IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Contro il principio di ragion sufficiente

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4 ottobre, 2021 - 08:56
di Antonello Sciacchitano
I nostri ragionamenti si fondano su due grandi principi: a) il principio di contraddizione, in virtù del quale giudichiamo falso ciò che implica contraddizione, e vero ciò che è opposto o contraddittorio al falso. b) il principio di ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo che qualsiasi fatto non potrebbe essere vero o esistente, e qualsiasi enunciato non potrebbe essere veridico, se non ci fosse una ragion sufficiente del perché il fatto o l’enunciato è così e non altrimenti – per quanto le ragioni sufficienti ci risultino per lo più ignote.
G.W. Leibnitz, Monadologia, §§ 31-32

Il principio di causa-effetto, il cosiddetto principio di ragion sufficiente, è il principio della fine della scienza moderna. Paradossalmente fu avanzato in via preventiva prima che la scienza moderna esordisse. Fu formalizzato da Leibnitz sul nascere della scienza moderna, come riportato in esergo, a fondamento del pensiero binario. Mi spiego, perché si tratta di un fenomeno strano, direi quasi antistorico.

Secondo me, ammettere a priori che ogni fenomeno è effetto di una causa, eventualmente ignota, significa inibire il discorso scientifico in senso stretto, cioè galileiano. Dico che il principio di ragion sufficiente chiude, addirittura previene, la moderna scientificità. Prevenzione e chiusura furono imposte da un movimento di pensiero, una vera e propria volontà di ignoranza, da sempre ostile alla scienza, in nome di un principio di realtà, addirittura prima che sorgesse la stessa scienza moderna, quasi la prefigurasse come ostile; oggi si chiama “cognitivismo”. Aristotele ne escogitò la forma iniziale, non ancora categoricamente binaria, ma già sistematica. Durò quasi duemila anni; invano lo combatté Galilei, da quando finalmente proprio Galilei e Cartesio individuarono un fenomeno meccanico assolutamente privo di causa: in assenza di forze acceleratrici, il moto inerziale ha velocità costante in direzione e modulo.

La lotta contro la volontà cognitivista d’ignoranza era solo agli inizi e dura tuttora.
In duemila anni il principio di ragion sufficiente è stato il motore del cognitivismo; si è presentato ufficialmente come garante della “verità” della verità storica, o narrativa, raccontandola come scire per causas, cioè come conoscenza delle cause originarie di un fenomeno. Ha imposto un paradigma di successo: la scienza storica è il vero discorso scientifico, perché conosce le cause del conoscere; le conosce documentando le origini del fenomeno studiato; la sua parola d’ordine è la ricerca delle fonti. La genesi – la genealogia secondo Nietzsche – è l’epistemologia vigente in questo campo. Si crede che conoscere un fenomeno sia conoscere come si è sviluppato. In psicanalisi Freud la chiamava psicogenesi. Questa “scienza storica” è la principale avversaria, diciamo la controparte, della scienza moderna, galileiana, ed è tuttora un modo di raccontare vivace e diffuso, tipico della scienza giornalistica, che mira a estrarre un pezzo di verità dalla cronaca. Però, c’è anche il rovescio della medaglia: come abbiamo visto nell’attuale pandemia: per diffondere la verità basta raccontarla; ognuno può raccontarla e raccontarsela come gli pare, purché sia rigorosamente eziologica, cioè supponga delle cause. L’ultimo avatar del racconto incontrollato della verità è la pubblicazione di “storie” sui vari social, dove non compaiono mai notizie veramente scientifiche, per lo più sono sofismi; in genere sono discorsi non contro le idee ma contro le persone, improntati all’odio: un esercizio di paranoia. Lacan ci ha insegnato che la paranoia è l’asse portante della personalità forte.

Da dove trae la sua forza il principio di ragion sufficiente? È presto detto: dall’ontologia di Parmenide, dove l’essere è e il non essere non è. La logica ontologica si basa sul principio d’identità, cui il principio di ragione offre la garanzia di realtà. Si impone così la falsa equazione cognitivismo = scienza: se c’è la causa, si sa che c’è l’effetto; se non c’è la causa si sa che non c’è l’effetto. I due discorsi, logico e ontologico, si sostengono a vicenda, esorcizzando la scienza moderna, che prevede probabilità non nulle per falsi positivi (c’è l’effetto in assenza di causa) e falsi negativi (non c’è l’effetto in presenza della causa).

