Jacques Lacan Dissolution (1980): il seminario perpetuo

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13 luglio, 2019 - 20:02
Ho preso questa risoluzione perché, se non mi mettessi di traverso
essa funzionerebbe in senso contrario rispetto a ciò per cui l’ho fondata.
[…] Ecco perché sciolgo. E non mi lamento dei cosiddetti “membri dell’École freudienne”
li ringrazio, piuttosto, per avermi insegnato come mai ho fallito – vale a dire mi sono ingarbugliato.
Questo insegnamento mi è prezioso. Lo metto a profitto.
(J. Lacan, Lettera di Dissoluzione)
 
Con la Lettera di Dissoluzione del 5 gennaio 1980, Jacques Lacan mette fine alla breve vita dell’École freudienne de Paris (EFP), la Scuola da lui fondata nel 1964 dopo la “scomunica maggiore” pronunciata dall’IPA nei suoi confronti.
La penombra leggendaria che circonda questo controverso evento però, che è da molti ritenuto una “seconda morte”[i], se non addirittura una messinscena a favore di pochi eletti del suo entourage, porta spesso a dimenticare che con la Lettera non viene pronunciata solamente la fine dell’EFP, ma anche l’inizio di Dissolution (1980), il ventisettesimo ed ultimo dei seminari di Lacan. Come gli eventi politici che gli fanno da sfondo, anche l’entità di questo seminario appare problematica, dividendo la stragrande maggioranza dei commentatori. Del resto, si può dire che sia solo una frangia di lacaniani ‘radicali’ a definire quest’ultimo un vero e proprio seminario, mentre la maggior parte degli altri pareri oscilla tra la sua completa escissione dalla bibliografia finale dello psicoanalista francese e la sua acquisizione a ‘statuto speciale’, come se si trattasse di un surrogato dei suoi predecessori. Alcuni, come Joel Dӧr[ii] e Paul-Laurent Assoun[iii], non hanno dubbi nell’ascrivere Dissolution all’elenco completo dei seminari, definendolo così l’ultimo capitolo del quasi trentennale insegnamento di Lacan. Di tutt’altro avviso appare invece la storica della psicoanalisi Élisabeth Roudinesco, che nella sua imponente biografia dello psicoanalista parigino relega provocatoriamente Dissolution nella sezione Testi dattiloscritti o stampati con il nome o la firma di Jacques Lacan (1980-1981)[iv], lasciando intendere in più passaggi del suo libro che Lacan potrebbe persino non essere stato l’autore di tali documenti. Anche per i partigiani che reclamano l’importanza dell’ultimo Lacan, il seminario giungerebbe al termine ben prima della Lettera. Claude Dorgeuille ad esempio, che ha vissuto in prima persona i tumultuosi anni della crisi dell’EFP, non ha dubbi nello stimare che la serie dei seminari si concluda con Le moment de conclure, il volume XXV[v]. Ancor più particolare è il caso dell’erede testamentario dell’opera di Lacan, Jacques-Alain Miller, la cui posizione appare piuttosto esitante: come ha opportunamente notato Adrian Johnston[vi], nell’edizione del marzo 2006 del Seminario XVI, l’elenco dei seminari comprende anche il numero XXVI (La topologie et le temps), mentre solo pochi mesi dopo, nell’edizione del Seminario XVIII (D’un discours qui ne serait pas du semblant) dell’ottobre dello stesso anno, la lista si chiude con il libro XXV (Le moment de conclure). A prescindere da quali siano le ragioni che hanno portato Miller a scartare il libro XXVI, appare chiaro come, fino al 2006, l’eventualità che Dissolution potesse costituire o meno un seminario non si poneva affatto. Successivamente però, durante il suo Cours del 2010-2011 (L’Essere e l’Uno), non solo Miller sembra cambiare idea, reintegrando Dissolution nell’elenco dei seminari, ma arriva persino ad includervene uno ulteriore e (a mia conoscenza) mai nominato prima (Oggetto e rappresentazione):
“Dopo Le moment de conclure abbiamo altri tre Seminari, due dei quali dedicati alla topologia dei nodi, con questi titoli: La topologia e il tempo e Oggetto e rappresentazione. […] C’è infine un ultimo Seminario, contemporaneo dello scioglimento dell’École freudienne de Paris e del tentativo di Lacan di creare una nuova Scuola. Di questo Seminario abbiamo tutte le lezioni che furono scritte anticipatamente”.[vii]
Effettivamente, ci sono diversi punti che giocano a favore di chi rifiuta di riconoscere gli appunti del 1980 come parte di un vero e proprio seminario. Anzitutto, si pone la questione della loro brevità: di fatto, Dissolution raccoglierebbe non più di sei sedute (se si vuole considerare anche la sessione finale di Caracas), per altro decisamente poco lineari e tempestate di calembours. Inoltre, criterio rimarchevole, in questa occasione Lacan non parla, ma legge. Anziché attenersi semplicemente ad una scaletta, Lacan dispone di veri e propri dattiloscritti che, come dice sopra Miller, sono stati redatti anticipatamente, per poi essere tempestivamente smistati presso riviste o quotidiani per la pubblicazione. Inoltre, ad infiammare ancor di più la polemica, interviene la questione dell’autenticità dei suddetti dattiloscritti: le condizioni di salute non ottimali e l’età ormai avanzata, insieme con il clamore politico suscitato dallo scioglimento dell’EFP, hanno contribuito a nutrire la già sensazionale “leggenda nera”[viii] di Lacan del dubbio che egli non fosse, dopotutto, l’autore dei testi che leggeva pubblicamente nelle sessioni dell’ultimo seminario, spostando così il dibattito dalla parte di un presunto sfruttamento della sua persona. Come sembra rimarcare Roudinesco, non c’è alcuna ragione per fugare il dubbio che quegli appunti fossero stati preparati da suoi collaboratori, o direttamente da Miller in persona. Da parte mia, ritengo che se da un lato simili tumulti non facciano che spostare la questione dell’eredità lacaniana su di un piano puramente mediatico, dall’altro credo però che il loro valore storico diventi anche teorico nel momento in cui tali diatribe finiscono per influenzare, obnubilandolo, il contenuto effettivo dei seminari. In altri termini, è proprio perché simili dietrologie riescono ad agire sul contenuto effettivo dell’opera di Lacan che è necessario ‘attraversarle’, anziché scartarle come una blanda forma di cospirazionismo. Come suggerisce Nicolas Francion infatti, se la fondazione dell’EFP nel 1964 era passata quasi inosservata, la sua dissoluzione è stata al contrario un’onda d’urto tanto mediatica quanto culturale, che finì sulle prime pagine dei giornali. Eppure, questa notorietà mediatica, continua Francion, non ha contribuito a rendere la dissoluzione altrettanto “ben conosciuta”[ix]. Per