La psicopatologia e la “LEGGE 180”.

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4 novembre, 2018 - 10:14
I. La prospettiva della psicopatologia.
Ho pensato di dare il mio contributo al Quarantennale della “180”  nella prospettiva della psicopatologia, e questo per due ragioni: sia perché questa ottica mi sembra poco rappresentata nelle attuali celebrazioni rispetto al sociologismo assistenzialista tecnico-umanitario che vi prevale sia, e soprattutto, perché è su di un asse psicopatologico che si è incardinata la “rivoluzione” della “180”, un asse di fenomenologia eidetica che ha impresso una rotazione di senso alla follia, alla relazione col paziente, alla istituzione psichiatrica e alla legge sugli alienati.
So bene che questa prospettiva apparirà astratta ideologia borghese a quelli (se ancor ne rimangono) che leggevano la condizione di alienato in base a rapporti di produzione e di potere, seppure non senza far confusione, come diceva Lanteri-Laura, fra l’alienazione marxiana da un lato che è una cosa e quella che Pinel[1]  chiamava Aliénation mentale dall’altro, e che è tutt’altra cosa. E senza contare che trentacinquanni di incontri con i “matti” e la buona scuola francese m’hanno convinto che l’uomo alienato delira ben altro che rapporti di produzione e di potere ma delira lo sgomento mai appagato del desiderio davanti al suo destino mortale. Comunque l’argomento lo riprenderò dopo che la descrizione della istanza della psicopatologia nella vicenda della “180” consentirà di dirne in concreto.
Certo, parlare di psicopatologia, e parlarne addirittura come istanza euristica, nella psichiatria italiana attuale,  richiede un lavoro archeologico di riscoperta, ineludibile pel fatto che la psichiatria italiana ha oscurato da più di centanni la psicopatologia marginalizzandola come sapere superfluo senza presa sul lavoro del clinico, al massimo divertissement marginale di pochi medici colti portati nei loro otia a discettare sulla natura della follia dallo loro notevole e rispettabile cultura umanistica. A questa indifferenza supponente è succeduto poi il rifiuto netto della psicopatologia da quando la psichiatria italiana si è adagiata nell’alveo della psichiatria del DSM[2] che codesto rifiuto appunto caratterizza. Con queste premesse, la ricerca che mi propongo sarebbe disperante se a questo massiccio rifiuto della psicopatologia non avessi da contrapporre l’insegnamento di un maestro quale Georges Lanteri-Laura[3] che della psicopatologia fenomenologica – e della storia della psicopatologia -  è stato una della grandi voci del XX secolo; e del resto una voce tutt’altro che isolata, la dimensione fenomenologica della psicopatologia essendo stata sussunta  fin dagli anni ’50 del ‘900 nella psichiatria francese grazie in particolare all’opera del prestigioso Henri Ey[4].
 
II. L’istanza del paradigma psicopatologico nella psichiatria.
Diceva dunque Lanteri-Laura[5] che la psicopatologia, lungi dall’essere un sapere superfluo, e ancor meno un sapere inesistente, è al contrario uno dei due saperi che costituiscono e fondano la clinica psichiatrica, l’altro essendo la semeiotica. Con queste differenze fra i due: che la semeiotica è un sapere intrinseco alla clinica, il suo apprendimento richiedendo di frequentare gli alienati e imparare a cogliere e a descrivere le differenze che li caratterizzano; ed è una sapere cumulativo come dimostra il fatto che nel nostro thesaurus semeiologicus si trovano contributi di tutte le epoche dalla melanconia di Ippocrate allo stalking del nostro tempo, e passando per i nomi illustri della medicina fra questi due riferimenti compresi. E che infine i segni della semeiotica fanno fra loro buon ménage anche facendo buona accoglienza ad ogni segno nuovo arrivato.
La psicopatologia, per contro, è un sapere molto diverso essendo in prima istanza un sapere estrinseco alla clinica e che per questo dall’osservazione dei malati mai e poi mai si potrà impararlo; è un sapere di natura filosofica che si impara da altre letture e da altri maestri, se possibile da quei medici-filosofi che sono i grandi maestri di psichiatria. Ed è, la psicopatologia, quel significato dell’uomo e della follia che la cultura del tempo di volta in volta elabora e accredita e che gli psichiatri capaci di intenderlo fanno proprio per dare un’apertura nuova alla loro psichiatria mettendola in sintonia con la cultura del tempo, e insieme cimentandolo con la realtà dei loro malati e su questa base modificandolo, criticandolo, arricchendolo.
E’ inoltre un sapere per sua essenza di natura discontinua, essendo ogni psicopatologia figlia di una cultura diversa[6]; il che ne fa un sapere di natura conflittuale che rende malvenuta ogni psicopatologia nuova arrivata, ciascuna di esse mirando a monopolizzare il campo del patologico mentale cacciandone le altre (cosa che possono illustrare in rude concretezza i ben reali attriti ricorrenti fra organicisti e psicodinamisti); anche se questa egemonia non riesce mai appieno, il campo della psicopatologia rimanendo così per sua natura polimorfo.
Ma l’istanza della psicopatologia affermata così in generale, rimarrebbe quasi astratta petizione di principio se non la rendessero concreta gli effetti che essa produce nella clinica e che si possono ridurre a tre: fondare la clinica, fondare il fare terapeutico, influire sulla istituzione e sulla legge psichiatrica. Vediamo specificando.
1)  Il suo primo effetto è quello di fondare la clinica appunto come intreccio costitutivo di psicopatologia e di semeiotica col dare alle differenze che la semeiotica descrive il rango di segni. Queste differenze, infatti (sentire le “voci”, credere fermamente in idee bislacche, consumare il tempo in rituali ripetitivi e inconcludenti e così via discorrendo … ) prese in sé non significano che sé stesse, non rinviano ad altro da sé, non sono cioè dei segni[7]. Tali diventano invece quando un paradigma le prenda nella sua prospettiva di senso e ne faccia appunto dei segni, più esattamente la faccia significante di una segno il cui significato risiede nell’apparato che il paradigma psicopatologico postula e al quale rimanda: l’apparato cerebrale nel caso di un paradigma organicista, l’apparato psichico nel caso di un paradigma psicodinamico; la teoria della comunicazione o i riflessi condizionati nel caso di altri paradigmi.
Per aiutarci con un esempio, si può dire che il paradigma psicopatologico esercita sulla narrativa descrittiva della semeiotica l’effetto analogo a quello che il paradigma storiografico esercita sulla narrativa descrittiva della cronaca[8]: un riferimento concettuale che mette i fatti in una prospettiva di senso seppure temporanea e precaria  essendo come ogni paradigma soggetto, e anzi destinato, ad essere falsificato[9]. Ciò non toglie che dia al nostro saper/fare un riferimento storicamente convalidato e una cauzione di scientificità anche a connotazioni etiche. Senza questo riferimento, la psichiatria si ridurrebbe forse ad una pratica di guaritori basata sulla corrispondenza biunivoca, garantita da una mnemotecnica personale, fra certe manifestazioni dei malati e l’effetto di certi farmaci o erbe su di esse. Ma dico forse perché anche i più rozzi guaritori un paradigma di riferimento mostrano di avercelo, non foss’altro quello dei segni dello zodiaco. E’ però al loro livello che si abbassa la psichiatria quando si pretende di fondarne il fare terapeutico sulla semplice descrizione di sintomi clinici senza riferimento psicopatologico.
 
