresentava un ulteriore e singolare ambito in cui si declinavano i conflitti di classe. E "l’ordine psichiatrico" (Castel) riguardava l’incarnazione di un potere enorme ed antico, intoccabile. Molti della nostra generazione, ovviamente, ci si sono ritrovati nel film, ma la sensazione che prevaleva era di ritrovarsi come in un album di fotografie: "altri tempi!". Forse in questo c’è larga parte del successo del film. Accade di ricontattare con emozione e nostalgia un sogno che ha riguardato una generazione e che, finché c’era il sogno, ci si sentiva vivi e giovani, incredibilmente padroni degli anni che c’erano davanti anche perché "i dinosauri che dovevano essere spazzati via" erano davvero giunti – per se stessi – alla fine di un ciclo. Il ciclo della psichiatria veniva da lontano e partiva dal secondo ottocento, dalla fondazione del manicomio come "dispositivo medico della cura della follia" (Fontana). Tuttosommato, un’altra illusione che peraltro era stata sostenuta dalla evidenza che la paralisi generale era dovuta al bacillo della sifilide e la pellagra – che pure era malattia dei poveracci – a carenza della vitamina PP. Il film credo abbia una sostanza di fondo ammiccante (il che non è detto che in un film sia una cosa solo negativa….): ci si ritrova un sogno, sapendo di averlo vissuto e con il vantaggio di poterlo vedere quando ha già declinato l’intera parabola. Ma qui cominciano i problemi che ci riguardano: la parabola è davvero esaurita?. Parlandone con una mia amica, ho capito (mi è sembrato di capire…) che il film non riguarda tutta la meglio gioventù di quegli anni, ma solo quella che ha percorso l’intera parabola che partiva dal ’68 fino ad oggi senza mai ritornare ai compromessi col potere che voleva combattere. Chi si identifica nel film può sognare fino alla fine, perché nessuno dei personaggi del film riguarda molti di quelli che, in realtà, durante il percorso – sia nella società che nella psichiatria – sono saltati sul cavallo del potere e dell’opportunismo: è un film sulla generazione di quegli anni che, nonostante le vicende della vita riesce fino alla fine a rimanere "sana" e coerente, appunto "la meglio". Una parte dello sfondo di queste vicende riguarda la psichiatria esattamente nella misura in cui la questione psichiatrica, in quegli anni, riguardava alcuni della "meglio gioventù" di allora. L’aspetto delicato del film è di non voler sostenere una posizione critica o celebrativa. Naturalmente emerge la parabola della "meglio psichiatria" di allora. Il percorso rimane legato alle vicende personali dei personaggi – Nicola, Giorgia e Matteo – e, pertanto, ciascuno di noi può ritrovare alcune delle antiche emozioni che nella tensione di quegli anni cercavano di farsi strada attraverso l’adesione ad una causa che appariva incredibilmente ovvia.

Lo stesso giorno della prima televisiva di "La meglio gioventù" leggo su La Repubblica una nota su alcuni inediti di Foucault e le sue lezioni all’Accadémie del 1973- ‘74 legate al progetto di dare seguito alle ricerche che avevano portato alla "Storia della follia nell’età classica". Sono gli anni in cui Nicola, senza averlo deciso, si trova a percorrere le motivazioni che lo costringeranno naturalmente a diventare psichiatra e tutto inizia con l’incontro di una giovane, asservita all’ordine psichiatrico che deve essere smentito perché quest’ordine non sa più – sa mai l’abbia fatto – guardare agli occhi delle persone. Il film è feroce, nella sua semplicità, riguardo a questo punto quando attraverso Matteo, descrive la violenza del potere psichiatrico che già denunciava la sua impotenza terapeutica: Il professore di villa Quieta, che cercava una complicità con il volenteroso ed entusiasta giovane il quale doveva "intrattenere" la paziente giovane ma incurabile, si scopre goffo a congedare i pazienti che in modo servile gli stanno lucidando la macchina: "… così per tenerli occupati" spiega a Matteo che, immediatamente da osservatore di un freddo e vuoto potere, come accadeva in quegli anni, ne diventa immediatamente – e per forza di cose – giudice.