molti di coloro che si occupano di Lacan, un simile evento rimane a tutt’oggi un riferimento “quasi-mitico”[x], diviso tra il burrascoso passato dell’EFP e l’avvenire non convenzionale della Cause freudienne, sua erede. Tornando al caso specifico di Dissolution, mi trovo d’accordo con Alain Lemosof, autore di un sintetico ma complessivamente pregevole commentario del suddetto seminario, il quale conclude laconicamente che “se Lacan non li avesse riconosciuti come propri, non avrebbe mai letto quei testi nel corso del seminario”[xi]. Ciononostante, anche la sua è una posizione piuttosto curiosa: benché egli ritenga indubitabile l’originalità dei dattiloscritti, nella raccolta in cui appare il suo saggio (si tratta di Lacaniana, un commentario in due volumi dei seminari di Lacan curato da Moustapha Safouan), Dissolution non viene introdotto con il peculiare indice in numeri romani (XXVIII, in questo caso), ma come “Annexe”, e cioè alla stregua di un allegato o di un’appendice. A questo punto non può che sorgere un ulteriore e più bizzarro dubbio: se si ritiene, come sembra fare Lemosof, che Lacan sia indubbiamente l’autore dei testi in questione, per quale motivo non considerare Dissolution un seminario a tutti gli effetti? Forse, la risposta definitiva circa l’annosa ascrizione di Dissolution all’elenco completo dei seminari non rimane che da ricercarsi proprio in Lacan e, più nello specifico, tra le pagine dei suoi dattiloscritti. È proprio lo psicoanalista francese infatti che, in più occasioni, si riferisce alle sessioni del 1980 come parte integrante di un effettivo e convenzionale seminario, anziché come a un insieme disparato e non organico di apparizioni pubbliche. Ad esempio, nella sessione del 10 giugno 1980, dice: “Mi si è fatto osservare che il Seminario di quest’anno non era intitolato. È vero. Vedrete subito perché. Il titolo è: Dissoluzione!”. Poco dopo, durante lo stesso incontro, riprende: “Questo seminario, ci tengo meno di quanto esso mi tenga. È per abitudine che mi tiene? Sicuramente no, visto che è per il malinteso”[xii]. Anzi, prima di far calare il sipario su Dissolution e sul punto di partire per Caracas, Lacan sembra persino concedere un’allusione ad un ipotetico proseguimento del seminario:
“Tornerò, perché la mia pratica è qui – e questo seminario non è [parte] della mia pratica, ma la integra. […] per quanto non me ne preoccupi, faccio fatica a scioglierlo. E di colpo, lo nutro. È quello che si chiama il seminario perpetuo”[xiii].
Si direbbe che simili dettagli siano passati inosservati per chi, come ad esempio Marcelle Marini, ritiene che nonostante sia stato Lacan, “e lui soltanto”, a sciogliere l’EFP la dissoluzione deve essere intesa non come un gesto di rivolta politica contro l’istituzione, ma come “l’ultimo atto di un uomo vecchio e malato”[xiv]. In altre parole, per Marini, già dal Seminario XXV la stanchezza di Lacan sarebbe apparsa “evidente”, e più che un seminario, Dissolution consisterebbe di una mera “sequenza di messaggi”[xv].
“Chi chiamerebbe ‘seminario’ le poche parole emesse con difficoltà a Caracas, davanti ad un pubblico che non desiderava altro che una presenza e un nome? Lacan era forse diventato l’ostaggio di ciò che egli stesso aveva creato?”.[xvi]

Contro il parere di Marini, ritengo preferibile sostenere che non solo Dissolution contenga, per dirla alla Jean-Claude Milner, un pensiero, nel senso che nelle sue poche pagine ricorrono delle tesi “la cui esistenza si impone a chi non l’ha pensato”[xvii], ma anche che le sue lezioni finiscano per segnare un’ulteriore e conclusiva svolta nel pensiero di Lacan, che si lascia dietro il pessimismo dei precedenti anni e propone un ritorno ad una psicoanalisi ispirata dal matema e dalla formalizzazione logico-matematica. La produttività di un’attenta lettura degli ultimi seminari è stata recentemente sostenuta anche da Johnston. La sua tesi è che “a partire dal 1976, Lacan mette fine al regno del matema”, riconfigurando così il suo insegnamento in un’ottica drasticamente anti-riduttivista, emancipata dall’ideale della trasmissibilità matematica perseguito all’inizio degli anni Settanta. Eppure, poiché questa analisi non si spinge oltre il Seminario XXV, mi sembra che Johnston sancisca il tramonto dell’insegnamento dello psicoanalista francese con leggero anticipo, trascurando buona parte delle conseguenze critiche della Dissoluzione. Diversamente da Johnston, credo invece che nel Seminario XXVII, dopo aver dissolto l’EFP, Lacan ribadisca clamorosamente “la [sua] ostinazione nella [sua] via di matemi”[xviii], e proponga una nuova chiamata al formalismo che riabilita il potere critico e demistificatorio della psicoanalisi. In altre parole, mentre da un lato il Lacan del 1980 afferma che la trasmissibilità della psicoanalisi è insita esclusivamente nella possibilità della sua perpetua reinvenzione, dall’altro il ricongiungimento finale con la figura di Freud (“Tocca a voi essere lacaniani, se volete. Io sono freudiano”[xix]) va di pari passo con un ridimensionamento intransigente delle discipline non formalizzabili (tra tutte: filosofia e religione). La psicoanalisi, ritengo concluda Lacan, può certo degenerare nella religione, a cui del resto tende inesorabilmente (in quanto entrambe operano sul senso), e l’inconscio, lungi dall’essere un’istanza formalmente entificabile, è più che altro un “malinteso”[xx], una smagliatura mai oggettivamente determinabile. Eppure, attraverso un costante rinnovamento politico della pratica analitica e delle sue istituzioni, è ancora possibile ricorrere alla psicoanalisi non per assecondare, bensì per dissacrare, il bisogno di senso che attanaglia l’animale parlante.
 
Contro la necessità di gruppo
Per Lacan, quello tra il gruppo e l’analista è un aut-aut impermeabile a qualunque mediazione possibile, perché in ogni aggregazione “gli esseri reclutati si situano in questo reale in nome di principi del tutto differenti da quelli che prima hanno consentito la costituzione di una classe” [xxi]. Parafrasando, e facendo vagamente eco all’Elvio Fachinelli di Gruppo chiuso o gruppo aperto?, lo scacco del gruppo risiede nel misconoscimento della causa che ha inizialmente portato i suoi membri ad aggregarsi. Il principio negativo che regola i legami sociali fa sì che tale causa, anche la più solidale possibile, ceda prima o poi al peso di una “oscenità immaginaria” che ne muta radicalmente sia la struttura fondamentale sia la natura del discorso.