2) Il secondo effetto clinico del paradigma psicopatologico è quello di fondare, legittimare e indirizzare il fare terapeutico. Dire che uno psichiatra organicista cura in un modo molto diverso da uno psichiatria a indirizzo psicodinamico è enunciare una cosa ovvia; che diventa però meno ovvia quando ci si chiede in che rapporto stia la psicopatologia di riferimento con il concreto fare terapeutico. Accenniamolo brevemente.
In una prima approssimazione, si potrebbe dire che la terapia è l’applicazione della teoria punto per punto. E’ la versione più o meno paranoica del problema che ben conoscono in particolare gli psicoanalisti che si fanno riservati a concedere il titolo di terapeuta all’allievo che ha preso la teoria come il letto di Procuste su cui allungare o scorciare il paziente.
In un’approssimazione diversa e più sana si può dire che la teoria funziona come orizzonte di riferimento fra i cui punti fissi si può tessere una trama terapeutica per definizione precaria e mobile, da modellare in funzione dell’evolvere della situazione del paziente e anche dell’obiettivo che al suo proposito ci siamo prefisso. Qui il problema epistemico si complica per uno slittamento dal piano della scienza a quello di un’arte che lavora meno nel campo concettuale che nel campo percettivo del fisiognomico[10], del déja-vu, della tipizzazione di una lunga esperienza di persone e di esistenze. Ciò non toglie affatto che il sapere concettuale di riferimento continui a rivestire un ruolo fondamentale di conoscenza e di legittimazione del nostro fare.
Accanto al problema del rapporto con la teoria,  il fare terapeutico pone un secondo problema legato alla struttura del campo psicopatologico di riferimento. Abbiamo ricordato che esso è per sua natura polimorfo e questo malgrado la natura insofferente di ogni psicopatologia verso le sue simili e il suo tentativo, mai riuscito ma mai rinnegato, di egemonizzare a suo profitto tale campo. Questo polimorfismo pone quel problema dell’ortodossia che Lanteri-Laura  ricordava con la sua ironia epistemica, di sapere cioè quale sia la psicopatologia vera che relega le altre nel campo dell’eresia. E val la pena di porre codesto problema proprio in questi termini di ironia per sapere cosa pensare di quelli – e non son pochi – che su di una psicopatologia giurano come su di una verità di fede in nome della quale sono anche disposti a propendere per l’intolleranza.
Per concludere su questo tema del curare come espressione del paradigma psicopatologico, diciamo che al di là delle varianti che esso ci ha mostrate, scopriamo un’invariante di fondo che lo caratterizza e che possiamo esprimere in modo quasi aforismatico col dire che: “non esiste terapia della follia senza una teoria della follia”.
Stando così le cose, in appendice a questo paragrafo viene allora da chiederci cosa ne sia della psicopatologia in quelle psichiatrie – e non son certo oggigiorno fra le marginali – che negano o rifiutano  di averne una pur sfociando ovviamente anch’esse su di un fare terapeutico. In merito si potrebbe tagliar corto e dire con facile ironia che codeste psichiatrie hanno una psicopatologia allo stesso modo in cui il ministro di un governo italiano del recente passato diceva di aver acquistata casa a Roma: “a sua insaputa”.
L’ironia è più che legittima ma non basta a spiegarci perché una psicopatologia passi per così dire in clandestinità per continuare a esercitare la sua funzione; e in effetti non si tratta di ironia ma di epistemologia.
Codesta eclisse della psicopatologia succede quando il suo paradigma non è più oggetto di quella riflessione storica e critica che continuamente lo rivede e che via via torna a riformularlo in termini nuovi; ché senza codesta continua rielaborazione esso  perde la relatività storica e culturale che gli è connaturata e finisce con l’irrigidirsi e impoverirsi a dogma. Così, il significato – provvisorio e relativo – che esso conferisce alla follia, venendo ripetuto acriticamente (dal coro degli osservanti, direbbe Cordero)[11], finisce per apparire una verità ovvia e definitiva, apparire come l’evidenza stessa della natura: un’evidenza che è semplicemente sciocco – o provocatorio – mettere in dubbio.
Un episodio che Bruno Callieri raccontava di sé stesso illustra codesta situazione in modo emblematico. “Tu sei un ragazzo intelligente” gli aveva detto un giorno il suo maestro Cerletti (grande esponente dell’organicismo, ndr)“ma con le chiacchiere (la fenomenologia, ndr) dietro alle quali ti perdi, in cattedra non ci andrai mai”. Così detto e così fatto.
3) Abbiamo dunque visto fin qui  due dei tre effetti del paradigma psicopatologico: fondare la psichiatria come intreccio di semeiotica e psicopatologia e fondare e legittimare il fare terapeutico non come esecuzione del dettato di una teoria psicopatologica ma come riferimento ad essa. Indichiamo  ora il terzo di questi effetti e che consiste nella ricaduta che esso ha sulle istituzioni della psichiatria e sulle leggi riguardanti gli alienati. E’ un effetto questo che, a differenza dei primi due, si verifica solo a lunga scadenza: per questa ragione, e pel fatto che vi interferiscono il potere legislativo e quello dell’amministrazione, non sempre è facile da ricollegare al paradigma psicopatologico da cui in certo modo discende. Ma qui ci viene incontro proprio l’argomento che stiamo trattando, la “180” essendo in materia un florilegio eccezionale di esempi: s’è  infatti annunciata all’insegna di una psicopatologia nuova e è approdata ad istituzioni inedite della psichiatria e ad una ugualmente inedita, e per così dire impensabile, legge sugli alienati.
 Naturalmente, vedere fra questi mutamenti e il paradigma psicopatologico un collegamento lineare e semplice è una sciocchezza che lasciamo a chi prova piacere a pensarla. Il percorso della “180” è stato infatti e come si sa un percorso storicamente reale[12] e quindi ovviamente ben altro che lineare ma fatto di realizzazioni e fallimenti, di ostacoli e di slanci, di proposte, inviti, fraintendimenti, ripulse, opposizione e sarcasmi da parte delle ideologie correnti e dei relativi interessi; e anche  fatto di sostegni seppure a volte peggiori delle peggiori ostilità, nel tutto non essendo mancato il tipico salto all’italiana sul carro del vincitore quando è stato chiaro che la “180”, come diceva il professore Fabio Visintini, ormai “aveva vinto”. Però, al di là della complessità di un iter storico che resta ancora in parte, e forse in buona parte, da chiarire, la novità della psicopatologia, dell’istituzione e della legge della psichiatria rimangono degli ineludibili punti di riferimento che caratterizzano la “180”.
Fin qui abbiamo dunque cercato di mostrare come la psicopatologia sia una istanza ineludibile della psichiatria contrapponendo degli argomenti alla sua negazione dogmatica da parte di certe psichiatrie attuali. Ora cerchiamo di vedere quale psicopatologia guidava la psichiatria del manicomio e quale psicopatologia ha animato la cultura della “180” in modo da cogliere i tratti strutturali dei due paradigmi sui quali si è consumato il conflitto da cui è uscita la nuova realtà della psichiatria italiana con un manicomio sconfitto almeno nella sua forma tradizionale da un lato e con la “180” in parte realizzata, in parte, “tradita”, come dall’altro si sente dire.
 