La storiella eziologica, fu raccontata per la prima volta in modo chiaro in Antica medicina da Ippocrate con parole inequivocabili, le più antiche che io conosca. Ascoltiamole e non dimentichiamole, perché Platone le apprezzava:

Dobbiamo in verità ritenere che la causa di ogni singola malattia consista in quei fattori che, se presenti, ne determinano l’insorgere necessario e ben preciso; se invece trasmutano in un’altra combinazione, ne consentono la cessazione”.[1]

Semplice, no? Come si vede manca ogni accenno a falsi positivi e falsi negativi, perché all’origine manca la nozione di probabilità, che dovrà cuocere per altri due millenni. Ricordo en passant che esiste una correlazione storicamente accertabile tra genesi della scienza e del calcolo delle probabilità. Si veda il breve scritto Sulla scoperta dei dadi del 1612, dove Galilei dimostra perché, lanciando tre dadi, il dieci è più frequente del nove, benché il numero delle somme di tre addendi tra uno e sei sia uguale per il nove e per il dieci.

Il corollario pratico del principio di ragion sufficiente è il principio di conferma, secondo cui un fatto è assodato se si trova la causa. Lo si applica a occhi chiusi, senza sapere che deriva dal principio di ragion sufficiente, applicato a rovescio: se c’è il dato, allora c’è la conferma della causa, come dire che se è bagnato per terra è perché ha piovuto. Peccato che la maggioranza delle conferme siano casuali. Per convincersene basta un semplice esperimento: si mettano in fila le tredici carte di picche in un ordine qualsiasi e sotto si stenda la fila delle tredici carte di cuori come capita. Le conferme, cioè almeno una coincidenza di valore tra le carte di cuori e le carte di picche nella stessa posizione d’ordine, si verifica nel 63,21 % dei casi. Eppure tutta la recherchedi Proust è la ricerca di conferme, alla ricerca del profumo delle famose madeleine. Freud non fu da meno, cercava l’Edipo, ma a differenza di Proust si spacciava per uomo di scienza.

L’eziologia è tuttora gettonata dal discorso cognitivista, al vertice appunto della medicina, gabellato per scientifico, che “racconta” la verità della realtà clinica attraverso le conferme dei sintomi. Con inevitabili controversie, vedi per esempio gli attuali contrasti tra vax e non-vax, la cui diatriba NON si risolve sul piano dei fatti, perché totalmente ideologica su entrambi i fronti. Comunque, l’eziologia serve anche a tener lontana la maledizione della probabilità, che offre dei fenomeni solo una conoscenza incerta, quindi falsa. Ancora oggi in Italia si giocano i numeri ritardatari al Lotto. La base metafisica del discorso ezio-ontologico è la realtà romanzesca; racconta la verità che il potere ama sentire raccontata. Segnalo una curiosità storica, una coincidenza probabilmente casuale. Il genere letterario del romanzo esplose con Rabelais e Cervantes, – credo, ma è solo una mia congettura che non spaccio per conferma – per salvare la dimensione narrativa della verità e arginare il nuovo discorso scientifico di Galilei e Cartesio, più orientato alla sincronia che alla diacronia. A metà strada si pose il romanzo di fantascienza; paradigmatici furono I viaggi di Gulliver, preceduti come modello di arguzia da Una storia vera di Luciano di Samosata XV secoli prima. I pii devoti della religione delle conferme dovrebbero leggerla.
Ippocrate, dicevo, precede Aristotele, cui offre materia per pensare. La medicina è la madre della filosofia occidentale, di cui garantisce l’assetto ontologico sotto la specie del vitalismo, fondato sulla conoscenza del cadavere. Il pensiero eziologico di Aristotele è arrivato sino a noi, ben codificato, grazie a pensatori del calibro di Leibnitz e Schopenhauer, uno più vitalista dell’altro.