Il progressivo scadimento dei legami sociali di cui parla Lacan coinvolge anche e soprattutto le istituzioni, le quali guadagnerebbero la propria stabilità gerarchica da una nozione padronale di aggregazione, regolata da “leggi di concorrenza”, e dunque di potere, come ben dimostra “la cosiddetta istituzione internazionale” [xxii], l’IPA. In un primo momento, il cinismo di Lacan nei confronti dei gruppi riproduce fedelmente l’atmosfera di Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in cui Freud manifesta tutta la sua diffidenza per i collettivi permanenti come l’Esercito o la Chiesa. Ciò che farebbe consistere queste aggregazioni secolari e monumentali deriverebbe secondo il padre della psicoanalisi da un (subdolo) processo di doppia idealizzazione-identificazione: il soldato, ad esempio, assumerebbe i propri superiori come Ideale, identificandosi parimenti con i propri commilitoni quali suoi pari. Questa strategia di integrazione dell’atteggiamento libidico, che consente contemporaneamente sia di mantenere l’ordine del gruppo, sia di dirigerne i suoi membri verso uno specifico interesse, si propagherebbe in misura più sublimata anche a tutti gli altri gruppi. Eppure, un simile modo di pensare il gruppo si rivela insufficiente a spiegare perché esso arriverebbe a misconoscere il proprio principio di aggregazione e a sostituirlo con un surrogato ideale. Alcune letture di ispirazione foucaultiana suggerirebbero che la ragione di questo scadimento risieda nell’irruenza liquida e onnipervasiva del potere, che corromperebbe la purezza del legame sociale e sostituirebbe alla fiducia tra i membri il mero interesse. Lacan stesso del resto, nel suo ‘ritorno a Freud’ pronunciato all’inizio degli anni Cinquanta, non era andato molto lontano: in Funzione e campo, il suo primo manifesto della psicoanalisi, criticava duramente la struttura reazionaria dell’IPA, denunciandone soprattutto i criteri di fine analisi (identificazione del paziente all’ego dell’analista) come reazionari e volti all’adattamento dell’individuo all’ambiente sociale. Ma questa lettura spiegherebbe solo una parte della logica lacaniana dei gruppi, perché per Lacan, specialmente dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi, non è affatto il potere a produrre la corruzione del legame sociale. La tesi è ben più radicale: il potere non è la causa della settarizzazione, quanto il più attendibile e pervasivo dei suoi effetti. Se il gruppo decade, o si compatta in una fatiscente struttura gerarchica, è perché, in realtà, il gruppo non esiste. Lo scadimento del gruppo è strutturale, e dipende dalla sua incapacità di pensare il proprio disordine, di venire a patti con l’angoscia dell’assenza di legame. Quella che Fachinelli chiamava ‘settarizzazione’, descrivendola come un riflesso ai limiti del biologico, si trasforma in Lacan nell’insostenibilità dell’innominabile, nel bisogno di colmare la frammentazione originaria del gruppo con un’icona o con qualsiasi altro mezzo che faccia da tappo all’assenza di legame. Tuttavia, come nota Badiou definendolo “un pensatore del disordine”[xxiii], ciò non vuol dire che in Lacan l’esistenza collettiva non esista, tutt’al contrario, è solo prendendo atto delle contraddizioni e delle insanabili fratture che attraversano ciascun gruppo (e il cosiddetto ‘sociale’ tout court) che questa esistenza collettiva diventa realmente possibile. In altre parole, affinché sia reale, il gruppo non deve avere più “alcuna portata di senso”[xxiv]. Lacan ha formalizzato questa impasse del legame sociale alla fine degli anni Sessanta, con la logica dei discorsi. Ponendo il discorso padrone come il discorso fondativo, la premessa stessa che possa esistere qualcosa come un discorso, Lacan ribadisce come l’alienazione fondamentale che costituisce il gruppo non deve far desistere l’individuo dall’organizzarsi in collettivi, quanto piuttosto invitarlo, come nell’ideale di fine analisi proposto nel Seminario XI, ad attraversarne il fantasma.
Brevemente, nel legame imposto dal discorso del padrone la posizione dominante, di agente, è occupata dal significante padrone (S1), che rappresenta tutti i soggetti (S) per un altro significante (S2), mentre nella posizione di resto c’è l’oggetto piccolo a. In linea con quanto detto sinora, poiché questo discorso si regge esclusivamente sullo scarto di a, ovvero sulla rimozione della presenza dell’oggetto a come surplus irriducibile, esso non può che essere intrinsecamente menzognero, una frode (escroquerie). Come spiega Massimo Recalcati, “ciò che regge la logica dei discorsi non è la piena esaustione di reale e razionale, la reversibilità logica di soggetto e oggetto, quanto piuttosto una debolezza intrinseca”[xxv].  Per stare in piedi, detto altrimenti, il discorso del padrone ha bisogno di rimuovere costantemente l’impossibilità della sua completa costituzione ma, contemporaneamente, emerge come sia proprio questa stessa impasse a garantire la sua perpetuazione: a è l’ostacolo e al tempo stesso il supporto di qualunque discorso possibile, con il risultato che, paradossalmente, senza tale impossibilità strutturale, non potrebbe esserci alcun discorso del padrone. Nel Seminario XVII, Lacan dice espressamente che il discorso del padrone maschera la divisione del soggetto, e oppone a questa (inconsistente) logica gruppale il suo rovescio, il discorso dell’analista. Qui, è l’oggetto piccolo a ad occupare la posizione di agente, il resto indivisibile che rimarca di volta in volta che “niente è tutto”[xxvi]. Nella pratica analitica, ciò vuol dire che l’analista non deve identificarsi al sapere di una qualche teoria o al nome proprio di un leader ideale (Freud, Jung, Lacan eccetera), né tantomeno reclamare la propria integrità dall’appartenenza simbolica ad una specifica Scuola. Piuttosto, egli deve “funziona[re] […] come rappresentante dell’oggetto a[xxvii], porsi come l’oggetto-causa del desiderio dell’analizzante e, al