La formazione degli psichiatri si fa fuori dal manicomio, anzi la frequentazione del manicomio ti spinge fuori a cercare la sofferenza nella vita e non nel "corpo" (Foucault). Matteo e Nicola devono per questo restituire Giorgia al suo contesto di affetti e liberarla dal potere oppressivo che gli psichiatri, "signori della follia" organizzavano nei loro manicomi "… spazio chiuso per uno scontro dove è questione di vittoria e sottomissione" (Foucault).

La parabola è precisa. L’ideologia che sembrava aver trovato una facile soluzione alle contraddizioni esplicite del potere dell’ordine psichiatrico deve, ben presto fare i conti con la complessità dei conflitti e dell’organizzazione sociale. Un primo esito sarà la colpevolizzazione del contesto che resiste al cambiamento anche se tale contesto è quello a cui appartieni nel quotidiano e negli affetti più semplici, distante dalle organizzazioni di potere. "Giorgia non ha bisogno di un medico… ha bisogno di un padre" grida Matteo al padre di Giorgia, visibilmente impotente ad accogliere la figlia nella sua nuova famiglia che, oramai si è organizzata anche sulla sua assenza. Nicola aggiunge altri buoni motivi a questa tesi: "con tutti i soldi che spende a pagare la clinica, potrebbe tenerla con lei!". Un primo punto. La complessità delle soluzioni che sembravano semplici può portare a non capire la fragilità e le ragioni dell’altro che, anche se molto prossimo, può diventare facilmente un oppositore se non proprio un nemico. Il nostro progetto di liberare il folle dall’ordine psichiatricocomincia a presentare inevitabilmente i suoi limiti e forse le iniziali tesi devono essere riviste, per poter mantenere nella sostanza la innegabile intuizione iniziale che vedeva nel manicomio l’aberrazione di ogni progetto di cura. Ma il manicomio prima che alle periferie delle città è nella testa delle persone e, quindi, ovunque, perché è naturale temere la follia e difendersene in ogni modo. Nicola non lo può ancora sapere e confonde il manicomio con l’origine della follia: se ti liberi dal manicomio recuperi la vita! L’illusione nel film si svela molto presto: "va a comprare tre zatterini" "Io non ce la faccio!" risponde Giorgia. Ma Nicola è certo che essere liberi dal manicomio significa non aver più alcuna difficoltà nelle relazioni col mondo: "è facilissimo!". Giorgia va comprare i zatterini forse perché resa capace dalla potente suggestione della certezza dell’altro. Ma sarà un modo colpevole di restituirla alla cronicità e al manicomio salvando la propria certezza. La cosa che mi fa riflettere è che, nonostante siano passati anni che avrebbero dovuto far riflettere, molte volte, disperati, nel lavoro dei servizi territoriali, cerchiamo di curare con la profonda convinzione nelle nostre certezze. Qualcuno potrebbe mettere questa certezza fra le varianti della "Innocenza violenta" (Bollas) ovvero: "quello che ho fatto è giusto. Ma perché tu non guarisci?".

Cominciano i primi problemi. Giorgia attacca furiosamente Matteo che in un quaderno, è incauto nella sua curiosità di conoscere i segreti della paziente: il vertice da cui cogliere l’oggetto è differente, non è facile – anche se può essere ideologicamente giusto – entrare nell’intimità del paziente. Tutto il percorso sta nel guadagnarsi la sua fiducia ed i pazienti ci vogliono conoscere intimamente per quello che siamo e non per quello che diciamo di essere: quante volte abbiamo aperto incautamente "il loro diario" o abbiamo deciso per loro, certi che stavamo decidendo per il loro interesse! Ricordo ora l’esclamazione di un paziente a cui un servizio aveva organizzato un "programma terapeutico personalizzato" particolarmente strutturato: "dottore, ma bisogna anche capire che sono un malato e che non posso fare tutte quelle cose che mi chiedono di fare!".