III. La psicopatologia del manicomio.
La psicopatologia della psichiatria del manicomio si caratterizza per due tratti che possiamo indicare come demenzialismo e organicismo; i quali  fanno capire come questa psichiatria pensasse il malato, il rapporto terapeutico, l’istituzione e la legge sugli alienati.
IIIa) Il demenzialismo.
Il demenzialismo è l’assunto che asserisce l’identità della follia e della demenza; l’idea cioè che la demenza non sia solo una aspetto clinico della follia, come appare in ogni nosografia  e già dalle nosografie più antiche, ma che tutta la follia sia, per sua essenza, una demenza.
E’ un’idea, questa, che appare in Francia alla metà dell’’800 con l’opera di B.A. Morel[13] e che rappresenta una vera e propria sterzata rispetto  ai paradigmi precedenti  che fanno testo come quello di Pinel o di Chiarugi[14]  che continuano a pensare la demenza come uno fra i diversi aspetti clinici della follia. Ma è un’idea in forte sintonia con la cultura del paese a quel tempo – un cattolicesimo sentimentale, e pessimista sul destino della creatura umana tarata dal peccato originale– e che conosce un successo duraturo presso la psichiatria dell’Occidente mettendovi un’ipoteca che, per certi aspetti, vi si ritrova tuttora. E rappresenta una sfida epistemica e clinica di tutto rispetto dovendo da una lato convincere della pertinenza dell’assunto paradigmatico che allega e, dall’altro, nel far apparire la demenza in quelle forme cliniche – e son le più – che con la demenza, stando alle nosografie classiche,  non han niente a che fare. Vediamo nell’ordine.
- L’assunto psicopatologico-filosofico del demenzialismo viene a Morel dalla sua antropologia biblico-cattolica, l’idea cioè che l’uomo, nato come creatura perfetta e immortale, va incontro a una degenerazione intellettuale, fisica e morale e, infine, alla morte perché guastato dal peccato originale. Questa Dégénérescence, iscritta nella sua natura, pesa sulla sua eredità, ed è un processo irreversibile che può essere sollecitato o accelerato dagli abusi non solo viziosi ma anche virtuosi delle proprie risorse fisiche e intellettuali.
La follia  per parte sua lo esprime con quei tratti caratteristici che consce la clinica e che si segnalano non solo con la mostruosità della perversioni ma anche con quel mostruoso affronto alla ragione che, per l’800, è il deliri;, affronto ancor più impressionante quando sia ad esordio precoce come succede in quel paziente che non a caso proprio Morel per primo descrisse e battezzò come demente precoce[15].
L’assunto di Morel riviene dunque a dire che la follia è iscritta come potenzialità nella natura stessa dell’uomo e del suo destino; ma benché questo assunto porti a individuare delle razze degenerate della specie umana, non è tuttavia aduggiato dall’ombra del razzismo alla de Gobineau[16] per essere la causa della follia, il peccato originale, una tara pendente su tutti e  ciascuno.
 In filigrana vi si legge anche un evoluzionismo darwiniano trascritto però nella sua versione involutiva, più consona al sentire del cattolico Morel. Il quale poi nella sua pratica manicomiale lo convalidava attraverso  molti dei suoi pazienti, spesso contadini inurbati dalla richiesta di manodopera dell’industria in espansione (gli operai dei colorifici di Rouen in particolare, quando fu Direttore a St. Yon) che fra intossicazioni professionali, abitazioni malsane, tubercolosi, sifilide e alcoolismo, parevano l’illustrazione vivente della regressione degenerativa dell’uomo. Questo dunque l’assunto psicopatologico che fa l’equazione di follia e demenza. Come si vede è l’a-priori filosofico-antropologico che da un senso dell’uomo e della sua follia e che permea di questo significato tutta la clinica.
- Quanto alla sua ardua conferma clinica la si può vedere nell’organizzazione nosografica di Morel. La quale riprende la forme correnti della clinica dell’epoca, dalle monomanie di Esquirol[17] alle prime descrizioni del delirio cronico alla Lasègue-Falret[18]; ma, in luogo di lasciarle alla loro disposizione orizzontale, organizza in una tipica successione verticale e consequenziale di gravità crescente la loro diversità di forme cliniche distinte e indipendenti. Il risultato è una psicosi unica a struttura gerarchica che si esprime per stadi successivi sempre più gravi e la cui piena espressione si distende su più generazioni di una stessa famiglia. E’ in effetti una malattia della stirpe e di essa il singolo malato di solito esprime solo uno stadio, salvo il caso di quel demente precoce sopra citato che tutta la sintetizza per cenni più o meno marcati nel breve volgere della sua adolescenza-giovinezza. Un malato che da Kräpelin in poi riempirà i manicomi, che all’epoca di Morel è ancora di rara individuazione ma di grande significato psicopatologico.
Codesta psicosi unica di Morel esordisce con i disturbi ossessivo-compulsivi (tipo i tics verbali, mimici o gestuali) per terminare qualche generazione più tardi nella demenza p.d. dopo esser passata, nel suo sviluppo tipico e completo, per gli impulsi psicopatici della seconda generazione (la piromania, la cleptomania, l’esibizionismo in particolare[19]), le crisi psicotiche acute (come la maniaco-depressiva o come le Bouffées deliranti[20], appannaggio appunto dei degenerati) della generazione successiva, e i deliri cronici interpretativi o allucinatori, organizzati o disorganizzati di quella ulteriore.
Nella validazione di codesta unità psicotica è evidente il ruolo della dimensione anamnestica che valorizza i tics nervosi del nonno alla luce del delirio disorganizzato del nipote  e che alla luce di questo schema permette di formulare la prognosi sul futuro di un giovane affetto da banali disturbi nevrotici o da disturbi del comportamento.
Certo il lettore attuale rimane perplesso, se non incredulo, a veder imputare alla demenza disturbi nevrotici che con la demenza non han nulla a che fare e che sono anzi a volte appannaggio di persone dall’intelligenza brillante.
Ma questa assegnazione la si capisce quando si ricorda la funzione che nella ragione sottolineavano gli alienisti dell’epoca di Morel – che è poi l’età vittoriana –: quella cioè di saper contenere e dominare gli impulsi dell’uomo, da quelli più banali a quelli più profondamente animali.  E’ per questa via che i tics nervosi possono apparire come indici di demenza appunto come prima incrinatura di una ragione colpita nella sua capacità di controllo[21]. Questa incrinatura, nelle sue prime manifestazioni, permette al paziente di rimanere consapevole, seppure in modo molto sofferto, della discordanza del suo comportamento rispetto ai valori etici personali e sociali ma facendogli perdere tale consapevolezza quando la demenza si dichiari con la sua prima espressione tipica, quella del deterioramento  delirante del giudizio.
S’è visto dunque che la conferma clinica del demenzialismo si documenta non tanto sul singolo caso clinico quanto sulla malattia della stirpe centrata in buona parte sulla dimensione anamnestica che abbiamo ricordata e su quella nosodromica che ricordiamo ora. L’idea cioè che è l’evoluzione delle forme cliniche a far testo, l’evidenza certa  degli stadi finali di esse consacrando la verità incerta delle loro forme di esordio[22].
Qualche cenno per concludere questo capitolo su certi lasciti che il demenzialismo ha consegnati alla psichiatria successiva dei quali se ne possono individuare almeno tre.
- Il più tipico direi che è stato quel fare pedagogico che ha caratterizzato  il manicomio fino alla sua chiusura e che ha tenuto luogo di terapia. Dal lato terapeutico, infatti, la psichiatria del demenzialismo è pessimista non solo per la sua quasi impotenza di mezzi ma per una conseguenza logica del suo assunto psicopatologico. Il processo degenerativo è infatti la ricordata fatalità evolutiva, pensare di fermarlo è spesso un’illusione e le sue remissioni spontanee sono da vedere con sospettosa riserva. Il ricovero manicomiale diventa, tranne eccezioni, un destino e si tratta allora di gestire la massa di degenerati che nel manicomio progressivamente si accumula. L’orientamento degli alienisti dell’epoca è appunto quello del manicomio pedagogico incentrato soprattutto sul lavoro, da cui le colonie agricole manicomiali spesso di notevoli dimensioni, con i loro numerosi vantaggi. Il più importante anche umanamente è di sottrarre i malati all’inerzia e al fetore del Reparto. C’è poi il doveroso contributo dei malati al loro sostentamento ma c’è anche il fatto che quel lavoro organizzato e diretto dagli infermieri impone l’apprendimento di regole e di gerarchie così costituendo la premessa di un possibile, eventuale reinserimento sociale del malato, anche se spesso solo micro-sociale nella forma di collocamento etero familiare presso gli infermieri-contadini.
- Oltre al manicomio pedagogico, anche l’attenzione per la prevenzione può considerarsi in  buona parte un lascito dell’alienistica del demenzialismo essendo la prevenzione il campo in cui quei nostri predecessori potessero fare qualcosa di concreto. Morel racconta di aver persuaso il re Cristiano IX di Danimarca a adottare il proibizionismo come argine ad un alcoolismo che era un vero flagello sociale del suo paese. Ma quasi emblematico in materia il libretto di Ulysse Trélat[23] sulla follia lucida che metteva in guardia contro i matrimoni combinati specie fra rampolli di famiglia nobile, ridotta in miseria dalla Rivoluzione e sue sequele ma pur sempre titolare di un blasone prestigioso e desiderato e rampolli di famiglia borghese arricchita con la vendita dei beni ecclesiastici e le rapine delle guerre napoleoniche e che a quel blasone aspirava per dare un lustro ai suoi soldi.
- Ricordiamo infine un terzo lascito del demenzialismo, quel concetto di alienato che ormai consolidato nel comune sentire sarà anche a fondamento della legge italiana del 1904: un degenerato per definizione demente e impulsivo che si declina quindi come “pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo.”
Per concludere questo capitolo, c’è da dire che codesto modo di pensare gli alienati, e che il tardo ‘900 ha rifiutato, era invece all’epoca in sintonia col comune sentire, gli alienati non essendo considerati un caso a parte di sub umanità  ma rientrando in quella più generale sub umanità o umanità incompleta, rozza, da plasmare a cui, per i bianchi colonizzatori, appartenevano i selvaggi e anche i bambini e che si trattava di educare e recuperare ai valori della civiltà. Il manicomio era l’istituzione specializzata nel recupero (eventuale) degli alienati alla società organizzata come il colonialismo era addetto al recupero dei selvaggi e la pubblica istruzione a quello dei bambini. Il recupero riguardante gli alienati e i bambini appare in Italia nella sincronia fra legge dell’istruzione e legge del manicomio benché a una prima impressione codesta sincronia possa sfuggire. Infatti la prima legge sull’istruzione obbligatoria dell’Italia unita è  notoriamente la Coppino del 1877 e la legge sul manicomio è del 1904; ma la Coppino rimase in gran parte lettera morta per quello che riguardava l’obbligo scolastico perché, ho letto da qualche parte,  nessuno era disposto a farla seriamente rispettare (né i genitori, né i direttori scolastici, né i Carabinieri). La legge che in materia cominciò seriamente a funzionare è quella del Nasi del 1903.
Dopo aver così cercato di dare un’idea del primo tratto caratterizzante la psichiatria del manicomio e cioè il demenzialismo, veniamo ora al suo secondo tratto paradigmatico e cioè l’organicismo.
 
III b) L’organicismo
L’organicismo in psichiatria è notoriamente l’idea che le manifestazioni psicopatologiche siano espressione di alterazioni del funzionamento cerebrale la cui materia obbedisce a leggi precise. A queste leggi, lasciano un margine oscuro di insondabilità certe versioni vitaliste dell’organicismo stesso mentre altre versioni di esso propendono per un determinismo stretto che secondo Henri Ey[24] aveva prevalso nella psichiatria dalla fine dell’800 in quella forma che egli, non a caso,  chiama organo-meccanicismo.
L’organicismo si afferma in psichiatria come concetto operativo verso la fine dell’800 grazie in particolare alla scoperta delle localizzazioni cerebrali del linguaggio (Broca, 1861[25]; Wernicke, 1874[26]). Il linguaggio infatti, come funzione tipicamente umana, si ritiene che possa dare indicazioni decisive sulla patologia psichica (il delirio è espresso in un discorso) e eventualmente sulle possibili vie per aggredirla, indicazioni che potevano dare solo in parte le localizzazioni già note di senso e di moto comuni con gli animali. Per illustrare in concreto codesta speranza si può ricordare l’affermazione di Magnan[27] che considerava  l’onomatomania (impulso irresistibile a pronunciare senza ragione un nome) come segno dell’ipereccitamento di quel centro verbo-motore di Broca che nell’afasia andava distrutto. Ma diceva anche, Magnan, che la chiave del delirio risiedeva nello squilibrio fra il “cervello posteriore”, situato dietro la scissura di Rolando e a cui afferiscono le sensibilità – col loro impasto di emozioni -  e il “cervello anteriore” situato al davanti della scissura di Rolando e sede della ragione. Ragionamenti puramente analogici, faceva notare Lanteri-Laura, che venivano però presi sul serio per esser sottesi dalla certezza insita nello spirito dell’epoca di una loro conferma clinica o sperimentale a breve scadenza.
L’organicismo porta in sostanza alla trasformazione della psichiatria in neuro-psichiatria con vantaggi e svantaggi.
Il vantaggio è soprattutto il fatto che la psichiatria diventa una patologia d’organo acquistando così quella dignità di scienza medica che lo psicologismo antropologico della Dégénérescence non era riuscito ad acquisirle; e questo nell’ambito di una trasformazione globale della medicina che  va ugualmente orientandosi a patologia d’organo.
Ma va notato che la patologia d’organo appare qui non più nei termini generici quali per esempio quelli spesso citati di Griesinger (“le malattie mentali sono malattie del cervello”), ma nei termini che ho detto appunto “operativi” perché specificati in un’articolazione di centri nervosi che promettono la possibilità di interventi mirati e differenziati. In merito si potrebbe citare la teoria delle allucinazioni acustico verbali di Tanzi e Tamburini (1883)[28] che leggeva tali allucinazioni come epilessia dei centri psico-sensoriali dell’udito mettendo così un fenomeno clinico complesso alla portata di un intervento farmacologico in un futuro assai vicino (il Veronal è del 1903) e, un domani più lontano, anche di un intervento chirurgico.
Per contro, gli inconvenienti dell’organicismo, di cui il maggiore  è la trasformazione della figura del paziente e del rapporto con esso; il che si coglie in particolare nell’ottica della semeiotica che mira a elidere gli aspetti soggettivi del vissuto del paziente a pro’ di segni il più possibile obiettivi e semplici con l’idea che solo attraverso questi si potrà individuare il “centro nervoso” sede di volta in volta del “meccanismo generatore del disturbo psichico” sia esso il delirio, l’allucinazione, la distimia o l’ossessione[29]. Nella psichiatria francese del primo ‘900 è particolarmente evidente questo viraggio attraverso la nosografia dei deliri la cui classificazione tradizionale per contenuti, assai farraginosa, cede il passo ad una classificazione più sobria basata sul meccanismo generatore di cui si individuano cinque varianti: l’interpretazione (Sérieux & Capgras)[30], l’allucinazione (Gilbert Ballet)[31], la passione e l’automatismo mentale (Clérambault)[32], l’immaginazione (Dupré & Logre)[33].
In questa trasformazione nosologica, la psicosi unica alla Morel perde terreno a favore di un ritorno alle malattie mentali diverse e distinte fra cui la demenza che riprende la sua tradizionale autonomia; la quale però pur perdendo il suo monopolio semantico assoluto, conserva comunque una notevolissima estensione in forma di Demenza precoce.  Tuttavia, questo demenzialismo si libera dell’ombra pessimista e fatalista delle Dégénérescence di Morel perché assiato nella prospettiva della possibilità terapeutica dell’organicismo.
Correlativamente cambia il Manicomio seppure non nei fatti ma nel suo significato: non più l’”asilo” a ospitare a vita la specie diversa dei degenerati ma l’ospedale dove i cronici sono solo parcheggiati in attesa che il “farmaco risolutore” permetta di avviare alla guarigione le loro forme morbose. Nell’attesa, il manicomio continua ad essere, e lo rimarrà fino alla fine, il grande istituto incentrato sulla pedagogia del lavoro e delle gerarchie di medici e di infermieri.
Nel 1953 arriva il farmaco (RP 4560, Largactil)  che pur non rivelandosi risolutore è  tuttavia il primo farmaco specifico della psichiatria. Ma c’è da chiedersi come mai codesto farmaco non abbia permesso di “svuotare” i manicomi ma, come diceva ironicamente Lanteri-Laura, abbia solo permesso di renderli più silenziosi. Val la pena di soffermarsi su codesta riflessione perché rappresenta una prospettiva molto significativa a cogliere il ruolo del paradigma psicopatologico.
Infatti il paradigma organicista che dominava ancora nel 1953 si rappresenta la malattia mentale sul modello internistico di cui il paziente è “portatore”, che egli subisce come si subisce la polmonite o la nevrite e la cui guarigione si identifica con la scomparsa dei sintomi per l’azione del farmaco. Per cui, finché non scompaiono i sintomi non si parla di guarigione e quindi nemmeno di dimissione se non in maniera parziale e molto prudente e solo per i casi che paiono, per il momento, compensati. In questa ottica, i Manicomi resteranno ben popolati.Ciò che permetterà di svuotarli (e di chiuderli) sarà in effetti un diverso paradigma psicopatologico –nella fattispecie un paradigma fenomenologico- che darà alla malattia mentale il senso di una forma di esistenza che il malato ha diritto di realizzare ovviamente nella “città” –il che implica la sua dimissione- a
questo essendo aiutato con vari sostegni, fra cui anche quello, certamente importante, dei farmaci.
Come si vede, i malati mentali si pensano e si trattano a seconda di come il paradigma psicopatologico della cultura in cui viviamo ci fa pensare la follia.
 
