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PTSD Stress Post-Traumatico: che fare?
di Raffaele Avico

RICCARDO CASSIANI INGONI: “Metodo T.R.E.®” E TECNICHE BOTTOM-UP PER IL PTSD

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3 febbraio, 2022 - 15:40
di Raffaele Avico


Un evento traumatico pone l’individuo nella situazione di confrontarsi quotidianamente con il suo ricordo; la mente si impegna nel gestire le recrudescenze della sindrome post-traumatica, il rivivere il momento del trauma, l’oscillare dello stato di allerta, che come sappiamo percorre un andamento a cascata, o a dente di sega.

Si parla spesso di cognizione negativa, di pensieri negativi rivolti a sé, a seguito di un trauma. Su questo blog abbiamo intervistato Rossella Valdrè (link) nel tentativo di comprendere se e in che modo esista, a seguito di un evento traumatico, una tendenza a ricercarne il ricordo dentro di sé, come presi da una forza masochistica, o paradossalmente per tentare di risolvere il trauma stesso -ricercandone appunto la presenza.

Abbiamo anche osservato come il ricordo traumatico sembri riempire il vuoto mentale quando la persona sta attraversando un momento di relativa tranquillità. Come accade per una dipendenza, è come se il ricordo traumatico tendesse a riempire ogni momento di libertà sperimentato dall’individuo. Alcuni individui sembrano addirittura insospettirsi a riguardo del loro sentirsi liberi, cosa che alimenta il ritorno del pensiero, in un meccanismo mentale ossessivo, con un bisogno estremo di controllo -che in realtà produce il perdere il controllo stesso.

Un aspetto relativamente poco esplorato, è l’evento traumatico come “elemento” agonistico, in grado di produrre in chi lo subisca un sentimento di resa. Il ricordo del trauma diviene talmente pervasivo e potente da generare negli individui un senso di sconfitta, di arrendevolezza, cosa che ricade immediatamente sul corpo.

La psicoterapia sensomotoria lavora per riportare nella mente del soggetto un senso di empowerment, a partire dal corpo.

Pensiamo solamente al lavoro che viene fatto sulla postura, sulla posizione della testa, sul lavoro di rinforzo del “core” del corpo dell’individuo, cosicché questo possa recuperare, psicologicamente, un senso di potere. Sembra in altre parole che una parte del lavoro di terapia, sia restituire potere all’individuo nei confronti del “nemico” interiore -verso cui questo percepisce una sensazione di resa impotente.

Lo stesso potremmo osservarlo negli approcci al PTSD tramite lo sport. Abbiamo qui approfondito le varie ipotesi sull’approccio al PTSD tramite l’attività fisica; i punti centrali sono due:

  • lo sport, rinforzando il corpo, procura una sensazione di auto-contenimento e maggiore potere percepito a livello anche psicologico; questo aiuta il soggetto a contrastare il senso di impotenza appresa nella traumatizzazione
  • lo sport espone il soggetto a variazioni nel tono di attivazione dell’arousal, a tachicardia indotta dall’allenamento; questo rappresenta un elemento di terapia espositiva in soggetti che temono il loro stesso attivarsi: parlando in prima persona, nel momento in cui l’attività fisica sarà cessata e mi troverò in uno stato di allarme indotto dal presentarsi del ricordo traumatico, sarà per me più semplice gestire il momento dell’allarme a livello corporeo, dato che padroneggio meglio le mie stesse alterazioni. É una forma di terapia espositiva (d’altronde in questi casi si parla di fobia degli stati interni)

Spesso si ha la sensazione in questi casi che il paziente fuoriesca dalla spirale del PTSD quando acquisisca sufficiente forza mentale da gestire il confronto con il ricordo traumatico, quando senta di aver raggiunto una posizione di dominanza su questo, rendendolo non più invalidante. Pensare che il ricordo scompaia o non esista più, non è realistico; ci troviamo invece spesso a che fare con persone che a un certo punto riferiscono di sentirsi sufficientemente corazzati per affrontare il ricordo traumatico, con meno conseguenze.