Puntualmente, però proprio i pazienti in questi anni ci hanno segnalato che il loro interesse era nel diritto di avere dei terapeuti vivi e preoccupati e non dei soggetti sempre sicuri delle proprie soluzioni che, alla prima prova trovavano il modo – diretto o indiretto - di eclissarsi. Matteo, che aveva attivato tutta la operazione di "liberazione" di Giorgia, non regge la fatica della frustrazione: "Ma è possibile che non si può far niente?"; prende il treno e parte. Non solo va via dalla stazione, ma si trasferisce nettamente dall’altra parte dell’ordine sociale. Molta psichiatria di quegli anni non ha retto alla frustrazione e si è trasferita dall’altra parte. Nell’area della psichiatria illuminata e progressista ciò si è compiuto in due modi: entrambi portano all’eclissi della clinica e dei pazienti. Alcuni (sia singoli operatori che interi servizi) sono passati ad occuparsi di gestione farmacologica e concreta dei pazienti o, delusi dagli iniziali entusiasmi, hanno lasciato i servizi territoriali. Altri, molto presto si sono collocati in posti di potere contribuendo alla costruzione di pachidermici dispositivi di cura, talmente burocratizzati che impegnano gran parte delle risorse per sostenere la sopravvivenza della loro stessa organizzazione: i pazienti, come in una nuova riedizione del manicomio, sono diventati una categoria in nome della quale si organizzano servizi, settori trasversali, gruppi di studio che riescono semplicemente nel progetto effettivo di evitare l’incontro con la soggettività del paziente, ovvero di quella cosa che ogni volta mette in crisi ogni tua certezza e ti costringe ad inventare possibili soluzioni contingenti che, magari dopo poco, bisognerà modificare o abbandonare del tutto. Io lavoro a Roma e non conosco situazioni nel mio contesto dove questo sia stato evitato: occuparsi di clinica rischia di diventare un particolare lusso a fronte dell’impegno che ciascuno affida alle procedure burocratiche o, comunque formali che, quando diventano violentemente eccessive devono, a mio parere, fare riflettere.

Nicola sembra prendersi un ampio periodo di riflessione e si rimette a vivere: l’Islanda, l’amore, la politica, la famiglia. Lo ritroveremo con la foto di Basaglia nel suo studio che si occupa di pazienti difficili. Giorgia viene ripresa dal camaleonte manicomiale che nel frattempo si è camuffato in una piccola struttura in cui i pazienti (magari non più ricoverati in manicomio) vengono trattati come numeri da cui ottenere rette dal convenzionamento. Il servizio che queste strutture forniscono è duplice. Agli psichiatri permettono di sostenere l’avvenuta chiusura dei manicomi e alle famiglie l’evitamento, per rette contenute, della convivenza impossibile con il folle oramai deteriorato. Attenti però, a non sostenere la facile tesi che il deterioramento è dovuto alla istituzione: ricordiamo che alla stazione, molti anni prima, la posizione ideologica di Nicola aveva sostanzialmente consegnato Giorgia– con un fallimento in più – allo spazio delle istituzioni segreganti. Ho visitato personalmente una serie di questi piccoli "manicomietti" che proliferano nella periferia di Roma. La cosa grave è che ho spesso dovuto chiedere loro "il favore" di accogliere qualche mio paziente che non si sapeva proprio dove collocare! Ora ci sarà sicuramente qualcuno che se la prenderà con la "carenza di strutture alternative che la legge 180 aveva previsto". Io penso che la questione non è così semplice e, se non ci sono strutture alternative forse è anche perché non abbiamo saputo inventare soluzioni alternative in questi anni che facessero anche i conti con la innegabile realtà che la cronicità appartiene ai percorsi psicotici ed i manicomi centrano solo perché non sono la cura migliore. Ma le nostre cure sono state sufficienti? Ed i nostri Dipartimenti ciclopici che spazi di cure danno ai pazienti? I manicomietti proliferano per l’assenza di cure, anche se dobbiamo riconoscere che le cure di cui si parla sono qualcosa di terribilmente complesso.

Calma. E’ ovvio che io penso di appartenere a quelli della "meglio psichiatria", ma meglio di chi? E perché?