Abbiamo dunque cercato di mettere in chiaro i tratti della psichiatria italiana del tardo manicomio che verrà a configgere con la nuova cultura della 180.
Come s’è visto, si tratta di una neuro-psichiatria dove la psichiatria è decisamente in subordine alla neurologia.
 Questo lo si poteva vedere in modo icastico dai testi su cui all’epoca si preparava l’esame di “malattie nervose e mentali”: in molti Atenei, codesti testi erano i due libri del professor Gozzano, quello di neurologia di circa 900 pagine e il manualetto di psichiatria –detto il Gozzanino – di un 200 pagine. Una proporzione che parla da sé.
Codesta neuropsichiatria è impostata su di un paradigma organicista con sentori di demenzialismo e ha l’inconveniente di “reificare” il paziente mettendo da parte gli aspetti più soggettivi del suo vissuto. Ma questi connotati non impediscono  al suo paradigma di essere uno fra i tanti possibili  e godere di piena legittimità epistemica. Tuttavia presenta due limiti che saranno poi anche gli spigoli del suo maggiore attrito con la cultura nuova della 180.
- Il primo limite è la sua riduzione ad assunto dogmatico per l’indifferenza, se non l’ostilità, della neuropsichiatria italiana nei confronti di quella ricerca storica ed epistemologica senza la quale, come ho ricordato, si perde la possibilità di una psichiatria vivente e a misura d’uomo; e la sua conseguente indifferenza, se non l’ostilità, verso le novità della fenomenologia, della Daseinsanalyse e, anche se per ragioni diverse, della psicoanalisi.
- Il secondo limite è la tolleranza che la reificazione del malato aveva indotta nei confronti di un manicomio ritenuto un male necessario ma che in molti casi aveva difficoltà a sostenere il suo titolo di Ospedale per esseri umani.
E’ vero che sul manicomio italiano gravava un difetto di origine dovuto alla concessione che il Giolitti[34] (Ministro dell’interno e promotore della legge del 1904) aveva dovuto fare ai notabili riottosi a sobbarcarsi “la spesa per la cura degli alienati poveri”: cioè di lasciar decidere a loro, provincia per provincia, i parametri del personale. Col risultato di un infermiere ogni 15-20 letti e un medico ogni 200 ammalati, la pratica corrente delle celle e delle contenzioni. Il manicomio italiano nasceva  così con degli aspetti da “Fossa dei serpenti”, cosa che  gli alienisti denunciarono fina dal 1905 come ha raccontato G.B. Giordano[35], nel ‘900 uno dei primari storici del Maggiano di Lucca e gran conoscitore di archivi e documenti; e chiesero i debiti miglioramenti in nome di una comprensione umanitaria, eventualmente assortita dei doveri della carità, nei confronti degli ammalati. Ovviamente, non li potevano chiedere in nome dei diritti del cittadino, non tanto perché gli italiani erano dei sudditi per quanto la monarchia fosse costituzionale ma perché “l’associazione al manicomio” comportava, a norma di legge, la cancellazione dei diritti politici e civili del ricoverato. Per trovare nella psichiatria italiana la tutela dell’ammalato come cittadino, bisogna aspettare il Basaglia che intrecciò i diritti del cittadino con la prospettiva del nuovo paradigma psicopatologico: e siamo agli inizi degli anni ’60 del ‘900. In Francia, tanto per fare un paragone,  tale richiesta era stata avanzata fin dal 1944 da Daumézon, Le Guillant e Bonnafé, allora giovani ufficiali medici, con l’idea essere inammissibile che cittadini incolpevoli fossero trattati in istituti di cui apparivano sempre più evidenti certe rassomiglianze col Lager nazista man mano che di questo giungevano notizie sempre più precise e attendibili. A questa rivendicazione civica, il paradigma fenomenologico faceva da sfondo e sostegno essendo stato acquisito alla psichiatria, come ho ricordato,  da Henri Ey già con il suo saggio del 1936 e poi con gli articoli che a questo seguirono negli anni. E’ con questa rivendicazione che nasce l’idea del “settore”, che per lustri è stato l’assetto della psichiatria francese e il suo modo non ideologico, ma civico-deontologico, di superare il manicomio. E siamo nove anni prima della comparsa del Largactil.