In altre parole, è come se nello scontro con un’entità nei confronti della quale ci sente in una posizione sottomessa, si acquisiscono nuove risorse, e una posizione “gerarchicamente”, progressivamente superiore.

A proposito delle modalità di fronteggiamento della sindrome post-traumatica per via “bottom-up”, ovvero a partire dal corpo per andare verso i pensieri, diversi studiosi nell’ambito (tra cui Peter Levine e Pat Ogden) osservano come il trauma rimanga per così dire “memorizzato” in senso somatico all’interno del corpo, e sostengono come sia proprio attraverso questo che dovrebbe essere “dissipato”.

Usare lo sport o la psicoterapia sensomotoria, rappresentano in realtà uno stesso strumento che viene modulato in modo differente; l’idea di fondo è che esistano delle tensioni/energie/movimenti rimasti “inespressi” nel corso della traumatizzazione, che debbano essere svincolati e liberati attraverso il corpo stesso.

In un certo senso, la sindrome “post-traumatica” rappresenta una forma di apprendimento che necessita di essere disappreso; le conseguenze di questo senso di minaccia e impotenza “appresi”, li notiamo nei macro-ambiti della mente (con tutti i vari sintomi più tipici del PTSD, come la riesperienza dell’evento traumatico, le cognizioni negative e il senso di “mortificazione”, l’arousal aumentato e il senso minato di sicurezza) e del corpo (con cambio della postura, alterazioni dell’arousal con diversi effetti sul corpo, senso di accelerazione e stato protratto di allerta, tachicardie indotte dall’accesso al ricordo traumatico, reazioni “fobiche” e contratture del corpo da iperattivazione dei sistemi di difesa, disturbi gastrici da attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico, etc.).

La direzione del lavoro sul trauma andrà dunque intesa come un lavoro integrato che metta insieme il lavoro di psicoterapia partendo dai contenuti di pensiero per andare sul corpo (top-down), e il lavoro sul corpo che possa impattare sullo stato mentale (bottom-up).

Peter Levine osserva come negli animali esistano dei meccanismi innati che inducono un senso di “release” del vissuto post-traumatico, per via di un tremore “neurogeno”: ne abbiamo scritto qui.

Sulla scia di osservazioni di questo tipo esiste una metodologia bottom-up di approccio a particolari condizioni psichiche (compreso il PTSD), chiamato metodo TRE, fondato sull’induzione volontaria di tremore corporeo con una funzioni di scarico corporeo.

Ne parla diffusamente David Berceli in questo libro tradotto da Riccardo Cassiani Ingoni, di cui pubblichiamo di seguito un’intervista.

In questa intervista, Riccardo Cassiani Ingoni spiega il razionale del metodo TRE, allargandosi anche su aspetti laterali della questione, coerenti con linee di ricerca psicotraumatologica molto attuali; nel corso dello sviluppo, per come avviene la maturazione in senso “neuro” del bambino, in caso di trauma è maggiormente probabile che quest’ultimo utilizzi difese “dissociative” che non invece una risposta di attacco/fuga, non possedendone i mezzi. In età adulta, di fronte a uno stimolo minaccioso, sappiamo che la prima risposta a essere messa in atto è una iperattivazione, quindi una risposta di fuga e, dove questa non sia possibile, di attacco. Solo nei casi dove questa non sia possibile, si arriva a una risposta di “collasso” concomitante a una dissociazione mentale. Nei casi dunque più complessi di trauma, maturati in ambito famigliare, è necessario tenere presente come un bambino che si adatti a un contesto vissuto come traumatico opterà più frequentemente per reazioni dissociative che non per reazioni di attacco/fuga -elemento questo da tenere in considerazione quando quello stesso bambino passi a un’età più adulta, magari avendo mantenuto lo stesso “stile“ di risposta.

A proposito del metodo TRE, che prevede l’induzione di tremori fisici al fine di arrivare a uno stato di “release” di tensioni accumulate nel corpo a seguito di (anche) eventi traumatizzanti, abbiamo posto alcune domande a Riccardo.

Ecco l’intervista.