momento opportuno, uscire di scena: sapersi fare ‘resto’, reietto o, come direbbe Lacan, caput mortuum. L’ideale di gruppo che abbiamo descritto sinora è pertanto del tutto incompatibile con la posizione assunta dall’analista, perché mentre il primo si declina a partire dal discorso del padrone ed è dunque frutto di una particolare pratica di dominio, il secondo è esattamente ciò che, sovversivamente, svela l’inconsistenza di questa logica di potere. Dopo aver fondato l’EFP, Lacan ha insistito più volte che, lungi dall’identificarsi con l’istituzione che lo legittima, l’analista deve ribadire “l’impossibile del gruppo analitico” [xxviii]. Questa rettifica fa un po’ da spina dorsale a tutta la Lettera di Dissoluzione, in cui Lacan punta il dito prima contro i successori di Freud, e poi contro se stesso e la sua Scuola. La sua idea è che, dopo Freud, la psicoanalisi si sia tramutata in una “Chiesa”, perché ha permesso “al gruppo psicoanalitico di avere la meglio sul discorso” [xxix]. Ancora una volta, questa accusa non deve essere intesa in senso puramente disfattista: l’insostenibilità del legame sociale non implica la sua improduttività. Piuttosto, è alla ruggine del senso che l’esistenza collettiva deve sottrarsi, se non vuole ritrovarsi ingabbiata in un nuovo significante padrone. Non si tratta di essere anarchici e rigettare in toto l’ipotesi del collettivo dunque, ma si tratta di essere militanti, cioè di sottoporre il proprio ideale ad un rinnovamento continuo dell’anti-senso. Come scrive Johnston, “le organizzazioni ossificano il senso […] persino delle rivoluzioni più radicali”, dimostrando che “senza ricorrere ad un rinnovamento perpetuo, la psicoanalisi morirà” [xxx]. E se la Scuola rischia di degenerare in Chiesa, è perché quest’ultima costituisce l’incarnazione del dispensatore di senso per antonomasia, la religione. Ed è proprio questa complicità tra il senso e l’istituzione da una parte e la psicoanalisi dall’altra che attanaglia Lacan poco prima della Dissoluzione: 
“La questione consiste nel sapere come abbia effettivamente funzionato finora la società analitica di cui Freud ha tracciato i primi lineamenti e che ha assunto in seguito una forma sempre più precisa. Queste società sono rimase troppo prudenti, in quanto funzionano secondo le solite leggi del gruppo, per cui è sempre e assolutamente necessario che si manifesti il padrone, e ritengo di aver ben potuto dirlo in mezzo al subbuglio del Maggio ’68”[xxxi].
In termini politici, questa ossificazione gerarchica delle società di psicoanalisi si riflette nell’invettiva del Seminario XXVIII. Qui Lacan ribadisce come le gerarchie sociali, in particolare quelle che regolamentano il cursus honorum all’interno delle Scuole e l’analisi didattica, costituiscano un sostegno al tempo stesso illusorio e reazionario, e nota con dissapore come il “panico per la dissoluzione” provato da alcuni membri dell’EFP riveli retroattivamente che tale ‘sentimento istituzionale’ era attivo anche nella sua di Scuola. Se “la gerarchia si sostiene per il fatto di gestire il senso”, è solo una politica anti-gerarchica che può preservare la psicoanalisi dalla tentazione di divenire una Chiesa: “per questo motivo” dice descrivendo la struttura del suo prossimo progetto, “non metto nessun responsabile in sella alla Causa freudiana”; essa non dovrà costituire “nessun grande insieme”, ma sostenersi sulla assoluta contingenza del “vortice”[xxxii]. Nella lezione dell’11 marzo 1980, significativamente intitolata D’Écolage (presumibile gioco di parole tra Scuola [École] e colla [colle]), Lacan annuncia che la Causa non sarà una Scuola, ma un Campo”[xxxiii], e che essa dovrà trarre la propria unità esclusivamente nell’affinità per la formalizzazione, un tipo di discorso drenato quanto più possibile dai raggiri del senso. I suoi membri dovranno costituirsi come cartello, cioè in aggregazione di quattro persone “più uno”, e “per prevenire l’effetto di collante, si dovrà compiere una permutazione ogni anno, ogni due al massimo”[xxxiv]. Questa soluzione era stata già proposta da Lacan alla fine degli anni Sessanta, con il dispositivo della passe, un modo nuovo e contro-istituzionale di gestire (o forse sarebbe meglio dire far scoppiare) il concetto di analisi didattica. Non basandosi su maestri o padroni, l’unico genere di collettivo concepibile dalla passe è appunto quello del cartello, che prevede due condizioni minime ma imprescindibili: da un lato, il numero dei suoi componenti deve essere rigorosamente esiguo (nell’EFP, Lacan ne richiedeva sei o sette al massimo, nella Causa il numero scenderà a quattro più uno) e, dall’altro, bisogna che esso sia gestito orizzontalmente, con la rotazione incessante degli incarichi. A posteriori, appare chiaro come il meccanismo della passe e le sue logiche gruppali non abbiano retto, al punto che è stato proprio questo dispositivo – che avrebbe dovuto prevenire la massificazione – a sancire la perdita di controllo del progetto e ad innescare la crisi della Scuola.  Alcuni anni prima di pronunciare la dissoluzione, nell’aprile del 1975, Lacan dedica una fugace ma significativa analisi ai rapporti tra il gruppo e la religione proprio al termine delle Journées des Cartel. Appena terminato di parlare della costituzione del cartello, egli riconduce polemicamente la numerosità dei grandi gruppi proprio all’anonimato dei seguaci religiosi.
“È un’esperienza evidente l’esistenza di comunità chiamate, non a caso, religiose, le quali non hanno mai conosciuta, e addirittura mai vista senza reticenza, una limitazione del numero dei propri componenti. Sembra che non ci sia alcun limite al numero di persone che una comunità religiosa possa raggruppare. […] Per esempio, il fatto che è l’anonimato a reggere la comunità religiosa deve già farvi intuire che nel cartello vi è un legame tra il numero ristretto e il fatto che ciascuno porta, in quel piccolo gruppo, il proprio nome”[xxxv].
