La negazione (1925) Traduzione di Antonello Sciacchitano

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22 gennaio, 2021 - 09:51

Sigmund Freud, 1925

Die Verneinung in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XIV, p. 11

 

Il modo in cui i nostri pazienti producono le loro associazioni durante il lavoro analitico ci offre l’occasione per alcune osservazioni interessanti. «Ora lei penserà che voglia dire qualcosa di offen­sivo, ma in realtà non ne ho l’intenzione». L’intendiamo come ri­fiuto proie­ttivo dell’idea emergente. Oppure: «Lei si chiederà chi possa essere la persona del sogno? Non è proprio mia madre». Rettifichiamo: «Allora, è proprio la madre». Interpre­tando ci prendiamo la libertà di prescindere dalla negazione e di cogliere il puro contenuto [ideativo] dell’associazione. È come se il paziente avesse detto: «Circa quella persona mi è davvero ve­nuta in mente mia madre, ma non mi va di far valere questa associazione».

A volte si riesce a ottenere il voluto chiarimento del rimosso inconscio in un modo a portata di mano. Basta chie­dere: «In questo caso qual è per lei la cosa più inverosimile di tutte? In altri termini, a suo parere, cosa c’è di più lon­tano per lei?». Se il paziente abbocca, nominando la cosa per lui meno credibile, ha quasi sempre confessato la cosa giusta. Spesso una graziosa controprova la dà il nevrotico ossessivo già avviato alla com­pren­sione dei suoi sintomi. «Ho avuto una nuova rappresentazione ossessiva. Lì per lì mi è ve­nuto in mente che avesse questo preciso significato. Ma no, non può essere così, altrimenti non mi sarebbe venuto in mente». Naturalmente, usa la giustificazione orecchiata nella cura per ri­gettare il giusto senso della nuova rap­presentazione coatta.

Allora il contenuto di una rappresentazione o di un pensiero rimossi può penetrare nella coscienza solo a patto di farsi negare. La negazione è un modo di venire a conoscenza del ri­mosso; in verità, è già un modo di superare la rimozione ma senza accettare il rimosso. Qui si vede la funzione intellettuale scindersi dal processo di eccitazione. Con l’aiuto della negazione si inverte solo la con­se­guenza del processo di rimozione, che impedisce al contenuto di quella rappresentazione di giungere alla co­scienza. Ne risulta una sorta di accettazione intellettuale del rimosso, che non intacca l’essenziale della rimozione.1 Spesso durante il lavoro analitico viene a crearsi una variante, sconcer­tante benché importante, della stessa situazione. Si riesce a vincere la negazione, ottenendo la piena accettazione intellettuale, pur senza superare così il processo di rimozione.

Avendo la funzione intellettuale del giudizio il compito di affermare o negare i conte­nuti di pen­siero, le osservazioni precedenti ci hanno condotto alla sua origine psicologica. In fondo negare qualcosa nel giudizio si­gnifica: «È qualcosa che pre­ferirei molto rimuovere». La condanna è il sostituto in­tellettuale della rimozione. Il «no» è un contrassegno, un certificato di origine, qualcosa come made in Germany. Grazie al simbolo della negazione il pensiero si affranca dai vincoli della rimo­zione e si arricchisce di contenuti indispensabili al funzionamento.

La funzione del giudizio ha essenzialmente due decisioni da prendere: primo, deve accordare o contestare a una cosa una certa qualità; secondo, deve accordare o negare a una rappresentazione l’esistenza nella realtà. Originariamente, la qualità su cui de­cidere può essere stata buona o cattiva, utile o dan­nosa. Nel lin­guaggio dei più antichi moti pulsionali orali si direbbe: voglio mangiarlo o voglio sputarlo. In versione successiva, voglio introdurlo in me o voglio escluderlo da me, cioè, deve stare dentro o fuori di me. Come ho spiegato altrove, l’originario Io-piacere vuole introiettare in sé tutto il bene e ri­gettare da sé tutto il male. Inizialmente per l’Io il male, l’estraneo, l’esterno, sono la stessa identica cosa.2