Buongiorno Riccardo, ci vuoi raccontare chi sei, qual è stato il tuo percorso di formazione e di cosa ti occupi?

Ho conseguito la laurea in Scienze Biologiche a Pisa e poi un dottorato di ricerca in neurofisiologia negli USA, dove per sei anni ho lavorato come ricercatore presso il National Institutes of Health (NINDS-NIH), uno dei principali centri statunitense di ricerca biomedica. Mi occupavo prevalentemente di progetti clinici e di ricerca nell’ambito delle malattie neurodegenerative e delle lesioni cerebrali traumatiche.

Durante il mio soggiorno statunitense, oltre al mio impegno nella ricerca di base nel campo della neuroimmunologia, ho potuto frequentare numerosi corsi di formazione nel campo delle tecniche di gestione dello stress post-traumatico con varie metodiche di medicina integrata, di riflessoterapia, di massaggio, e di bio-neurofeedback.

Successivamente sono stato impegnato nel progetto NeuroLab del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) e per cinque anni ho anche condotto a Roma una pratica privata incentrata sull’utilizzo del bio-neurofeedback e del tremore neurogeno nella preparazione atletica.

Negli USA, durante uno dei corsi da me frequentati, ho incontrato David Berceli e ho avuto modo di conoscere il suo metodo. Dal 2007, al suo fianco, il mio impegno è stato dedicato alla ideazione e alla realizzazione del programma didattico sul metodo TRE, di cui conduco laboratori pratici e corsi di formazione in numerosi paesi del mondo, generalmente nell’ambito dei percorsi formativi offerti da varie scuole di formazione, associazioni professionali ed enti per la promozione della salute e del benessere.

Mi appassiona formare i professionisti del settore, insegnando come integrare l’approccio del tremore neurogeno con le loro altre competenze specifiche. Trovo il TRE un approccio naturale alla salute, un metodo efficace, versatile e appassionante, capace di essere applicato in qualsiasi contesto e in tutti gli ambiti rivolti al benessere della persona. Ciò si sposa perfettamente con le mie altre competenze in ambito neurofisiologico e nelle terapie naturali.

Riccardo, ci vuoi raccontare brevemente il razionale che muove il metodo TRE? Molteplici studi relativi al trauma indagano la ricaduta sul corpo del trauma stesso; mi vengono in mente per esempio gli studi di Pat Ogden relativi alla psicoterapia sensomotoria, alle tendenze all’azione rimaste inespresse all’interno del corpo a seguito di un trauma. Il metodo TRE vuole indurre un tremore neurogeno, per aiutare il paziente a scaricare queste tendenze e queste tensioni intrappolate nel corpo. Ci dici qualcosa a riguardo?

Il metodo si sviluppa attraverso una serie di esercizi fisici che hanno il fine di attivare una risposta fisiologica di vibrazione muscolare. Una volta indotta, questa vibrazione tende a procedere in maniera autonoma e ad irradiarsi ai diversi distretti corporei: solitamente il tremore di prima istanza tende a manifestarsi nella zona iliaca e nelle gambe, ma successivamente l’attività muscolare involontaria si propaga anche nei distretti superiori (torace, spalle, collo, mandibola, muscoli facciali), zone nelle quali possono ristagnare le emozioni non espresse. Attraverso la vibrazione involontaria si sollecitano pertanto quelle aree di “blocco” che sono frequentemente soggette ad un controllo nervoso inconsapevole e che pertanto operano cronicamente in uno stato di iper- o ipotonicità.

Ogni individuo possiede un proprio schema corporeo e l’innesco della vibrazione muscolare può innanzitutto aiutare la persona a svilupparne consapevolezza. Frequentemente infatti accade che alcune parti del corpo inizieranno a vibrare con facilità mentre in altre la vibrazione sarà molto più lieve o anche del tutto assente; altre volte ancora la vibrazione magari sarà presente in maniera uniforme ma il soggetto invece si accorgerà di percepirla diversamente, o addirittura di non riuscire a percepirla affatto, in alcune parti rispetto alle altre. Magari sarà quella la prima volta che la persona si accorge di esercitare un controllo inconsapevole su alcune parti di se, e già questa diversa percezione dei vari distretti corporei sarà di aiuto affinchè il soggetto possa sviluppare un contatto più intimo con il corpo. Proseguendo potrà imparare a rilassare o ad attivare maggiormente determinati muscoli, e questo lo aiuterà via via a sviluppare una percezione più armonica di se.