IV. La cultura della “180”.
Vediamo ora i tratti della cultura della 180 che va a scontrarsi con il manicomialismo organo meccanicista della psichiatria italiana. Questa cultura appartiene al movimento di ispirazione fenomenologica e daseinsanalitica che è apparso fin dagli anni ’20 del ‘900 nella psichiatria europea  e che si impernia sull’idea cardine della follia come uno dei tanti mondi che intenziona la coscienza intesa in senso husserliano, mondi dotati di senso e che per questa via fanno dell’alienato un interlocutore col quale è strutturalmente possibile il dialogo e ben diverso dal degenerato-demente che dal dialogo umano è escluso per definizione.
Rispetto al demenzialismo della neuropsichiatria dell’epoca, è evidente il significato rivoluzionario di questa posizione; ma è anche altrettanto evidente che fra enunciare una rivoluzione e realizzarla c’è una bella differenza. Per cui si tratta di vedere come Basaglia, appoggiandosi alla fenomenologia, sia riuscito a realizzare la “rivoluzione” della 180, cosa che si può capire se si tien presente che  col metodo fenomenologico ha investito non solo la psicopatologia ma anche l’istituzione manicomiale.
In questo fare non era un innovatore radicale ché la sua iniziativa si avvale di esempi inglesi e francesi che mostravano il superamento del manicomio come una pratica già da tempo avviata anche se con rapporti diversi con la fenomenologia.
Il suo riferimento inglese era Maxwell Jones che prospettava il superamento del manicomio attraverso una comunità terapeutica riprendendo una pratica ottocentesca del Connolly. Era soprattutto un’iniziativa pratico-empirica tipica degli anglosassoni. Con riferimenti teorici sia fenomenologici che psicoanalitici erano invece le iniziative anch’esse anglosassoni di Laing da un lato e di Cooper dall’altro, ma su in un ottica diversa da quella di Basaglia.
Dal lato francese invece non c’era solo l’esempio pratico del “settore” come tecnica di superamento del manicomio ma c’era anche l’intreccio di codesta pratica con la fenomenologia che Basaglia molto assimilò dall’ambiente parigino, frequentando fra l’altro il salotto di Sartre e di Simone de Beauvoir. In Francia , infatti, la fenomenologia era stata, come ho già accennato,  introdotta nella psichiatria per opera di Henri Ey che la ufficializza fin nel suo Manuel del 1963 come prospettiva di comprensione della alienazione sia nelle sue forme acute come destrutturazioni della coscienza (ansiosa, oniroide e confuso-onirica) sia nelle sue forme croniche  deliranti come ricostruzione di un mondo vivibile. E H. Ey è un personaggio di grande autorevolezza sia per la sua teoria dell’organo-dinamismo, nelle intenzioni un contraltare della psicoanalisi,  che per la sua “opera militante” che lo porterà a organizzare a Parigi il primo Congresso mondiale di psichiatria (1950), poi alla presidenza della Associazione mondiale della psichiatria e alla Dichiarazione di Honolulu sui diritti degli alienati, in difesa dei malati e in polemica col manicomio politico dei sovietici dell’epoca. I tre volumi dei suoi Etudes sono un susseguirsi di esempi di descrizione fenomenologica.
A Minkowski, che vive e lavora in Francia fin dalla prima Guerra mondiale, Ey riconosce il merito di aver fatto conoscere l’indirizzo fenomenologico che è, come si sa, di matrice germanica (Minkowski parla tedesco oltre che  francese, ma parla anche l’inglese e un po’ di italiano, di madrelingua essendo russo e polacco), e di averne segnato il percorso con opere fondamentali come La Schizofrenia, Le temps vécu, il Trattato di psicopatologia.
Lanteri-Laura sarà uno dei suoi allievi che svilupperanno la psicopatologia fenomenologica, così come Blanc; forti riferimenti ad Heidegger si trovano nell’opera di Lacan mentre Sven Follin farà nella fenomenologia un percorso autonomo. A Marsiglia, il grande Tatossian e la sua Scuola: Giuidicelli, Azorin, Naudin…)
In Italia la psicopatologia fenomenologica è presente specie nella versione daseinsanalitica per merito di un gruppo di psichiatri alcuni del lombardo-veneto (Morselli, Cargnello, Calvi, Bovi, Borgna, Beluffi, Barison, Gozzetti, Cappellari), con Gentili, Muscatello, Giacanelli e Ballerini a Bologna, a Roma con Priori, Callieri, Frighi, Semerari, e più giovani, Mellina e Gaston. Ma nell’ambiente neuropsichiatrico dell’epoca (diciamo dagli anni ’50 del ‘900) la sua portata innovativa non viene nemmen percepita per l’impermeabilità a queste idee del credo positivista che quell’ambiente caratterizza e che relega codeste “novità” fra le “chiacchiere” dei filosofi col risultato di portare codesti studiosi ad un isolamento che per alcuni si raddoppia dell’amaro auto isolamento della persona colta che si vede incompresa, come ha ben notato Mario Rossi-Monti[36].
Come esempio di questa incomprensione si può ricordare la comparsa della traduzione italiana dello Jaspers (1964) ad opera di Romolo Priori: il libro andò a ruba per esser stato preceduto dalla reputazione di testo difficile sì ma capace di aprire la via alla comprensione dell’incomprensibilità della schizofrenia; ma questa illusione svanì quasi immediatamente per risultare il libro poco intellegibile ai più per il linguaggio che parlava e per capire il quale occorreva una preparazione filosofica estranea alla maggioranza degli psichiatri dell’epoca, estranea soprattutto alla scuola che li formava. E gli irriducibili che non si rassegnarono allo scacco  continuarono ad accanirsi  sullo Jaspers pur riuscendo solo a consultarlo come manuale di semeiotica.
 
V. L’interpretazione di Basaglia.
La posizione di Basaglia si caratterizza, come ho detto,  per aver investito con l’analisi fenomenologica non solo il vissuto del paziente ma anche il manicomio. Questo secondo tratto lo distingue dagli altri psichiatri fenomenologi italiani dell’epoca che avevano semmai cercato di creare all’interno dei loro manicomi delle nicchie di un rapporto di “comprensione” con l’ammalato[37] ma che non avevano pensato, o osato, attaccare l’istituzione. D’altra parte, l’attacco basagliano al manicomio non era il semplice aggiungere un altro “oggetto di studio” a quello della psicopatologia ma aveva il significato ben più ampio di reimpostare nei fatti la posizione del malato come cittadino e farlo affacciare al mondo di tutti. Era uscire dal chiuso e dalle disumane maleolenze dell’”Ospedale psichiatrico”.
Va) La psicopatologia fenomenologica.
Il Basaglia psicopatologo si segnalò per una serie di lavori discordanti nel coro organo-meccanicista di convegni, congressi e riviste dell’epoca. Fra questi io privilegio “Corpo, sguardo e silenzio. L’enigma della soggettività in psicopatologia” non solo per la sua qualità e per la sua chiarezza ma perché mi permise per la prima volta di capire qualcosa in quella fenomenologia della quale avevo deciso di fare il senso della mia avventura di psichiatra. Quel testo lo conobbi come sua relazione ad una delle riunioni (1965) della Sezione veneto-emiliana della Società italiana di psichiatria, a Parma, dove io ero alla clinica di Visintini, Basaglia[38] essendo all’epoca assistente di Belloni a Padova. Poi i suoi vari studi sull’ipocondria, la stato d’assedio dell’alcoolallucinosi, la struttura del delirio paranoide. Ma ricordo anche la relazione che fece al Congresso Sip di Pisa (1966) su “Deliri primari e deliri secondari”nella quale prese una posizione critica sullo Jaspers così confermando l’adesione rigorosa che ha sempre poi mantenuta alla descrizione eidetica e per questo rimanendo nettamente distinto da quei sedicenti fenomenologi jaspersiani che pensano tuttora di scavalcare l’incomprensibilità del delirio attraverso un fumoso intuizionismo pararomantico a rigore di fenomenologia anche ridicolo.
Dal lato della psicopatologia, Basaglia proponeva dunque la follia come un vissuto comprensibile e illustrando con i suoi esempi, come vuole il metodo fenomenologico, che tale comprensibilità non si centrava sui contenuti deliranti ma sulle strutture che li sottendono: nel suo caso, in particolare il corpo vissuto. Questo atteggiamento ermeneutico si distaccava rispetto alla neuropsichiatria che aveva preso il problema del delirio per i contenuti arrivando a concludere in merito alla loro nota incomprensibilità demente; ma si distaccava anche da Jaspers aveva finito per urtare nello stesso ostacolo per aver preso la stessa via, anche se l’aveva percorsa con quella diversa attenzione che l’aveva portato a valorizzare l’aspetto vissuto dei contenuti deliranti,  affacciandosi così all’inizio di un percorso fenomenologico sul quale tuttavia, come dice Tatossian[39], non aveva voluto incamminarsi.
Basaglia ci s’era invece incamminato con decisione e gli esempi che ho appena citati sono solo alcuni dei tanti che egli ha illustrati.  E li ha illustrati con una prosa che aveva una sua armonica e fluida chiarezza, non priva di un fascino letterario che spiccava sulla secchezza spesso spigolosa del canone corrente della prosa scientista di allora.
Questo però non contribuiva a procurare consensi alla sua psichiatria fenomenologica che i colleghi meglio disposti continuavano a considerare un ricamo elegante (il contrappunto, mi disse un collega fiorentino con l’ironia folgorante e mordace di quella gente)  sul bordo del rude sapere/fare clinico positivista; e alla quale altri non risparmiavano addirittura i loro sarcasmi. Malgrado tuttavia codesta resistenza dell’ambiente neuropsichiatrico positivista, l’idea dell’alienato come persona, a cui rivolgersi come paziente e anche come cittadino, cominciò a farsi strada almeno fra gli psichiatri più giovani stanchi e delusi dell’organo-meccanicismo, e fra questi alcuni si trasferirono  addirittura  a Gorizia per lavorare gomito a gomito con Basaglia.
 
Vb) L’attacco al manicomio.

Basaglia impostò il suo attacco al manicomio col leggere in termini fenomenologici l’operazione che esso aveva fatto sul paziente e che era consistita nel ridurlo a caso clinico mettendo fra parentesi tutto ciò che egli era come persona con la sua storia. Questa epochè  manicomiale imponeva però, a rigore di metodo fenomenologico, di essere completata, una volta inquadrato il caso clinico, col togliere la persona dalle parentesi in cui era stata accantonata e andare a metterla in primo piano ricostruendone in particolare la storia. Nella pratica del manicomio però questa seconda operazione non era mai stata fatta col risultato di ridurre i pazienti così totalmente a “caso clinico” da individuarli non più col loro nome e cognome ma col tema del loro delirio.
Ricordo che quando mossi i primi passi nel manicomio (1962), colleghi e infermieri mi presentavano i malati come “quello che regala una cannoniera”, “il professore che copia il vocabolario”, “il figlio del macellaio” (che mi spiegava come, per ordine di Dio, avesse ammazzato sua padre e sua madre con la doppietta e non con i coltelli e le mannaie di cui il negozio abbondava e di cui, precisava, solo un volgare assassino avrebbe potuto servirsi); la “signora dei nanetti” ( che aveva brividi di orgasmo per le repentine incursioni che ogni tanto le faceva nelle parti intime un trenino di nanetti volanti); e così via di seguito. Il nome anagrafico di questi ammalati era consegnato alla cartella ed era lì che andava cercato se lo si voleva sapere con precisione. Nella quale cartella le notizie biografiche della persona erano però presenti solo all’ingresso nella forma di anamnesi e di descrizione “medicalista” ma anche queste lasciavano ben presto il posto alle notizie del suo spersonalizzante adattamento  alla routine del manicomio di cui finiva per essere un anonimo  ingranaggio: tranquillo, poco socievole, sporco, laceratore, governabile, impulsivo, ammesso a spazzare il reparto …. Anche le notizie di visite dei familiari andavano via via rarefacendosi, spesso ridicendosi all’attaccamento di una vecchia madre che durava, a memoria di infermieri, finché l’età o una malattia non lo cancellassero.
Prendendo in mano questo manicomio, Basaglia lo affrontò invertendo l’epoché sulla quale si era fondato e dando esempi della epochè opposta: mettere cioè fra parentesi il delirio (temporaneamente, come vuole il metodo) e andare a vedere chi era il delirante come persona, la sua storia, i suoi ricordi (“dell’altra vita”, come dicevano certi pazienti con amara ironia), gli affetti e le relazioni che ancora gli rimanevano, il suo eventuale “avere” (beni, rendite …); e questo attraverso il noto metodo delle riunioni terapeutiche e il lavoro di un Servizio sociale efficiente e non ideologizzato.
La storia della dissoluzione del manicomio italiano che così cominciò è una storia così nota –e, a dire il vero, non priva di connotazioni da epopea-  che spesso ritorna anche nei “media” attuali con articoli e filmati e non è quindi il caso di indugiarvi con ripetizioni e pleonasmi. Se ne possono ricordare come punti icastici il ritorno dell’abito civile degli ammalati al posto delle orribili casacche del manicomio, dei rapporti da persona a persona fra personale e ammalati con la reciprocità del “lei” al posto dei rapporti diciamo eufemisticamente “gerarchici” della tradizione manicomiale, della comparsa dei “ricchi di manicomio” una volta che la ricostruzione di quelle dimenticate biografie fece uscire dai cassetti della burocrazia beni, lasciti, eredità, pensioni di guerra accumulatesi da anni; in una parola, le tappe  della riscoperta della persona, e del cittadino dietro le sembianze del malato da manicomio.
La conseguenza ultima di questa ricostruzione del cittadino era il ritorno dell’ammalato nel luogo dove i cittadini vivono, cioè nella città e lì il ripristinare quell’antico dialogue avec l’insensé (come lo chiamò Gladys Swain[40]) che  della cultura della 180 era l’obiettivo ultimo e alto. E’ nella prospettiva di  questo obiettivo, di come sia stato raggiunto o mancato, che si può cercare di capire cosa la 180 sia diventata realmente, al di là delle risse ideologiche che continuano a offuscarne la comprensione.
 