Aristotele espose la teoria delle cause nella Fisica, dove onestamente riconobbe le origini antropomorfe e vitaliste della propria dottrina. Le cause aristoteliche sono quattro. Lo vediamo nel caso, trattato anche da Aristotele, della scultura di una statua. La causa materiale è il marmo, che forma la statua; la causa formale è l’idea della statua concepita dallo scultore; la causa efficiente è lo scultore stesso, che realizza il passaggio dalla statua in potenza alla statua in atto; più problematica è la causa finale, che può essere riconosciuta nell’incarico che il potere affida all’artista. Il vitalismo, oggi la biopolitica, ha un’evidente origine politica: l’arte deve raccontare la verità che vive a servizio del padrone.
La sistemazione di Schopenhauer è più astratta e meno vitalista di quella aristotelica, perciò più convincente. La causa finale regge il divenire (ratio fiendi); la causa materiale è la causa dell’essere (ratio essendi), la materia del discorso onto-eziologico; la causa efficiente è la causa dell’agire (ratio agendi) e la causa formale è la causa del conoscere (ratio cognoscendi). Più concreta la sistemazione di Lacan in La science et la vérité. La causa finale sta dalla parte del discorso religioso-escatologico; la causa materiale dalla parte della psicanalisi sotto forma di significante; la causa efficiente (nell’altro) dalla parte della magia e la causa formale della scienza, come in Schopenhauer.

Sono così esperto di Aristotele e di Schopenhauer, ma me la cavo discretamente anche con Hegel, perché sono di formazione medica e freudiana. Il freudismo è una patologia tosta; è una forma di resistenza alla psicanalisi, da cui sono guarito grazie all’intensa cura matematica, scienza per definizione senza cause. La matematica non è eziologica perché contiene l’infinito. Non si può determinare l’effetto in una catena infinita di cause ed effetti, perché non si può risalire alla causa prima o ultima. L’approfondita conoscenza di Freud mi porta a dire che tutta la metapsicologia pulsionale di Freud è una costruzione vitalistica, governata dall’ezio-patogenesi narrativa di marca ippocratica, dove valgono catene causali finite. La metapsicologia freudiana non è scientifica perché esclude la variabilità. Il termine Variabel non ricorre in Freud, per una precisa ragione inibitoria, ignota a Freud. Variabilità significa diversità; diversità significa inquietante. Un apparato psichico che ospitasse la variabilità sarebbe inquieterebbe sé stesso.

Nel regime freudiano le cause sono le pulsioni, mitologiche forze costanti all’interfaccia tra soma e psiche, che spingono per ottenere la soddisfazione (Befriedigung) del desiderio. (Tra parentesi, non esistono forze costanti in biologia, ma solo variabili). La loro energia è la libido, un fattore quantitativo ma senza unità di misura, quindi del tutto immaginario. Nella sistemazione metapsicologica definitiva le pulsioni freudiane sono di due tipi: le pulsioni sessuali, dalla parte delle cause efficienti, che spingono per ottenere la soddisfazione sessuale, e le pulsioni di morte, che mirano alla quiete finale, il nirvana, confinante con lo stato inorganico, attraverso la ripetizione dell’identico. È una soddisfazione anche quella. Chi si accontenta gode.

Freud dista anni-luce da Galilei; non lo cita mai nelle 7000 pagine della sua opera omnia. Per contro ogni 20 pagine Freud scrive Seelenleben, “vita psichica”, il significante principale del suo vitalismo, l’S1 direbbe Lacan (il significante binario, S2, è l’inconscio, das Unbewusste). Nel terzo saggio dell’Uomo Mosè e la religione monoteista, Freud confessa di essere animato da un gebieterisches Kausalbedürfnis, “un imperativo bisogno di causalità”, ippocratico al 100%. Si sa che il principio di ragion sufficiente è la base di ogni religione: dio ha creato il mondo e stabilito il suo destino. La causa finale, o escatologica, è la base del pensiero religioso, secondo Lacan. Freud fu un pensatore intimamente religioso – ebbe la religione del padre morto – che, come molti del suo genere, si dichiarava ateo. Non voleva sapere di quel che sapeva, proprio come i suoi “analizzati”, non molto meglio analizzati di lui.

Le varianti leibniziane e schopenhauneriane di questo discorso confermano lo statuto ontologico prescientifico del freudismo, declinato in termini vitalisti. Ho aperto questo discorso per giustificare il freudismo, eventualmente per promuovere lo spostamento del freudismo dal piano ideologico a quello scientifico, dall’ontologia all’epistemologia.

Come è possibile, data la precedente analisi?