Questo metodo è stato sviluppato anche in seguito all’osservazione che tutti i mammiferi, incluso l’uomo, dopo un trauma innescano meccanismi biologici di auto-riabilitazione basati sull’emergere di una reazione di vibrazione muscolare (es. il cavallo da corsa dopo una caduta; la gazzella dopo un inseguimento). Si ritiene che questa sia una reazione importante di scarica dell’eccitazione neurofisiologica e che, se o quando, ciò non accade completamente allora il soggetto diventa maggiormente suscettibile a sviluppare tensioni da accumulo e manifestare sindromi post traumatiche da stress. In casi simili si osserva che la pratica del TRE può permettere la completa scarica dell’eccitazione fin lì trattenuta nel corpo. Si cerca pertanto di mettere in atto – di “sbloccare” – una risposta naturale, fisiologica del corpo che può avvenire solo al di là del controllo cosciente dell’individuo. Al movimento autonomo di tali muscoli ne consegue un loro parziale rilassamento che è spesso accompagnato anche dal riemergere in maniera gestibile di immagini o di memorie legate alle esperienze emotivamente significative. La conseguente riduzione del livello di arousal porta a uno stato vigile e tranquillo percepito globalmente come un’esperienza piacevole, motivante e rinforzante.

Riccardo ci vuoi dare qualche informazione in più in termini neuroscientifici, relativamente a questo metodo?

Il trauma o lo stress ripetuto frammenta la mappa originale interna del nostro corpo, per cui il nostro cervello si riorganizzerà in una maniera non ottimale, anche disconoscendo alcune parti di se fino a creare l’esperienza di vivere in modo disgregato e disorganizzato il nostro corpo e le nostre emozioni. Quando si attiva la vibrazione miofasciale si produce un nuovo stimolo al cervello che permette una corretta riorganizzazione delle vie nervose.

Sono almeno tre i meccanismi neurologici che contribuiscono a tale processo:
L’attività propriocettiva dei fusi muscolari durante la vibrazione muscolare genera un importante flusso di informazioni dai recettori muscolari e tendinei, attraverso i nervi periferici, alla corteccia cerebrale nella zona associativa e somatosensitiva. La stimolazione delle terminazioni libere ampiamente rappresentate negli strati interconnettivali della fascia stimola ulteriormente e più a lungo le vie sensoriali ascendenti. Soprattutto quando lo scuotimento corporeo interessa la zona addominale e toracica si amplifica la stimolazione delle vie proprie della interocezione (si intende con questo termine la percezione delle informazioni “interne”, quali il respiro, la peristalsi gastrointestinale, il senso di fame e sazietà, ma anche la cognizione del dolore e delle altre emozioni). Infine, si presuppone che anche l’attivazione degli archi riflessi tra vie sensoriali e motorie dei muscoli striati, che si interfacciano nel midollo spinale, crei un ulteriore stimolo midollare che viene convogliato prontamente al tronco dell’encefalo e da li al resto del cervello.

Per mezzo di registrazioni elettroencefalografiche ho potuto misurare le modificazioni dei ritmi cerebrali stimolate dalla fase attiva della vibrazione muscolare involontaria; dimostrando anche che tali modificazioni perduravano nel tempo post-vibrazione. Il cambiamento di alcuni ritmi corticali (nello specifico incrementi significativi del ritmo alpha, gamma, e del ritmo sensorimotorio nelle cortecce centrali e parietali) mi hanno permesso di validare come la pratica del metodo abbia un forte effetto di stimolazione a livello corticale in un senso che è contrario rispetto a quelle modificazione che solitamente si osservano nelle persone diagnosticate con il PTSD. Questa potrebbe essere una delle principali ragioni del successo del metodo. La vibrazione miofasciale indotta dagli esercizi rappresenta quindi un importante intervento di stimolazione endogena di gran parte del sistema nervoso centrale e specialmente di quelle aree la cui corretta funzionalità permette alla persona di percepire con maggior efficacia e accuratezza il proprio corpo. In questo modo si viene ad instaurare un maggiore senso di connessione tra mente e corpo, migliorando la stabilità emotiva del soggetto.