VI) Il progetto, la cultura, la politica.

1) La carenza culturale.
La prima operazione che a rigor di fenomenologia richiedeva il ritorno in città del paziente di manicomio era di togliere la sua dimensione di alienato dalle parentesi in cui era stata messa temporaneamente per dar campo alla ricostruzione della sua biografia e tale dimensione esplicitamente affrontare e approfondire. Questo significava anche inquadrarlo in quella diagnosi di nuovo genere che richiedeva il territorio, una diagnosi cioè relazionale, ben diversa dalla diagnosi reificante del manicomio e tutto  il contrario di un  tornare a emarginare il malato come strillavano gli ideologi di turno. Significava solo riconoscergli, attraverso la diagnosi, la qualità che ne faceva un interlocutore sui generis da agganciare in un dialogo al quale la scommessa della 180 ci sfidava.
Solo che codesto dialogo con l’insensato richiedeva la mediazione di specialisti che andavano dai medici psichiatri a educatori vari, in particolare ad  infermieri come quelli che per esempio i CEMEA[41] francesi andavano preparando da anni con il compito originale e di notevole autonomia di condividere col paziente la quotidianità, compito ben diverso da quello dell’infermiere tradizionale, esecutore di ordini del medico. Questo infermiere di nuovo genere diventava per il paziente un polo di riferimento diverso da quello medico  con questo aprendo  un confronto e una dialettica di indubbia efficacia terapeutica. Ma questo personale nell’Italia di allora era rappresentato da pochi esemplari fioriti nelle isole di esperienza basagliana e  la cui moltiplicazione non aveva trovato il sostegno che l’insegnamento universitario avrebbe dovuto darle per istituto. Questo fece si’ che la specificità del paziente psichiatrico rimanesse, come avrebbe detto Lanteri-Laura, un significante in cerca di un significato,  e senza per giunta quella tutela di un sapere psicopatologico forte che la mettesse al riparo del primo significato che le venisse imposto.  Il gioco passava così di mano, dal sapere al potere e all’ideologia.
 
2) Il recupero affaristico dell’ideologia.
Insomma, il ritorno dell’alienato nella città la 180 era riuscita a conquistarlo e questo anche grazie agli scandali che da Torino a Prato a Bisceglie[42] avevano scoperchiato la pentola del manicomio rendendolo ormai improponibile in qualunque discorso di persona seria e civile. Ma si trattava di sapere chi questo alienato fosse esattamente, quale fosse il suo significato e, mancando in proposito come ho detto una cultura specifica capace di significare la sua particolarità nell’essere concittadino e interlocutore, spuntarono gli ovvi tentativi di colonizzare tale significato. Fra i quali si può ricordare quello sedicente di sinistra a fare dei malati mentali le truppe di riserva della rivoluzione imminente, o quello più soft di matrice cattolica a fare dell’alienato uno di noi all’insegna della comune sofferenza del vivere. Tutti questi tentativi avendo una caratteristica comune: la astrattezza ideologica che essa derivasse da quella ignoranza/arroganza allora di moda o dalla durezza di appartchiki usi a imporre con la forza il significato del mondo.
Comunque questi tentativi, nel loro convulso intrecciarsi, finirono per assestarsi su un significato della follia come problema di bisogni, soddisfatti i quali gli ammalati si sarebbero calmati; ovvero, nella versione più radicale, non avrebbero più avuto motivo di rivendicare tali bisogni delirando, il giorno che la rivoluzione proletaria (imminente) li avesse soddisfatti.
E’ per questa via che ha avuto luogo la banalizzazione ideologica della follia a problema sociale centrato sui bisogni, con buona pace di tutta la psicopatologia, da quella psicoanalitica a quella fenomenologica, convinte che la follia sia un problema di desiderio ovvero un problema dell’immaginario e non un problema del reale. Cosa che Lanteri chiosava con malcelato sdegno e in un italiano che da nizzardo ben padroneggiava, dicendo: “Certo, tutto si risolverà quando il malato potrà soddisfare i suoi bisogni”.
Ma questa lettura della follia si sarebbe estinta per la sua inconsistenza come molti altri slogans del ’68 se il potere allora in auge non l’avesse sostenuta con i suoi potenti mezzi per avervi intravisto la possibilità di un grosso affare che andava dalle Case di Riposo alla colonizzazione del Servizio sociale attraverso gli alienati.
Infatti, la banalizzazione dei “matti di manicomio” a casi sociali copriva in qualche modo il loro trasferimento massiccio nelle Case di Riposo[43] e serviva anche, seppure un po’ forzatamente, a rassicurare i cittadini che quei “casi sociali” si fossero trovati come vicini di casa.
 D’altra parte, la colonizzazione del Servizio sociale offriva un mezzo di penetrazione ulteriore alla parte politica che di questo Servizio si fosse impadronita.
C’è però da dire che questa banalizzazione sociologistica della follia era tutt’altro che facile andando a urtare contro il senso comune, che la “diversità del matto” la conservava ben chiara seppure nei termini ormai obsoleti e improponibili del manicomio, e andando a suscitare la seria ostilità della psichiatria accademica rimasta, nel suo  organo-meccanicismo  psicofarmaco logista, ben ancorata alla specificità della follia. Per questo furono reclutate le truppe che la propagandassero e sostenessero come una crociata[44]  in forma di assistenti sociali e psicologi dalla formazione dubbia e dalla ideologia certa, collocati nelle file della sanità pubblica (allora le USL) in funzione essenzialmente antitetica a noi camici bianchi, equiparati ad aguzzini di stato.
 
VII) Un regard éloigné

Ad uno sguardo sulla situazione che si lasciano dietro tutte codeste vicende,  ci si può domandare cosa sia divenuta la cultura della 180 aiutandoci per averne un’idea col  riferimento ad alcuni elementi situazionali valutabili.
Un primo elemento è la posizione della psichiatria fenomenologica che non è riuscita ad affermarsi diffusamente e crescere man mano che la psichiatria del  manicomio declinava e andava in crisi. L’operazione culturale che doveva sostenerla era infatti in ritardo e questa psichiatria è rimasta nella necessità di farsi largo partendo dai focolai sparsi che era riuscita ad accendere. A proposito dei quali resta però da sapere quale di essi appartenga al metodo fenomenologico eidetico rigoroso, altri avendo piuttosto l’aria di proporre come atteggiamento fenomenologico un intuizionismo pseudoromantico dai tardi sentori sessantotteschi trattando in particolare  disinvoltamente i concetti di empatia e di Einfühlung rendendo così più motivata la storica riserva che la psichiatria organicista ha da sempre nutrito nei suoi confronti.
Altro elemento di rilievo è l’impregnazione ideologica che è rimasta come sentore di molti servizi psichiatrici e che si è precisata in una pratica psichiatrica banalizzata ad un socio-assistenzialismo volontarista umanitario e para-dilettantesco. La quale pratica, non essendo ovviamente stata capace di far fronte seriamente al malato  mentale, ha finito con dare così nuovo slancio e credito a quella psichiatria psicofarmacologica pura e dura che aveva esecrato fin dov’è stato possibile e alla quale l’innovazione basagliana aveva invece  tolto terreno.
Codesta banalizzazione sociologistica della follia è stata di certo la ricaduta più pesante dell’operazione politico-ideologia che ho ricordata e che ha lasciato alla psichiatria italiana un danno non solo operativo ma anche culturale come perdita da un lato del suo sapere/fare specifico e, dall’altro, del suo specifico riferimento psicopatologico.
 
VIII) Le dialogue avec l’insensé.

