ELOGIO DELLA DUTTILITÀ E DEL RIGORE AL TEMPO DEL CORONAVIRUS
18 aprile, 2020 - 16:02
18 aprile, 2020 - 16:02
“Se vogliamo vivere per sempre dobbiamo continuare ad adattare noi stessi al nostro ambiente e il nostro ambiente a noi stessi e dobbiamo inoltre prevedere e anticipare gli adattamenti che un giorno saranno necessari”.
Money-Kyrle, Le conseguenze remote della psicoanalisi sul comportamento individuale, sociale ed istintivo, 1931, pp. 150-151.
Money-Kyrle, Le conseguenze remote della psicoanalisi sul comportamento individuale, sociale ed istintivo, 1931, pp. 150-151.
Nonostante l’emergenza non possa esser prevista per definizione e non possano essere prescritte regole di comportamento astratte e generali a priori, le sue dinamiche in atto possono essere vissute e studiate come un esperimento di dimensione straordinaria ed eccezionale che può fornire utili strumenti di elaborazione sia per quando ci sarà il ritorno a una relativa quotidianità, per quanto non sovrapponibile alla quotidianità antecedente la crisi d’eccezione, sia per avere una dotazione esperienziale da utilizzare in eventuali successivi stati emergenziali.
Pur essendo l’epidemia da coronavirus percepibile come una novità di straordinaria evidenza e intensità che rompe gli usuali parametri che regolano le relazioni, compresa la relazione analitica, essa è però accompagnata da aspetti di continuità con alcune situazioni del recente passato che ci hanno costretto a faticose riflessioni.
La globalizzazione dell’economia, la presenza di Internet, i nuovi media, la relativa compressione dello spazio e la modificazione del tempo nelle comunicazioni, sono alcuni dei fenomeni che hanno preceduto e accompagnato questa fase e che, avendo penetrato nel nocciolo duro dell’esperienza psichica, hanno cominciato a ristrutturare le transazioni inconsce tra gli esseri umani attraverso nuove e spesso drammatiche modalità.
Dovremmo, pertanto, prendere le distanze da opprimenti vissuti cataclismatici e costruire le nostre riflessioni, adottando la funzione dell’erraticità, cioè di un costante lavoro di interrogazione di una realtà evasiva e versatile, plurale e ambivalente, e di come noi individualmente abitiamo e ci posizioniamo in essa con una dubbiosità discreta, con flessibilità e cautela, con uno scetticismo non cinico, ma permeato di una certa ingenuità indagatrice.
Bion evidenzia la necessità “di realizzare l’ingenuità della visione, quando un problema è tanto sovraccarico di esperienza che i suoi contorni sono diventati confusi e le sue possibili soluzioni oscure. […] La capacità dell’analista di conservare la sostanza del suo training e della sua esperienza, e tuttavia di raggiungere una visione ingenua del suo lavoro, gli permette di scoprire da sé e a modo suo le verità scoperte dai suoi predecessori” (Bion, 1963, p. 107).
Cercare di acquietare il senso di spaesamento, di volatilità e di precarietà dei progetti di vita di uomini e donne in fasi storiche nuove e non preventivabili come quella attuale, brandendo certezze del passato, novelli laudatores temporis acti,[1] come Orazio definiva i vecchi che non accettavano il nuovo del presente, e di conseguenza spiegare quello spaesamento facendo leva solo sui “sacri testi”, sulla forza della tradizione, è solo apparentemente rassicurante, mentre è sostanzialmente un’operazione antieconomica.
Erik H. Erikson (1964) ha definito la fedeltà come “la capacità di restare coerenti con i principi liberamente scelti, nonostante le inevitabili contraddizioni dei sistemi di valore” (p. 128), ma il restare abbarbicati difensivamente a una visione del mondo non calibrata con la complessità socioculturale a cui dovrebbe far riferimento, non ha a che vedere con la fedeltà, ma con l’accettazione acriticamente fideistica dell’ortodossia e porta ad ululare con i lupi (Freud, 1921).
Penso che sia un dovere terapeutico, etico e culturale dello psicoanalista comprendere quanto sia necessario allargare in situazioni eccezionali quel “campo di gravitazione” nel quale si definiscono e si collocano le relazioni tra curato, curante e mondo.
Separarci dalle nostre certezze teoriche e cliniche comporta vissuti di sofferenza e confusione, anche di inadeguatezza, ma dobbiamo evitare che, come gli eroi di certi racconti di fantascienza, gli analisti vivano, e propongano agli analizzandi di vivere, in spazi laterali e paralleli, contigui a quelli della storia e della vita, ma invisibili e inaccessibili. Bisogna porre attenzione a non contrapporre al tempo e allo spazio globalizzati e all’uso di nuovi sistemi comunicativi, il cui senso è fare da supporto vicariante alla relazione analitica in studio, quando è transitoriamente impedita, un nostalgico e lento tempo passato, un'improbabile ricerca del tempo perduto non riproponibile tout court ai giorni nostri, i giorni della pandemia. Una sterile contrapposizione simile la troviamo nelle dispute di football fra sostenitori di un gioco basato sulla tecnica individuale e la genialità ma lento, e sostenitori di un gioco basato sulla muscolarità, la potenza atletica e la velocità, ma senza fantasia.