Si tratta di un passaggio molto importante, perché cinque anni dopo, a dissoluzione già avvenuta, Lacan menzionerà queste stesse ragioni per giustificare lo scioglimento della Scuola, suggerendo non troppo implicitamente che la constatazione del fallimento dell’EFP sia indissociabile da quella della passe. Nata inizialmente come “qualcosa che non è assolutamente dell’ordine del discorso del padrone, e tanto meno del maestro” [xxxvi], non solo quest’ultima ha finito per funzionare “al contrario di ciò per cui era stata fondata” [xxxvii], ma ha anche fatto “meno Scuola […] che colla”, accelerando – anziché prevenire – gli effetti di settarizzazione del gruppo. Tutto ciò dimostra come nel Seminario XXVIII la religione occupi un posto decisamente importante: non tanto perché, come Lacan ha più volte ripetuto, “la stabilità della religione deriva dal fatto che il senso è sempre religioso” [xxxviii] ma perché, diversamente dai seminari precedenti (intrisi di un più rassegnato pessimismo e accomunati da un severo questionamento della psicoanalisi), qui la prospettiva della dissoluzione come atto radicale dell’analista dimostra che la psicoanalisi può ancora controbattere in qualche modo all’inesorabilità del senso e della religione. È come se, dopo aver sciolto l’École, Lacan riacquistasse speranza nei confronti della psicoanalisi, riposizionandola ancora una volta al di sopra degli altri discorsi e riconferendole le sue indistinguibili doti sovversive. La complessiva ripresa di tono di questo seminario mi sembra evidente anche nell’atteggiamento esplicito di Lacan, come ad esempio quando, sul punto di annunciare la sua partenza per Caracas, dice “tornerò perché la mia pratica è qui – e questo seminario non è parte della mia pratica, ma la integra, ribadendo che “esso non è sul punto di finire[xxxix] (sardonico, se si pensa che dopo anni di esitazione circa il futuro del seminario Lacan si pronunci a favore di un “seminario perpetuo” proprio quando il suo insegnamento non troverà ulteriore seguito). Anche Alain Lemosof ha notato che in questo seminario l’interdipendenza tra significante e religione su cui Lacan ha sempre insistito sembra riflettere una diversa accezione, che si discosta dalle occorrenze usuali[xl]. Ma mentre secondo lui questa differenza sta nel fatto che anche il significante (e non solo il senso) possa rivelarsi complice della religione, trasformandosi in un’adorazione cieca della teoria psicoanalitica, io credo che questa incongruenza indichi l’esatto contrario: laddove nei precedenti seminari, soprattutto nel XXIV e nel XXV, Lacan accusava la psicoanalisi di essere un “delirio”, una “truffa” o una “pratica del chiacchiericcio”, qui la distinzione tra una psicoanalisi snaturata dal senso ed una psicoanalisi orientata al reale diviene decisamente più nitida. Mentre fino ad alcuni anni prima sembrava che non vi fosse una soluzione certa ed affidabile per evitare che la psicoanalisi degenerasse in delirio, ora Lacan non ha dubbi riguardo ad essa: la psicoanalisi non è una religione, ma “vi tende, irresistibilmente”, e questo “non appena ci si immagina che l’interpretazione operi col senso”[xli]. Eppure, aggiunge subito dopo, “io insegno che la sua molla è altrove […] nel significante in quanto tale”[xlii]. Contrariamente a quanto afferma Lemosof pertanto, non è la religione che, in qualche modo, avrebbe finito per contaminare il significante e gettare l’intera pratica analitica in un brodo di puro nichilismo. Con una clamorosa ripresa rispetto allo sconforto precedente, Lacan riabilita il significante come scibboleth della psicoanalisi e indica, ancora una volta, il matema come il solo argine possibile contro l’intralcio del senso. 
 
Per un seminario perpetuo
Come già discusso, e a differenza delle letture convenzionali dell’ultimo Lacan, ritengo che Dissolution possa e meriti di essere letto come un seminario a tutti gli effetti. Questa mia posizione non dipende unicamente dall’evidenza che sia Lacan stesso a riferirsi all’insieme di queste ultime sedute come ad un vero e proprio seminario, ma anche dal fatto che in esso sia possibile isolare alcuni importanti nuclei argomentativi tipicamente lacaniani, che ribadiscono oppure ritrattano posizioni precedenti. In altre parole, Dissolution non ruota esclusivamente attorno al discorso – comunque centrale – dello scioglimento dell’EFP e della costituzione della Cause freudienne, ma si concentra anche su questioni strettamente teoriche. In questo paragrafo mi occuperò brevemente del modo in cui Lacan tratta tale materiale nel corso delle sei lezioni di Dissolution.
Al di là di un esteso, ma dopotutto lineare riferimento alla sessualità femminile e al godimento fallico (che, come “soddisfazione autentica” e ostacolo al rapporto sessuale, conserva la sua ordinaria bifidità), uno dei punti forti che ricorre nel Seminario XXVII è la questione della debilità mentale, che occupa una posizione essenziale nell’ultimo Lacan. Si tratta di un argomento sviluppato ampiamente a partire dall’adozione della topologia, e che lo psicoanalista francese utilizza per radicalizzare le sue prime tesi sull’antropologia filosofica e sulla supplenza immaginaria che colma il dis-adattamento strutturale dell’animale parlante. Dopo aver decretato che la debilità mentale è qualcosa di essenzialmente immaginario (perché indissociabile dal modo in cui l’uomo percepisce lo spazio a partire dalla ri-proiezione bidimensionale della propria immagine corporea), dal Seminario XXIV in poi la debilità mentale viene riconcepita come intrinsecamente simbolica e, con non poche oscillazioni, identificata ora con il linguaggio e il mentale (e cioè con il pensiero per come esso viene inteso nelle discipline psy e umanistiche), ora semplicemente con l’inconscio. Con il progredire della critica all’inconscio freudiano e la ritrattazione della massima ‘l’inconscio è strutturato come un linguaggio’ però la faccenda si semplifica notevolmente: squalificando l’istanza dell’inconscio ed abbassandola ad un fenomeno in continuità topologica con la coscienza, Lacan fa equivalere l’inconscio della metapsicologia ad un’elucubrazione mentale, e quindi, per continuità, al mentale tout court. Ma poiché, a meno di non voler ricadere in uno sconvenente sostanzialismo, il mentale è inconcepibile se separato dagli effetti di linguaggio (“il mentale è intessuto di parole” dice Lacan nella lezione del 10 maggio 1977), nel Seminario XXVII la debilità mentale si riduce alla semplice ma eloquente evidenza che la parola non si accorda con il pensiero: non solo l’animale parlante non dice quello che pensa perché “misconosce” la parola, ma ciò accade anche perché quest’ultima, retroattivamente, “ingarbuglia” il suo modo di pensare[xliii]. Se il linguaggio è un “bubbone”[xliv], la parola è un intoppo, l’impasse del mentale, ed è per questo motivo che l’uomo “pensa debile”[xlv]. A livello epistemologico, questo scacco della parola si ripercuote sull’esigenza del soggetto di pensare l’universo come ciclico, circolare, ovvero di “introdurre l’Uno nel reale” in modo che esso risulti “inglobante rispetto a quel corpo che lo abita”[xlvi]. Il bisogno di pensare il “mito”[xlvii] dell’universo come Uno è puramente inconscio, e “ci dimostra […] che la parola è oscurantista”[xlviii], perché