Stando a questi indici, sembrerebbe quasi obbligatorio concludere per un fallimento della cultura della 180 anche se questo fallimento parrebbe da imputare meno ad una inconsistenza di questa cultura che alla irruzione destruente  che vi ha fatta il potere politico di allora. Il fallimento è comunque la conclusione a cui arrivano molti scritti sull’argomento anche se il loro apriorismo ideologico li rende sconsolatamente poco istruttivi. Per arrivare a qualcosa di più accettabile possiamo continuare a procedere per indizi.
Il punto centrale è di sapere se l’alienato sia stato reintrodotto nella città  a titolo di interlocutore oppure no. E’ questo un obiettivo che pare a volte raggiunto a volte mancato. A sostegno del suo raggiungimento si citano a volte gli esempi di qualche Servizio pubblico, altre volte di un’iniziativa privata che funzionano bene, esempi eidetici che rimangono però minoritari. Per questo li si vede additati a volte col rimpianto di ciò che la 180 avrebbe potuto essere, altre volte col risentimento di ciò che le è stato impedito di essere.
Come esempi dell’obiettivo mancato si citano al contrario i Centri che albergano malati mentali (e sono di gran lunga i più) dai quali non raramente emergono notizie di maltrattamenti di antica memoria, a volte picco di un iceberg di ben altre dimensioni, così  suggerendo che tutta l’operazione della 180 sia finita in un ritorno al manicomio.
In proposito c’è però da dire che un’affermazione del genere può esser buona per una polemica politica ma che storicamente non val nulla pel fatto che non tien conto del tratto tipico che distingueva il manicomio: il suo essere un luogo sottratto allo sguardo della città. Quello che succedeva lì dentro era tanto facile da immaginare quanto difficile se non impossibile da dimostrare. Il potere dell’opinione pubblica di far luce si arenava sui banchi sabbiosi di un certo “si dice”.
Quello invece che succede ora in certe Case di riposo finisce per essere saputo e anche in tempi assai brevi. E lo sdegno che suscita non è condannato al silenzio della dolorosa impotenza di un tempo ma produce interventi concreti dell’autorità[45]. Come dire insomma che codesti  malati sono sotto lo sguardo di tutti e la città tutela i loro diritti di cittadini.
Stando a questa constatazione, si potrebbe concludere che il reinserimento dell’alienato nella città sia riuscito. Sì, si può dire: ma resta da sapere con quale significato di codesto alienato.
Se si guarda alle Case di riposo, il significato dell’alienato si riduce ovviamente a quello di “caso sociale” puro e semplice specie se si sottace il ruolo degli psicofarmaci necessari per confermarlo nella sua innocua tranquillità.
Ma sono in circolazione anche atri significati dell’alienato apparsi del resto appena fu chiaro lo spazio semanticamente colonizzabile che la rilettura fenomenologica dell’alienato apriva e sul quale conversero dei paradigmi intesi a far concorrenza a quello basagliano per ricondurre il problema del malato mentale ciascuno nell’alveo della propria ideologia. E ho citato in proposito quello sedicente marxista (i malati di manicomio, in quanto proletari o sub-proletari, reclutati d’ufficio nelle fila di una rivoluzione immaginaria, reale solo nella testa degli antipsichiatri)[46] e, quello più convincente, di matrice cattolica che riconosceva l’alterità dell’alienato all’insegna della comune sofferenza del vivere.
Questi paradigmi dettero l’impressione iniziale di voler far concorrenza al paradigma basagliano per sottrargli terreno culturale e consenso di pubblico; ma il fine da loro raggiunto, e forse per la solita astuzia della ragione, si è risolto di fatto in un contributo all’idea basagliana del ritorno dell’alienato nella città  col vantaggio di veicolare questa idea attraverso canali di comunicazione assai più collaudati e popolari di quello civico-culturale inventato da Basaglia.
Da notare che questo risultato non è scaturito  da un immaginario accordo fra Basaglia e i suoi concorrenti ma è un portato del metodo fenomenologico-eidetico col quale Basaglia ha sempre correttamente ragionato la psichiatria e che ha la sua forza nell’essere una ricerca di senso libera, non condizionata da a-priori ideologici, sociologistici o psicologistici o d’altro genere: è la ricerca di quel significato strutturale che appare alla descrizione noematica dell’oggetto di cui ci si sta occupando. Per questo,l’arrivare a trovare, attraverso la descrizione, l’eidos del dolore del vivere nell’essere dell’alienato è un contributo fenomenologico a farcelo conoscere come persona, a farci sentire una vicinanza con lui e a suscitare e indirizzare nei suoi confronti il nostro atteggiamento e il nostro fare terapeutico.  Ma qui si ferma e completa codesta conoscenza filosofica laica e il suo sfociare sulla pratica laica della terapia. Alla quale è estranea l’idea di fare di codesta sofferenza un significante che rinvia al significato che gli da l’apparato dottrinario della religione: il peccato originale, le pratiche della sua espiazione, i riti connessi … Questa strada porta all’ideologia, nel nostro caso alla sovrammissione all’eidos in divenire e mai definitivo del paziente, di un apparato aprioristico di significati che proprio per essere codificati in una dottrina sarebbero solo una limitazione illegittima  della libertà assoluta della descrizione eidetica.
Per contro, l’apriorismo ideologico lo si vedeva bene all’opera in quelle interpretazioni antipsichiatriche dell’alienato che si pretendevano marxiste e che rivelavano cosa fossero per procedere non da una descrizione senza pregiudizi verso una scoperta di senso ma per incastrare nel senso precostituito  dell’ideologia politica certi tratti dell’alienato  al fine di poter confermare l’ideologia stessa. Da cui i discorsi delle riunioni di quella gente che, lungi dalle invenzioni euristiche del dialogo autentico, si rivelavano presto per quello che erano: noiose giaculatorie ripetitive.
Questa dunque la grande risorsa del metodo fenomenologico che Basaglia ha adottato: di far  propri dei significati dell’alienato che pur provenienti da matrici ideologiche dichiarate potevano confluire almeno nella  parte che erano frutto di corrette descrizioni noematiche anideologiche, nella ricerca eidetica e portare un contributo alla comprensione del malato mentale. La quale tuttavia sfuggiva alla percezione dell’ambiente psichiatrico organicista anche se ne suscitava la considerazione che si riserva alle espressioni di alta cultura, considerazione della quale godevano del resto  i daseinsanalisti italiani e con essi Basaglia, finché rimase sul terreno della psicopatologia. Ma dopo che si prese al manicomio non solo perse quella considerazione ma fu oggetto di ostilità più o meno dichiarata all’insegna del titolo di novatore, termine coniato da Tobino. In proposito, personalmente ricordo l’ostilità che gli fu manifestata al Congresso Sip di Milano del 1968 dove, con la sua relazione, presentò la fenomenologia come un’impostazione nuova della psichiatria del tutto diversa da quella positivista corrente, diversa soprattutto nel rapporto con il paziente e ben diversa dal manicomio quanto a  istituzione terapeutica. Il presidente di sessione che mi pare si chiamasse Petrò lo ringraziò per “aver” disse “ presentato una nuova tecnica terapeutica”; al che Basaglia reagì, e per principio e per carattere, a questo chiaro tentativo di “recupero” ribadendo che la sua proposta era una rifondazione totale della psichiatria e non un suo marginale complemento; ed era in particolare un rifiuto del manicomio
Per fortuna Basaglia aveva anche degli estimatori fra i quali ne citerei due per averli ben conosciuti personalmente: da un lato il professore Fabio Visintini di Parma, che col suo sodalizio con Basaglia dette alla realizzazione della cultura della 180 un apporto la cui storia è ancora da raccontare sia dal lato umano che dal lato della sua effettiva incidenza sulla realizzazione della legge; e dette a Basaglia anche quell’insegnamento che l’università gli aveva negato[47]. Dall’altro lato, Etienne Trillat, all’epoca Segretario della Evolution psychiatrique che fece notare nella sua relazione al Convegno di Lucca del 1980[48] come il movimento basagliano ricalcasse lo schema dei movimenti di liberazione degli alienati correlati ai  movimenti rivoluzionari. Di questi Pinel aveva dato il proto-esempio paradigmatico e un secondo esempio si era avuto, sempre in Francia, alla fine della seconda guerra mondiale, al crollo del Nazismo,  col rifiuto del manicomio-lager e con il rovesciamento del problema psichiatrico in termini di “settore”, cioè di “ritorno dell’alienato alla città”. Considerazioni un po’ scioviniste ma con un fondo di verità storica alla quale il movimento basagliano veniva avvicinato come, nientemeno, la più recente espressione di essa.
Per concludere sulla domanda che ci eravamo posta se cioè la 180 sia riuscita a ricostituire nella città l’antico “dialogue avec l’insensé” che nella realizzazione della legge ha mostrato le complesse vicende di senso che ho cercato di ricordare, direi che una risposta la abbiamo e il suo senso positivo lo esprimerei con la parole del Professore Visintini, al funerale di Basaglia a Venezia, quando gli chiesi se, scomparso Basaglia, la partita della 180 sarebbe stata persa: “Sa” mi disse “anche il Risorgimento è uscito diverso da come i miei bisnonni, che avevano combattuto a Solferino, lo avevano immaginato. Ma ha vinto perché aveva segnato una differenza sulla quale non si sarebbe più tornati indietro: l’Italia unita. Anche la 180 ha segnato la differenza del territorio e per questo ha vinto”.
Per finire, due parole sull’ottica della psicopatologia che ho scelta come ottica euristica per questo excursus sulla cultura della 180 e su certi aspetti della sua realizzazione. Può darsi che mi si dirà essere un punto di vista astratto borghese; per parte mia non credo che sia lo Spirito di Hegel che fa la storia ma, come diceva l’amico Lanteri, che sia  un punto di vista di chiarezza paradigmatica utile a capire molte cose che son successe e anche alcune di quelle che il silenzio delle fonti parrebbe dire che mai sian successe e delle quali però ben si avverte che hanno avuto luogo.

 

[1] Pinel Ph., Traité Médico-Philosophique sur l’aliénation mentale, ou la manie, Paris, Chez Richard, Caille et Ravier, An. IX, 1 Vol. 374p., 2 planches.
 