In teoria è possibile perché le premesse scientifiche – galileiane – in Freud esistono, ma sono sepolte sotto la bardatura cognitivista e vitalista della metapsicologia. L’epistemologia soffre sotto l’ontologia. 
La prima e più ovvia premessa scientifica freudiana è l’invenzione dell’inconscio, da intendere come sapere che non si sa di sapere. È una premessa epistemica, non cognitivista, che convoca lo statuto etico, non ontico, dell’inconscio, come aveva capito Lacan. L’inconscio riguarda l’azione del soggetto, decisa a prescindere da ogni cognizione, che regolarmente sfugge al soggetto. L’atto etico fondamentale della vita del soggetto è la scelta del proprio sesso, a prescindere dall’anatomia, la cosiddetta “sessuazione”, come la chiamava Lacan, tagliando il legame con il Freud di Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi (1925). (Va sfatata la leggenda che Lacan fosse freudiano; basti per tutte la definizione lacaniana di pulsione come esposizione del soggetto al significante della domanda, $ losanga D.)

Le altre due premesse epistemiche freudiane sono la rimozione originaria, intesa come inaccessibilità di certe rappresentazioni alla coscienza cognitiva, per fissazione fuori dall’ambito della coscienza, e la Nachträglichkeit, ossia l’acquisizione secondaria del sapere, che ha bisogno di un certo tempo per consolidarsi; proprio perché il sapere non è dato a priori, per arrivare a sapere ci vuole un tempo epistemico, che non è ontologico, cioè non è cronologico.[2] Accanto a tali assiomi teorici porrei l’assioma pratico della clinica lacaniana, fondata sul soggetto supposto sapere nel transfert, ambiguamente ma fecondamente localizzato nell’analista, nell’analizzante o nel collettivo analitico, supposti interagire.

Tutto semplice? No, difficile. La difficoltà deriva dalla tuttora imperante resistenza alla scienza galileiana, per una peculiarità indigesta al cognitivismo. Gli assiomi citati sono congetture. Come tali non sono né veri né falsi; non c’è alcuna verità nel principio d’inerzia; è solo un sapere che produce, finora senza contraddizioni, altro sapere; attende solo di essere falsificato, quindi esula dal cognitivismo. Ma il senso comune cognitivista, avatar di quello filosofico, non tollera il non vero, perché, secondo il divino Platone, il non vero non può essere pensato, ergo raccontato.[3] Il popolo, non meno del filosofo, pretende la verità, cui identificarsi, magari imposta dal padrone o da qualche suo funzionario. La verità del popolo si chiama populismo. Freud non sfuggì alla pretesa cognitivista popolare, dichiarando il parricidio e la castrazione gli shibboleth del discorso analitico,[4] cioè la sua verità. Ma la verità, non importa quanto falsa, proprio perché è imposta come vera, mortifica il discorso scientifico moderno, che addirittua non nasce, come ho cercato di dimostrare; diventa o resta un vecchio discorso o filosofico o religioso. La psicanalisi scientifica non sarà la religione né del parricidio né della castrazione; non sarà freudista, se vorrà essere freudiana, magari anche un po’ galileiana.
 

 

[1]  Ippocrate, Opere, a c. M. Vegetti, UTET, Torino 1996, p. 153.
[2]  V. il mio Il tempo di sapere. Saggio sull’inconscio freudiano, Mimemis, Milano 2013.
[3]  Cfr. Teeteto 118c.
[4]  S. Freud, “Das Ich und das Es” (L’Io e l’Es, 1923), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XIII, p. 239. Racconta Wikipedia: “La parola originale ebraica significa in linea di massima ‘spiga’, anche se può essere stato il nome di un fiume o di un torrente, a seconda delle fonti. La parola acquistò la funzione di segno di riconoscimento (parola d’ordine). Il Libro dei Giudici, 12,5-6, narra che, vinta la battaglia, i Galaaditi volevano impedire la fuga ai loro nemici sopravvissuti, gli Efraimiti. I quali, al momento di fuggire attraverso il fiume Giordano, dovevano quindi essere fermati e individuati come tali, anche se non sempre era facile riconoscerli. Si decise, dunque, di usare uno stratagemma: chi veniva fermato e negava di essere un Efraimita, doveva dimostrare di saper pronunciare correttamente la parola shibboleth. Dato che, nel loro dialetto, gli Efraimiti non sapevano pronunciare il suono [ʃ] (come l’italiano sciarpa), il test veniva ritenuto efficace: chi sbagliava la pronuncia e diceva sibbolet, era sgamato e ucciso”. Freud uccise in modo analogo i propri allievi che non parlavano la lingua pulsionale dei miti del parricidio e della castrazione.
 
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