permette di far esistere ciò a cui essa si riferisce pur non arrivando a toccare il reale. Nel Seminario XX, Lacan dice che “il significante è stupido”[xlix], in quanto “gli effetti di significato hanno l’aria di non avere niente a che fare con ciò che li causa. Questo vuol dire che le referenze, le cose che il significante serve ad approcciare, restano appunto approssimative”[l]. Non solo non esiste alcuna realtà pre-discorsiva, perché ciascuna realtà si produce a partire da un “effetto di discorso”[li], ma questa stessa fondazione della realtà per mezzo del linguaggio è esattamente ciò che ci preclude l’accesso al reale tout court. Proprio perché è il linguaggio a definire la realtà, questo oscurantismo viene raddoppiato dal suo inevitabile rimando alla Rivelazione, al divino “sia fatta la luce” (15 apr). È esattamente in questo modo che deve essere letta l’affermazione di Lacan per cui “fino a quando si dirà qualcosa, ci sarà l’ipotesi Dio”[lii]: Dio è inconscio perché è presupposto in qualunque effetto del significante. La novità del Seminario XXVII sta nel fatto che, in un certo senso, l’ipotesi Dio viene esplicitamente estesa alla filantropia, che “triplica” l’oscurantismo della parola, e al progressismo, che la “quadruplica”. In particolare, specifica Lacan, con il progressismo è “notte fonda […] Quando le stelle si spengono, ecco cosa abbiamo: ‘il desiderio degli uomini è di aiutarsi gli uni con gli altri per stare meglio’”. (15 apr) È probabile che questo colpo basso nei confronti del comunismo à la page non faccia solo parte della conclamata critica dell’ideologia che percorre trasversalmente tutto l’insegnamento di Lacan, ma si riversi in un più intenzionale corpo a corpo con Marx, il marxismo e la filosofia. Effettivamente, nel corso di Dissolution, il nome del filosofo tedesco appare in più di un’occasione, fatto non trascurabile se si considerano le poche e brevi lezioni del seminario. Nella Lettera di Dissoluzione, ribadendo come la stabilità della religione e delle istituzioni derivino dal senso, Lacan dice che “è la Chiesa […] che sostiene il marxismo ricevendone sangue nuovo”[liii]. Questo riferimento di passaggio può sembrare particolarmente equivoco, specie se si pensa che Lacan esalta Marx come il vero inventore del sintomo (qui inteso come ciò che mina la falsa universalità prodotta dal senso). Inoltre, non è chiaro se Lacan si stia riferendo direttamente al Marx filosofo nella sua persona o al Marx quale Ideale della linea politica marxista. Il dubbio può essere presto chiarito facendo riferimento alla lezione del 18 marzo, in cui il messaggio è invece inequivocabile: “Ho reso omaggio a Marx come all’inventore del sintomo. Questo Marx, tuttavia, è il restauratore dell’ordine, per il semplice fatto che egli ha re-insufflato nel proletariato la dir-mensione del senso. [Per questo] la Chiesa lo ha preso a modello”[liv]. Tra le due alternative proposte poc’anzi, la scelta migliore dovrebbe allora essere quella di non sceglierne nessuna in particolare, ma di conservarle entrambe: Lacan si rivolge tanto al Marx filosofo, inventore del sintomo quale entità perturbatrice che smentisce l’universale di cui è parte, tanto al Marx prosopopea del marxismo, perché questa ‘doppia personalità’ incarna l’esempio perfetto di come anche il più radicale e destabilizzante degli atti rischia di ossificarsi in una squallida operazione di senso. La politica identitaria del proletariato marxiano in questo caso, inizialmente nata come impareggiabile agente di destabilizzazione, rappresenta ormai la più riuscita delle religioni moderne, una narrazione inzuppata di senso che anziché minacciare l’integrità del sistema ne è la principale molla reazionaria, il più efficiente dei dispositivi di restaurazione.
Questo riposizionamento rispetto al marxismo è a sua volta significativamente interconnesso con l’ultima parola di Lacan sulla filosofia in generale. Come ha notato Johnston, per il tardo, ma non per l’ultimo Lacan, il senso agisce da spartiacque per dividere, da un lato, la filosofia e la religione e, dall’altro, la psicoanalisi e la scienza galileiana. Mentre le prime si ascriverebbero ad un ambito idealistico ed eccessivamente compromesso dalla vischiosità del senso, la psicoanalisi e le scienze formalizzabili riuscirebbero a fornire un confronto materialistico con il nocciolo insensato del reale. La postura cosiddetta ‘antifilosofica’ di Lacan, dopo una conclamata ed impegnativa ambivalenza nei confronti della filosofia, si era consolidata con la riorganizzazione del Dipartimento di psicoanalisi di Vincennes, nel 1975. La dottrina del matema e l’ideale di formalizzazione scientifica perseguiti in quegli anni entravano in un rapporto di mutua e inesorabile esclusione con il sapere filosofico. Mentre infatti quest’ultimo, sempre più snaturato dalle maglie del mercato del sapere, cadeva dal lato del discorso del padrone e del senso, la psicoanalisi funzionava proprio come operatore di non-senso, perpetuando la demistificazione radicale delle elucubrazioni ideologiche. Al contrario, prosegue Johnston, negli ultimi seminari (XXIV-XXV) si assiste ad una drastica riconfigurazione della “tetrade” psicoanalisi, filosofia, religione e scienza, dettata dall’irriducibilità del senso nell’esperienza umana[lv]. A mio parere, Dissolution mescola nuovamente le carte: nel dattiloscritto Monsieur A., in cui viene pronunciato il celebre adagio dell’antifilosofia “insorgo, se così posso dire, contro la filosofia”[lvi], Lacan chiude i conti sui presunti rapporti tra psicoanalisi e filosofia sentenziando non solo che la psicoanalisi non ha bisogno della filosofia per far comprendere cos’è un soggetto, ma anche che quest’ultima ormai “è una cosa finita”[lvii]. Potremmo dire che dopo il triennio pessimista del 1976-1979 (Seminari XXIV-XXVI), Lacan torni a schierarsi apertamente tanto contro la filosofia, quanto contro la religione. Se infatti, come sostiene Jean-Claude Milner, “antifilosofia è solamente un altro nome del matema”, nel senso che “vi è mutua esclusione tra la filosofia e il matema della psicoanalisi”[lviii], allora l’insurrezione finale di Lacan contro la filosofia avvenuta dopo il dissolvimento della EFP è da attribuire non tanto ad un definitivo e inguaribile nichilismo, quanto piuttosto ad un invito a fare attivamente ritorno alla formalizzazione e al matema. Anzi, potremmo persino spingerci a dire che con il suo “non mi vanto di produrre senso […] giacché il reale è ciò che vi si oppone”[lix] non solo Lacan riabiliti la separazione tra psicoanalisi da una parte e religione e filosofia dall’altra, ma finisca per ridurre la filosofia ad un surrogato della religione, come afferma sprezzantemente quando, riferendosi a Marx, dice che “la Chiesa lo ha preso a modello”[lx]. Certo, egli non intende dire che la filosofia sia sempre stata un’ancella della religione, ma che quest’ultima, in piena e irrefrenabile espansione, sia riuscita a prevaricare definitivamente sulla filosofia, aumentando notevolmente le proprie chance di successo: “sappiate che il senso religioso farà un boom di cui non avete nessuna specie di idea”[lxi]. La psicoanalisi dunque, pur essendole tanto prossima da “tender[vi] irresistibilmente”[lxii], è l’ultimo baluardo contro il trionfo della religione.  
