Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
di Sarantis Thanopulos

LA FINE DELLA STORIA?

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3 luglio, 2021 - 16:58
di Sarantis Thanopulos
L’università americana di Princeton, ha deciso che una conoscenza media del greco antico e del latino non debba più essere un requisito obbligatorio per accedere ai corsi di laurea nel campo degli studi classici. Per favorire l’inclusione di quelli studenti, soprattutto di colore, che, non avendo avuto la possibilità di studiare queste lingue nei licei, potrebbero essere attratti dalla cultura classica conosciuta attraverso le traduzioni, sentirsi incoraggiati all’apprendimento linguistico e eventualmente intraprenderlo per loro convinta scelta. Nella decisione non c’è alcun riferimento all’obbligatorietà dell’apprendimento durante il corso degli studi.

La decisione è stata connessa retrospettivamente con un episodio accaduto nel Gennaio 2019 nella conferenza della Società degli Studi Classici americana. Durante la conferenza, Dan-el Padilla, un eminente studioso di storia romana a Princeton di origine dominicana, ha accusato il campo dello studio dell’antichità greca e romana di complicità storica con il razzismo bianco, affermando di non essere sicuro che questa disciplina meritasse di sopravvivere. In una sua dichiarazione recente il comitato per l’equità del dipartimento degli Studi Classici di Princeton, di cui Padilla è membro, ha affermato che “ la cultura della Grecia e di Roma sono state usate, e sono state complici, in varie forme di esclusione, includenti la schiavitù, la segregazione, la supremazia bianca, il Destino Manifesto [un termine coniato nel 1845 per affermare la predestinazione divina dei coloni bianchi di diffondere in tutta l’America la democrazia e il capitalismo] e il genocidio culturale”.

Che il culto dell’antichità sia stato usato per giustificare ogni forma di discriminazione, corredo criminale compreso, è un fatto innegabile. Questo uso non riguarda, tuttavia, la specificità della cultura antica, ma l’idealizzazione strumentale di ogni passato. Il passato è sempre vivo nell’esperire la nostra esistenza, se la vita si dispiega secondo il principio eracliteo di discontinuità nella continuità dell’esperienza. La storia è un processo di elaborazione del lutto: la rinuncia necessaria alle forme usurate della relazione con il mondo, che ci espongono all’assuefazione e mostrano i limiti della nostra interpretazione del vivere, e la trasformazione, altrettanto necessaria, di questa relazione, in modo da creare forme nuove in cui il passato rivive, insieme identico e diverso, nella sua potenzialità non esauribile di sviluppo. La nostra vera esperienza di vita è inattuale: non si colloca nel passato né nel presente, neppure in uno spazio temporale virtuale intermedio, ma in entrambi. L’inattuale è la contemporaneità del passato e del presente, la nostra vera contemporaneità con gli altri (Agamben).

La trasformazione che elabora e non distrugge è ciò che chiamiamo “storia”. Dove c’è distruzione, nella storia si apre un buco (come col nazismo). Quando il presente è molto precario, fragile per poter sostenere il lutto e la trasformazione, il passato si idealizza in modo “positivo” (un paradiso, mai esistito, a cui l’attualità deve tendere) o “negativo” (la “causa di tutti i mali” che ahimè non è nel passato, ma nella sospensione del lutto e della storia che ci abita). Padilla, un cattivo storico, insegue una prospettiva pericolosa: “la fine della storia”. E Princeton ha commesso un errore: i classici e la loro lingua non hanno parlato (e non sono stati tradotti) una volta per sempre. Continuano a parlare e a richiedere nuove traduzioni. Più li ascoltiamo, più si espande il campo spazio-temporale dell’esperienza vissuta. Di questa espansione siamo potenzialmente tutti promotori e partecipi, ma essa non è possibile senza i traduttori “linguistici”. Che non traducono una parola con un’altra, ma un modo di respirare, di sentire, di pensare. La cancellazione del passato non crea giustizia, ma desolazione.

 

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