L’altra decisione della funzione del giudizio riguarda l’esistenza della cosa rappresentata; essa interessa l’Io-realtà definitivo, sviluppatosi dall’originario Io-piacere (prova di realtà). Ora non si tratta più se ammettere o no nell’Io qualcosa di percepito (una cosa) ma se qualcosa presente nell’Io come rappresentazione si possa ritrovare anche nella percezione (realtà). Come si vede, è ancora una questione di fuori e dentro. Il non reale, puramente rappresentato, soggettivo, è solo dentro. In tale sviluppo si mette da parte ogni considerazione del principio di piacere. L’esperienza ci ha insegnato che l’importante non è solo che una cosa (oggetto di soddisfazione) possieda la “buona” qualità, quindi meriti di essere ammessa nell’Io, ma anche che sia presente nel mondo esterno, in modo da poter al bisogno impadronirsene. Per comprendere il processo, non si dimentichi che tutte le rappresentazioni derivano dalle percezioni, essendo loro ripetizioni. Originariamente, quindi, già l’esistenza della rappresentazione garantisce la realtà del rappresentato. La contrapposizione tra soggettivo e oggettivo non sussiste sin dall’inizio. Si produce solo perché il pensiero ha la facoltà di ripresentare nella rappresentazione, riproducendola, qualcosa già percepita una volta, non essendo necessaria la presenza esterna dell’oggetto. Il fine primo e immediato della prova di realtà non è, quindi, trovare un oggetto corrispondente alla rappresentazione ma ritrovarlo, convincendosi che è ancora presente. Un’altra facoltà della capacità di pensare contribuisce ulteriormente a estraniare l’oggettivo dal soggettivo. La riproduzione della percezione nella rappresentazione non sempre la ripete in modo fedele; la ripetizione si può modificare omettendo elementi o alterare mescolandone diversi. La prova di realtà deve allora controllare fino a che punto la deformazione possa arrivare. Ma allora riconoscere la perdita di oggetti che un tempo hanno prodotto una soddisfazione reale è la condizione per instaurare la prova di realtà.

Giudicare è l’azione intellettuale che decide la scelta dell’azione motoria; ponendo termine al differimento del pensiero, passa dal pensare all’agire. Anche sul differimento del pensiero ho trattato altrove. Va considerato un’azione di prova, un tastare motorio con scarso dispendio di scarica. Pensiamoci bene: dove l’Io ha già prima esercitato tale tastare, dove ha imparato la tecnica, che ora applica ai processi di pensiero? Ciò avvenne all’estremità sensoriale dell’apparato psichico con le percezioni dei sensi. Secondo il nostro assunto anche la percezione non è un processo puramente passivo, ma periodicamente l’Io invia piccole quantità che occupano il sistema percettivo, grazie alle quali saggia gli stimoli esterni, per poi ritirarsi dopo ogni puntata esplorativa.

Lo studio del giudizio ci dischiude forse per la prima volta un modo di vedere l’origine di una funzione intellettuale nel gioco dei moti pulsionali primari. Giudicare è l’ulteriore sviluppo finalistico dell’originario includere nell’Io o espellere dall’Io secondo il principio di piacere. La sua polarità sembra corrispondere al contrapporsi dei due gruppi pulsionali da noi supposti. L’affermazione, come sostituto dell’unificazione, appartiene all’Eros; la negazione, conseguenza dell’espulsione, alla pulsione di distruzione. Il gusto generale di negare, il negativismo di certi psicotici, va generalmente inteso come indizio dello smescolamento pulsionale per sottrazione delle componenti libidiche. Ma la prestazione della funzione di giudizio è resa possibile solo perché la creazione del simbolo della negazione ha consentito al pensiero un primo grado d’indipendenza dalle conseguenze della rimozione e quindi anche dalla coazione del principio di piacere.

Si accorda assai bene a questa concezione della negazione non riuscire in analisi a trovare alcun “no” di provenienza inconscia, mentre l’Io esprime il riconoscimento dell’inconscio con formula negativa. Non c’è prova più forte di essere riusciti a scoprire l’inconscio di quando l’analizzato reagisce con la frase: “Ciò non l’ho pensato” oppure “A ciò non ho (mai) pensato”.

 

(Traduzione di Antonello Sciacchitano)

 

1

 Lo stesso processo è alla base del noto fenomeno dell’«annuncio». «Che bello non avere la solita emicrania da tanto tempo!». È l’avvisaglia della crisi, che si avverte vicina ma non ci si vuole credere.

2

 Cfr. S. Freud, “Triebe und Triebschicksale” (1915, Pulsioni e destini pulsionali) in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. X, p. 208.

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