 
Le malentendu: l’inconscio minimale
Nella lezione del seminario che precede la partenza per Caracas, Lacan chiude il cerchio mettendo in relazione la pervasività della religione con la debilità mentale. Come abbiamo detto, il senso è una componente irriducibile ed essenziale della vita di ogni soggetto: il fatto stesso che si parli, inevitabilmente, presuppone l’ipotesi Dio, e la religione lavorerebbe proprio da industria del senso, una macchina inarrestabile che mette il soggetto al riparo dalla desolante insensatezza del reale. A livello gnostico, l’interdipendenza tra debilità e religione, tra linguaggio e senso, si articola nella falsa credenza che “tutto possa essere rivelato”, quando invece c’è sempre “una parte che non si rivelerà mai”[lxiii]. L’errore dell’animale parlante allora, la sua debilità mentale, sta nel credere che il linguaggio possa schiudergli un sapere assoluto, ovvero condurlo, come nel Faust, ad uno svelamento totale del sapere. Tutt’al contrario, egli è nel pieno del “malinteso” [malentendu], perché il linguaggio è, per usare un termine del Seminario XXI, un troumatisme (gioco di parole tra trou (buco) e traumatisme (trauma)), un’invenzione che subentra proprio per supplire l’incompletezza del reale. Il fatto che si parli è la prova lampante che siamo inchiodati al non-tutto, a “pezzi” di reale. La psicoanalisi ribadisce questa verità d’incompletezza ogni giorno, perché lavorare sull’inconscio implica proprio l’assunto che ciascun parlessere possieda una verità essenzialmente particolare: in altri termini, non c’è tutto perché “non c’è impasse comune”[lxiv].
Questa promessa di rivelazione è invece proprio ciò di cui la religione “va fiera”, il suo marchio di fabbrica. Per non divenire anch’essa una religione, che nega la verità di incompletezza e la rimpiazza con una elucubrazione di senso onnisciente, la psicoanalisi è chiamata a dissacrare il fantasma della rivelazione e, come dice Lacan, “sfrutta[re] il malinteso”[lxv] (con un gioco di parole, potremmo ribaltare questa massima e dire che essa deve fare del malinteso la sua rivelazione).
L’importanza di quest’ultima parola non deve essere in alcun modo trascurata, perché è fondamentale per cogliere l’orientamento finale di Lacan nei confronti dell’inconscio: per Alain Lemosof, in Dissolution Lacan sembra essere sul punto di sostituire il termine ‘malentendu’ a quello di ‘inconscio’[lxvi], proposta che costituisce il cuore dell’ultima lezione che stiamo analizzando, titolata proprio Le malentendu. Non ho obiezioni alla proposta di Lemosof, perché questa intuizione di Lacan sembra effettivamente trovare sufficiente riscontro in diversi punti della lezione. Ad esempio, quando afferma che “io non dico che il verbo sia creatore. Io dico tutt’altra cosa perché la mia pratica lo comporta: io dico che il verbo è inconscio – e cioè malinteso”[lxvii]. Un passaggio simile ricorre anche poco più avanti: “ciò che voi sostenete a titolo dell’inconscio, cioè di malinteso, è lì che si radica”[lxviii]. Inoltre, questa equiparazione trova ulteriore supporto nel tentativo, già avviato nel Seminario XXIV, di fornire una nozione alternativa e minimale di inconscio, che venga alleggerita degli ingombri concettuali e sostanzialistici dell’istanza presentata nella seconda topica freudiana. Come è noto, Lacan ha sempre serbato una manifesta reticenza nei confronti della riconfigurazione strutturale dell’inconscio presentata da Freud ne L’Io e l’Es, tanto che potremmo definire questo disaccordo come lo scoglio definitivo che, nonostante tutto, continua a tenere Lacan separato da Freud.
Di tutti i punti ritrattati da Lacan nel suo tardo e severo criticismo contro Freud infatti, la seconda topica rimane indubbiamente una macchia, un resto immutato ed esente da revisioni di sorta, che non trova soddisfazione neanche nella riconciliazione di Caracas, dove Lacan si definisce comunque freudiano. Anzi, è esattamente in questa sessione che Lacan, commentando lo schema di Freud in cui si ripartiscono Io, Es e Super-Io, ribadisce che essa “non è quanto Freud abbia fatto di meglio”[lxix]. Il tentativo più drastico di andare oltre il ‘secondo tipo’ di inconscio freudiano, poi presumibilmente ritrattato nei seminari successivi, è stato senza alcun dubbio l’une-bévue (gioco di parole tra il francese une bévue (una svista) e il tedesco Unbewusst (inconscio)) del Seminario XXIV: sottraendo all’inconscio la sua connotazione di istanza, è possibile sfuggire tanto all’idea contraddittoria delle rappresentazioni inconsce, tanto all’ipotesi vitalista dell’Es di Groddeck e, soprattutto, si può risolvere la problematica continuità dell’inconscio con la coscienza ristabilita dalla seconda topica. Quel che rimane una volta depurato l’inconscio da ogni elucubrazione è una svista, un taglio evenemenziale che, attraverso l’incursione del lapsus, del sintomo o del motto di spirito, produce una smagliatura nella falsa consistenza della coscienza. Eppure, ammonisce Lacan nella celebre Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI (1976), “basta prestarvi attenzione/i che se ne esce”[lxx]: non appena cerchiamo di afferrare questo inconscio minimo nel concetto (Begriff), subito lo sporchiamo con il senso, e finiamo per parlare di tutt’altra cosa.