Dobbiamo porre molta attenzione nell’osservazione di modificazioni degli stili di vita, tanto intense quanto confuse, di vettori di cambiamento che velocemente modificano la loro traiettoria in situazioni di emergenza, dando il giusto valore a comportamenti sociali segnale, pur riconoscendone la transitorietà ed evitando di trarre conclusioni catastrofiche del tipo “tutto è cambiato” o, per converso, conclusioni consolatorie del tipo “sostanzialmente nulla è cambiato”. Bisognerebbe cercare quindi di esercitare la capacità negativa di Keats richiamata da Bion, e restare in oscillazione tra continuità e discontinuità, stare nell’incertezza, nell’indefinitezza, evitando il dogmatismo dottrinale difensivo, cioè abbandonando memoria e desiderio e avendo fede nella risposta creativa del proprio inconscio, senza cercare una redenzione o almeno una tregua in un sogno di appartenenza a modalità di contatto emotivo, come quello nella stanza di analisi, sentiti come assoluti e impossibili da modificare, pena la degradazione della relazione.
Francesco Barale (2003) sostiene che gli psicoanalisti dovrebbero evitare di reagire alla turbolenza con posizioni fondamentaliste, implicitamente normative.
L’analista dovrebbe accettare la sofferenza di stare nel guado e pensarsi come un bricoleur, bravo a costruire con quanto ha a disposizione in termini di differenti teorie e differenti setting, che possono essere variamente calibrati anche attraverso originali modalità di sperimentazione che, pur partendo da paesaggi familiari, possano aprire nuovi percorsi conoscitivi e relazionali.
Scrive Lucien Israël:
“Le regole, qualunque esse siano, devono potere essere rimesse in discussione e, nella nostra disciplina, essere sottoposte a un lavoro di rielaborazione tanto congiunturale quanto teorico per non correre il rischio di essere feticizzate e perdere tutto il loro senso vivente” (Israël, 1994, p. 33).
Il temporaneo rimodellamento del setting che può rendersi necessario in situazioni eccezionali, come quella che stiamo vivendo, non ha a che vedere con la deregulation, cioè con modalità autarchiche e non rispettose delle regole tecniche con cui può essere condotta una relazione analitica, ma, attraverso l'istituzione di regole con modalità duttili o rigide, riguarda il modo in cui il terzo, la legge viene rappresentata nella relazione.
"Prendere atto di questi fattori esterni nelle nostre istituzioni e nella nostra pratica privata non dovrebbe implicare necessariamente un appiattimento adattativo e passivo nei confronti di tali fattori. Potrebbe però favorire un processo di lento e doloroso ripensamento e di lutto di posizioni passate, caratterizzate da un certo narcisismo e da chiusura nei confronti della realtà sociale circostante, che sono state tipiche di certi periodi storici della psicoanalisi" (Kluzer, 2001, p. 114).
Un passaggio a nuove regole, seppure transitorie e in attesa del progressivo ripristino del setting tradizionale, mette ovviamente in questione il rapporto che il gruppo degli analisti ha stabilito con le figure storiche di riferimento e con i miti fondatori ed esso coinvolge aspetti organizzativi, culturali, politici. Piuttosto che essere difensivamente arroccato in alcune aree di sacralità, il gruppo dovrebbe funzionare come un apparato complessivo sufficientemente strutturato, ma fluido e dinamico, capace cioè di tollerare i cambiamenti necessitati dalle mutate condizioni storiche sia esterne che interne. La risposta pertanto non può essere né la rigida difesa delle regole originarie all'insegna della feticizzazione, dell'ossessivizzazione burocratica, né la dissoluzione della propria identità nell'assenza di ogni valore ordinatorio.
Mi sembra utile sottolineare la necessità di fare riferimento a diversi indirizzi, alla pluralità e alla complessità dei nostri orizzonti attuali in continua e produttiva evoluzione, per andare a una loro utilizzabilità in un buon contesto metateorico e metterli a confronto con l’esperienza clinica che scompagina e ricompone continuamente gli assetti teorici. Il continuo ripensare e ricalibrare la propria tecnica, aiuta ad alleggerirla delle microillusioni di onnipotenza euristica e introduce feconde problematizzazioni sull’angolatura che si tende in genere a adottare.
Ovviamente non si tratta di un generico eclettismo teorico-clinico, né tantomeno di propugnare una sorta di intuitività onnipotente, ma di riflettere sulla relativa compatibilità e incompatibilità delle differenti modalità terapeutiche, per esempio su quanto venga perso e quanto venga mantenuto, su quanto ci sia di nuovo e quanto possa essere riconducibile al noto nelle analisi a distanza, su quanto debba riferirsi a una teorizzazione che sia contemporaneamente rigorosa e liberamente fluttuante, viva, elasticamente transitiva, fatta di continuità ed embricazioni tra differenti modelli, ma anche di rotture e disarticolazioni.
BIBLIOGRAFIA
Barale, F. (2003), Normale caos dell’amore: corpo, Edipo e sexualtheorie all’epoca della modernità liquida, Psiche, 1: 19-32.
Bion, W. R. (1963), Elementi della psicoanalisi. Trad. it. Roma: Armando, 1973.
Erikson, E. H. (1964), Introspezione e responsabilità. Trad. it. Roma: Armando, 1968.
Freud, S. (1921), Psicologia delle masse e analisi dell’io. OSF, vo. 9.
Israël, P. (1994), Spécificité (s) de la formation analytique, EPF Bulletin, 42: 31-39.
Kluzer G. (2001), Dalla psicoterapia alla psicoanalisi (e ritorno?): un percorso difficile per il candidato di oggi, Rivista di psicoanalisi, XLVII, 1: 109-128.
Money-Kyrle, R. (1931), Le conseguenze remote della psicoanalisi sul comportamento individuale, sociale ed istintivo (pp. 108-127). In Id. Scritti 1927-1977. Trad. it. Torino: Loescher, 1984.