Qualche giorno fa, mentre ero in coda ad un supermercato mi sento una mano che mi dà un buffetto sulla spalla. La saluto: era Giovanna, una paziente che per anni abbiamo seguito al servizio. Con lei, per anni abbiamo dovuto imparare la tolleranza dei nostri limiti e il potere attivo dei pazienti che vogliono essere curati facendoti capire fino in fondo che cosa significa essere pazzi: i ricoveri, gli inserimenti al centro Diurno, le visite domiciliari… Quando la sofferenza è viva ogni organizzazione è sempre molto parziale a contenerla. Giovanna veniva al servizio con il suo cane pastore e ci metteva paura; tutti si arrabbiavano con l’altro perché non faceva il suo dovere…. Forse la nostra capacità di cura è consistita nella capacità di rimanerle vicino nonostante tutto. Nella coda del supermercato mi sono emozionato a pensare che nessuno degli altri clienti poteva immaginare che quella era stata una grave paziente e che ora faceva la coda come tanti altri perché tutta una famiglia si reggeva sulle sue spalle. Forse questi pazienti ci spingono a capire che non hanno bisogno di precisi "progetti personalizzati", ma di verificare che, nonostante la loro follia gli altri sopravvivono e questo per loro significa rimanere vivi.. Nell’articolo di La Repubblica mi fa riflettere che negli anni della "meglio psichiatria" gente come Foucault e tanti altri intellettuali stranieri guardavano all’Italia dove forse si stava svolgendo la realizzazione di un sogno, mentre già da tempo nessuno più è interessato a questo sogno. Questo dovrebbe fare riflettere soprattutto i "meglio psichiatri" perché non si tratta di un fenomeno di cui possiamo dichiararci vittime, ma semmai capire in che modo ne siamo anche responsabili. Il film non parla di questa psichiatria: Nicola lo troviamo – e lo lasciamo – in uno studio di un presidio territoriale con la foto di Basaglia al muro. Giorgia sembra essersi ripresa la vita grazie alle nuove cure, ma questa volta non si sa niente del percorso e del prezzo che lei ed i suoi psichiatri devono aver pagato. Chissà se l’evoluzione della storia di Giorgia è simile a quella di Giovanna. Non saprei, perché la storia di Giovanna viene dopo "la meglio psichiatria", quella che per necessità doveva avere certezze: ma ora le mura dei manicomi sono storicamente impensabili, mentre i manicomi, nella sostanza, si insinuano sempre più nelle formali certezze di pachidermiche istituzioni che impegnano tutte le loro energie per far sopravvivere se stesse. La mia paura (in un certo senso è una mia convinzione) è che il manicomio non ce lo stanno riconsegnando opachi legislatori che discutono in modo falso e strumentale di riforme della 180, ma è il perenne fantasma che ricompare puntualmente quando non si ha più la capacità –tecnica, fisica ed affettiva – di guardare gli occhi intelligenti dei pazienti.

Tutti i personaggi del film si ritrovano intimamente nella casa in campagna dove si ricompongono conflitti e soprattutto lutti. La fine del film può essere irritante perché ti ripropone la fusionalità di un sogno, dove si ritorna ad essere quelli dell’inizio del sogno e, soprattutto, hai paura che tutto quello che è successo può essere stato solo un sogno.

C’è stato un periodo in cui si è formata la meglio psichiatria che si conosca. E’ possibile che questa psichiatria si sia fermata in un casolare della campagna toscana a continuare a sognare di curare profonde ferite attraverso la riproposizione di modalità terapeutiche riparative di ordine fusionale, ma io penso che, ricomposto l’entusiasmo, questo possa essere un necessario periodo di riflessione per non perdere quello che di buono e di irrinunciabile c’è stato. Questo, forse è il piccolo grande limite del film: la sottile vena di nostalgia che hai nel rivedere le foto in un album, spesso ti impedisce di lasciare il casolare della campagna toscana ed accettare che non puoi sostituirti ad uno che è morto perché siamo chiamati ad accettare che negli occhi intelligenti dei figli e delle mogli forse rimarrà sempre la disperazione per qualcosa che hanno perso, e rispetto a questo è vitale riconoscersi impotenti, ma non sconfitti. La meglio psichiatria di quegli anni forse non poteva tollerare questi lutti. La psichiatria che viene fatica a lasciare il casolare della campagna toscana. Speriamo di non doverlo lasciare, solo perché qualcuno ci sfratta. In quel caso – ma potremmo cominciare già da ora – non è il caso di fare troppo le vittime, perché è naturale che ognuno faccia il proprio mestiere.

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Il disprezzo verso le nuove generazioni ha rappresentato il fallimento maggiore di tutti i movimenti di liberazione degli anni settanta.


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