Pur rivelandosi meno sovversivo dell’inconscio une-bévue, l’inconscio come malinteso conserva del primo due caratteristiche essenziali: le proprietà minimali dell’inconscio linguistico e sincronico (una specie di variante dell’inconscio-pulsazione del Seminario XI, privata però del rimando alle formazioni dell’inconscio) e le implicazioni etico-politiche di una pratica analitica orientata al reale. Quest’ultimo punto è particolarmente importante perché si allinea perfettamente con l’andamento generale del seminario: se gli psicoanalisti non vogliono trasformarsi in religiosi, essi devono assumere e sostenere questo malinteso alla stregua di un’ipotesi necessaria, ma devono anche ricordare che esso non può in alcun modo essere dissipato, che insomma non esiste nessuna interpretazione in grado di prosciugare l’inconscio. Questo carattere al tempo stesso onnipresente ma mai del tutto afferrabile del malinteso è per l’animale umano il “trauma della nascita”, dice Lacan richiamandosi a Otto Rank, al punto che “non esiste altro trauma della nascita che quello di essere stati desiderati”[lxxi]. Più che essere endemico, il malinteso si direbbe allora specie-specifico, in quanto si tratta di qualcosa che “viene trasmesso quando si ‘dona la vita’”, che è “già lì”[lxxii], da sempre, come una sorta di filo che lega tra loro più generazioni. La trasmissibilità intergenerazionale del malinteso ripropone e in parte risponde al quesito posto da Lacan nel Seminario XXV: perché gli analizzanti parlano inesorabilmente dei loro parenti? Bisogna notare che per l’ultimo Lacan, il linguaggio perda ogni funzione intersoggettiva e diventi qualcosa di completamente estraneo alla comunicazione. I parlesseri, gli animali parlanti, sono delle monadi che non si capiscono tra loro e passano tutto il tempo a parlarsi addosso. Se arrivano a capirsi, dice Lacan, ciò avviene per una imprevista compatibilità tra i loro fantasmi, ovvero, ancora una volta, accidentalmente, per un malinteso. In quest’ottica, il malinteso verrebbe paradossalmente a porsi come ciò che crea il rapporto nel non-rapporto, una sorta di supplenza che ristabilisce una fragile e ineluttabile forma di legame tra le generazioni, e alla cui intelaiatura il primo Freud, quello alle prese con i romanzi familiari delle isteriche, avrebbe dato il nome di Edipo.
Concludendo, potremmo affermare che la formula che ci permette di inquadrare al meglio il contesto di Dissolution sia il “Je père-sévère” che troviamo a metà della Lettera di Dissoluzione, che gioca sull’omofonia tra ‘padre severo’ [père sévère] e ‘persevero’ [persévère], e che mi sembra possa essere letta in almeno tre modi: al passato, cioè in riferimento alla decisione incontrovertibile della dissoluzione dell’EFP; al presente, nel senso che, nonostante l’atto della dissoluzione il seminario continua ad aver luogo (più o meno) regolarmente; e, infine, al futuro, dove la perseverazione richiama il già auspicato desiderio di Lacan di “non dormire” (“Ho ben il diritto, come Freud, di rendervi partecipi dei miei sogni che, contrariamente a quelli di Freud, non sono però ispirati dal desiderio di dormire; è invece il desiderio di risveglio che mi agita”)[lxxiii].
 
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[i] Cfr. C. Dorgeuille, 2000.
[ii] Si veda il thesaurus in J. Dӧr, 1994.
[iii] Si veda P.-L. Assoun, 2019.
[iv] É. Roudinesco, 1995, pp. 554-555.
[v] Cfr. C. Dorgeuille, 2000, p. 18.
[vi] Cfr. A. Johnston, 2019, p. 157.
[vii] J.-A. Miller e A. Di Ciaccia, 2018, pp. 7-8.
[viii] Cfr. N. Jaudel, 2019, in particolare pp. 133-146.
[ix] Cfr. N. Francion, 1986, p. 5.
[x] Ibidem.
[xi] A. Lemosof, 2005, p. 442.
[xii] J. Lacan, lezione del 10 giugno 1980, inedito.
[xiii] Ibidem.
[xiv] M. Marini, 1992, p. 1.
[xv] Ivi, p. 136.
[xvi] Ibidem.
[xvii] Cfr. J.-C. Milner, 2019, pp. 13-14.
[xviii] J. Lacan, 2013, p. 314.
[xix] J. Lacan, 2000, p. 10.
[xx] Cfr. J. Lacan, lezione del 10 giugno, inedito.
[xxi] J. Lacan, 1979, p. 61.
[xxii] Ivi, p. 63.
[xxiii] A. Badiou, É. Roudinesco, 2019, p. 101.
[xxiv] J. Lacan, 2013, p. 563.
[xxv] M. Recalcati, 1995, p. 37.
[xxvi] J. Lacan, 2001 , p. 234.
[xxvii] Ibidem.
[xxviii] J. Lacan, 2013, p. 314.
[xxix] Ibidem.
[xxx] A. Johnston, 2019, p. 183.
[xxxi] J. Lacan, 1979, p. 62.
[xxxii] J. Lacan, lezione del 18 marzo 1980, inedito.
[xxxiii] Ivi, lezione dell’11 marzo 1980.
[xxxiv] Ibidem.
[xxxv] J. Lacan, 2015, p. 9.
[xxxvi] J. Lacan, 1979, p. 65.
[xxxvii] J. Lacan, 2013, p. 313.
[xxxviii] Ivi, p. 314.
[xxxix] J. Lacan, lezione del 10 giugno 1980, inedito.
[xl] A. Lemosof, 2005, p. 442.
[xli] J. Lacan, lezione del 18 marzo, inedito.
[xlii] Ibidem.
[xliii] J. Lacan, 2013, p. 313.
[xliv] J. Lacan, 1987, p. 22.
[xlv] Ibidem.
[xlvi] J. Lacan, 2015, p. 12.
[xlvii] Ivi, p. 10.
[xlviii] J. Lacan, lezione del 15 aprile 1980, inedito.
[xlix] J. Lacan, 2011, p. 20.
[l] Ibidem.
[li] Ivi, p. 30.
[lii] Ivi, p. 43.
[liii] J. Lacan, 2013, p. 314.
[liv] J. Lacan, lezione del 18 marzo, inedito (corsivo mio).
[lv] A. Johnston, 2019, p. 172.
[lvi] J. Lacan, lezione del 18 marzo 1980, inedito.
[lvii] Ibidem.
[lviii] Ivi, p. 151.
[lix] J. Lacan, lezione del 18 marzo 1980, inedito.
[lx] Ibidem.
[lxi] Ibidem.
[lxii] Ibidem.
[lxiii] Ivi, lezione del 10 giugno.
[lxiv] Ivi, lezione del 15 gennaio.
[lxv] Ivi, lezione del 10 giugno.
[lxvi] Cfr. A. Lemosof, 2005, p. 443.
[lxvii] Ibidem.
[lxviii] Ibidem.
[lxix] J. Lacan, 2000, p. 11.
[lxx] J. Lacan, 2013, p. 563.
[lxxi] J. Lacan, lezione del 10 giugno 1980, inedito.
[lxxii] Ibidem.
[lxxiii] J. Lacan, 1993, p. 27.
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