[2] A. P. A: DSM III-R, 1987, Tr. it., Milano, Masson, 1988.
[3] G. Daumézon, G. Lantéri-Laura, “Signification d’une sémiologie phénoménologique”, L’Encéphale, n. 5, 1961, pag 478-511. Lanteri-Laura, G., La psychiatrie phénoménologique, Paris, PUF, 1Vol., 1963, 204 p. Lanteri-Laura G., Del Pistoia L., Introduction historique et critique à la psychiatrie contemporaine, Encycl. Méd. Chir. (Paris France) Psychiatrie, 37005 A10, 6-1988, 6p. Lanteri-Laura, G., “Introduction critique à une théorie des pratiques en psychiatrie”, Actualités psychiatriques, n. 8, déc, 1980 ; Lantéri-Laura., G., Essai sur les paradigmes de la psychiatrie moderne, Paris, Editions du temps, 1998.
[4] H. Ey, Etudes psychiatriques, vol I (1952), vol II (1950), vol III (1954), Paris, Desclée de Brouver; Ey H., Rouart J., Essai d’application des principes de Jackson à une conception dynamique de la neuro-psychiatire, Paris, éd. Doin, 1938
[5] Lanteri-Laura G.  “La connaissance clinique: histoire et structure en médecine et psychiatrie »,  Evol. Psychiat. Fasc. 2, 1982 ;  Lanteri Laura G., Del Pistoia L., Regards historiques sur la psychopathologie in Widloecher, Traité de psychopathologie, Paris, PUF, 1994.
[6] Come, per questa ragione, sono radicalmente diverse fra di loro la psicopatologia di Pinel, di Chiarugi, di Morel, di Freud o quella di Lanteri-Laura e di Tatossian.
[7]Cf. F. de Saussure, Cours de linguistique générale, Paris , Payot, 1962
[8] Furet, F. , Penser la révolution française, Paris, Gallimard, 1978. ; Croce, B.,  Teorie storia della storiografia, Bari, Laterza, 1943 (XXI), 5°ed.
[9] K. Popper, La logique de la découverte scientifique,Paris,  Payot, 2017
[10] Dice Tatossian  che la semeiotica originale è stata fisiognomica e che è stata tradotta nei noti termini analitici  per renderla comunicabile e trasmissibile. Aggiungo che questa fisiognomica non è che scarsamente di ambito figurativo vista la quasi insignificanza della rappresentazione degli alienati a cominciare da Esquirol e fino ai i trattati della metà del ‘900 con le loro immagini( fotografiche) di alienati. La fisiognomica è molto più ricca di una semplice foto ed è fatta del “modo di porsi” in una relazione che si distende nel tempo e  includente anche il linguaggio. E’ semmai vicina alla narratività dell’immagine filmica.
[11] Cordero, F. Gli osservanti, Milano, Giuffrè, 1967.
[12] Cf. Furet, F.,cit.
[13]  Morel,  B.A., Traité des dégénéréscences  physiques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine, Paris, Baillière, 1857, 1vol.; Morel, B.A., Traité des maladies mentales, Paris, Masson, 1860.
[14] Chiarugi,  V., Della pazzia in genere e in specie. Trattato medico analitico con una centuria di osservazioni, Firenze, Carlieri, 1793-94, 1° ed.
 
[15] In Etudes cliniques, 1851, pp.275-295,  e in Traité des maladies mentales, cit., pp.532 e 566 (“une espèce de torpeur voisine de l’hébètement remplaça l’activité première et lorsque je le revis je jugeai que la transition fatale à l’état de démence précoce était en voie de s’opérer”)
[16] Essai sul l’inégalité des races humaines, 1853-1855.
[17]  Esquirol,  E.,  Des maladies mentales considérées sous les rapports médical, hygiénique et médico-légal, Paris, J.B. Baillière, 1838, 2 vol.
[18] Lasègue,  C., Etudes médicales, Paris , Asselin, 1884.
Falret,  J.P.,  Article Délire,   in Dictionnaire des études médicales, 1839. Falret, J.P., Des maladies mentales et des asiles d’aliénes, Paris, Baillière, 1864.
[19] Che consacrò Dégénérescence come teoria ufficiale della follia per essere riuscita a profilare in modo convincente come patologico codesto comportamento. In merito son da vedere la due perizie storiche, quella di Lasègue (Etudes medicale, cit) sull’esibizionista della chiesa di St Roch e quella di Magnan (Recherches sur les centres nerveux, cit) sull’esibizionista della chiesa di St Germain l’Auxerrois.
[20] Magnan, V., Legrain,  P.M., Les dégénérés. Etat mental et syndromes épisodiques, Paris, Rueff, 1895, 1 vol. en 8°,  pp.134.
 
[21] Nelle loro descrizioni, codesti alienisti insistono sulla lotta che il paziente sostiene nell’intento di reprimere l’impulso che sente crescere dentro di sé, come questa lotta si svolga in un clima di ansia crescente anche con manifestazioni neurovegetative e come si concluda il più delle volte con l’appagare l’impulso per trovare il sollievo liberatorio che tale appagamento dà.  Le descrizioni di Magnan in merito, fra le più ricche, sono dell’epoca del soggiorno parigino di Freud. Come dire due diverse elaborazioni dell’idea ormai acquisita dall’alienistica essere l’uomo abitato da una forza che gli è più o meno estranea.
[22] Un punto che aiuta a capire da dove sia uscito il modo di pensare di Kräpelin che situa il suo ragionamento di grande clinico nel solco psicopatologico di Morel.
[23] La folie lucide, Paris, Adrien Delahaye, 1861.
[24] Etudes cit.,  vol 1.
[25]  Broca,  P., Mémoires d’anthropologie, Paris, Reinwald éditeur, tome V,  1888.
[26] Wernicke, C. , Der aphasische Symptomenkomplex. Eine psychologische Studie auf anatomischer Basis. Breslau, M. Cohn & Weigert, 1874.
[27] Recherches sur les centres nerveux, deuxième série, Paris, Masson, 1893, pp. 278-353.
[28] Tanzi e Lugaro, Trattato, 3°ed., 1923.
[29] E’ su questo sfondo che si capisce la svolta che Jaspers cerca di imprimere alla psichiatria sostenendo l’importanza semeiologica  del vissuto del paziente.
[30] Sérieux, P. et Capgras, J. Les folies raisonnantes. Le délire d’interprétation, Alcan, Paris, 1° éd, 1909, 1° éd. trad.ital. di A. Fagiolo, Le follie lucidi, Fioriti, 2013.
[31]G. Ballet, La psychose hallucinatoire chronique, l’Encéphale, 1911, 2, pp.401-411.
[32] Gatian de Clérambault G., Œuvre Psychiatrique, a cura di J. Fretet PUF, Paris, 1942, 1° éd. , 2 vol. ,réédition Frénésie, Paris. 1987.
[33] Dupré E. et Logre B. “Les délires d’imagination”, Congrès de Bruxelles-Liège, 1910, pp. 320-340. et Encéphale, 10 mars, 10 av, 10 mai, 1911.
[34] Si trova nei rendiconti del dibattito alla Camera, dic.1903 - gen.1904.
[35]Giordano, G.B., Sorprendenti voci di modernità dai vecchi psichiatri, La Provincia di Lucca, 1972, n. 1, pp. 26-48.
[36] Rossi-Monti, M., Maestri senza cattedra, Torino, Antigone, 2012
[37] Comunicazione personale di Cargnello dell’estate 1969 quando andai a trovarlo a Brescia per chiarimenti sulla traduzione di Psychopathen di Häfner a cui mi accingevo con la mia futura moglie.
[38] In quell’occasione citò anche Lanteri-Laura  ed è quindi  grazie  a Basaglia che ne conobbi l’esistenza  e che poi andai a conoscere di persona a Parigi dando inizio ad un sodalizio durato più di trentanni. Di questo son sempre rimasto grato a Basaglia anche se quando lo ringraziai per la sua segnalazione, mi disse, con la sua ironia veneziana, che Lanteri Laura  gli veniva in mente per l’assonanza del suo nome con quello del regista francese  Autant-Lara. Era il modo del suo carattere di sfuggire al timore di una presa, non fose che quella di un “grazie”. Per altro verso, Basaglia era un gran signore veneziano con due tratti tipici di codesta stirpe: da una lato, la difficile relazione personale per il sottinteso dell’ etichetta di un palpabile non detto, dall’altro un antico senso etico e civico della buona amministrazione del popolo fatto di gente comune e di notabili, tutti carne viva della “città” nell’antico spirito della Serenissima. Connotato poi nel suo caso da una buona dose di coraggio personale che ne fece un “resistente”. D’altronde, è  sulla base di codesti riferimenti che si capisce la sua intesa con Fabio Visintini, anch’egli signore veneziano per parte della sua nonna materna, nobildonna della Serenissima e anch’egli resistente al fascismo , cosa che pagò con 10 anni di esilio in Patria..
Ma queste cose si sapranno, e non sulla base di ricordi personali ma sulla base  dello studio storico, quando si comincerà a parlare anche  del periodo parmense del Basaglia.
[39] Cf. Tatossian, A., Phénoménologie des psychoses,  Paris, Masson, 1979, trad.it. di Dalle Luche, R., e Di Piazza, G.P., La fenomenologia delle psicosi, Fioriti, 2003,  nel capitolo a Jaspers dedicato, pp.144-153.
[40] Swain,  G., Dialogue avec l’insensé, Paris, Gallimard, 1994.
[41] Centri di Esercizio ai Metodi di Educazione Attiva.
[42] Il manicomio di Collegno, l’Istituto dei Celestini di Prato e la Casa della Divina Provvidenza di Bisceglie.
[43] convenzionate, regione per regione, come è noto, con gli “amici degli amici”.
[44] Del Pistoia, L., “Psichiatria e ideologia”, Comprendre, Padova, La Garangola, n. 10, 2000, p. 63-88.
 
[45] salvo l’eccezione di quelle situazioni di connivenza fra potere e sfruttamento dei “matti”.
[46]Cf. il mio commento nel libro di Fosca Rossi Menchetti,   Il cielo infranto, Ediz. Univ. Romane, 2014.
[47] Finanziato dalla Provincia di Parma per opera dell’Assessore Mario Tommasini.
[48] Curare e ideologia del curare in psichiatria, a cura di L. Del Pistoia e F. Bellato, Pacini Fazzi ed., 1980.
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