Riccardo, quali sono i punti di forza e limiti di questo approccio metodologico?

È un metodo particolarmente utile quando la persona desidera partecipare attivamente al processo di cura personale e sviluppare le proprie risorse interiori. Può essere proposto e utilizzato in modi diversi a seconda delle finalità e della fase del processo terapeutico. Una possibilità è quella di proporlo come esercizio di rilassamento per aiutare a risolvere o migliorare un determinato sintomo come l’insonnia o il dolore articolare. Il metodo può essere utilizzato, come gli esercizi di base della bioenergetica, anche per aumentare il radicamento a terra e per prendere coscienza e sciogliere la corazza muscolare. 

La sessione di tremore potrebbe poi offrire l’opportunità sia al paziente che al terapeuta di comprendere come la persona senta e si relazioni al proprio corpo e dunque, su un piano simbolico, come stia al mondo, con quali bisogni e modalità. Sentire il piacere o al contrario il timore di un movimento spontaneo nel corpo, osservare come, sotto forma di vibrazione, ci siano delle parti di esso nelle quali l’energia fluisce liberamente e altre in cui si blocca, imparare a gestire le pause nel corso della sessione o la sua durata complessiva, raccogliere i vissuti legati al passaggio dalle esperienze di tremore condotte dal terapeuta a quelle svolte in autonomia a casa, sono alcune delle esperienze che aprono territori di ulteriore approfondimento. 

Altri punti di forza ritengo siano il fatto che non sia strettamente necessario un contatto fisico con il paziente, fattore importante nel caso si dovesse lavorare su traumi legati alla sfera sessuale. Inoltre il metodo può essere agilmente implementato in un contesto di gruppo rendendolo quindi uno strumento versatile anche di primo intervento sul campo, specialmente quando il trauma colpisce un ampio numero di persone, come ad esempio nel caso di un terremoto.

È frequente però che ad un osservatore esperto le prime esperienze di tremore indotte con il TRE appaiano meccaniche, “muscolari”: la persona è alle prese con una nuova espressione motoria, un pó riesce a lasciarsi andare e un pó sente la necessita di mantenersi saldamente in controllo. Il soggetto è come se fosse “combattuto”: appare così concentrato e desideroso di “eseguire il giusto modo di tremare” che invece di lasciarsi andare trattiene involontariamente tutto il corpo in una postura rigida, che faticosamente vibra per effetto di quello sforzo. Perdere il controllo, anche se solo per un breve istante, equivale a farci sentire privati di un supporto e di conseguenza a disagio. Pertanto, nonostante il TRE sia nato come metodo autosomministrato, specialmente nella fase iniziale di pratica è invece importante avere uno sguardo competente che sappia guidare e accompagnare anche al fine di evitare la sovrastimolazione del sistema nervoso, quindi contenendo il livello di stimolazione entro limiti appropriati.
Sensazioni ed emozioni eccessive non sono sempre utili al fine di rimodulare efficacemente le nostre risposte automatiche; solo riconducendo costantemente la persona ad una esperienza più focalizzata e profonda, assistendola nell’attivare un movimento spontaneo autentico, focalizzandone l’interocezione e calibrando i tempi con opportune pause di integrazione, si farà sì che la persona si senta accompagnata e al sicuro nell’esperienza di lasciarsi andare al tremore. Solo allora il suo sistema nervoso potrà veramente integrare le energie in eccesso e ripristinare in maniera duratura una condizione di rilassamento fisico e mentale.

Riccardo, quali sono i migliori autori e le fonti principali attraverso cui approfondire questa metodologia?

La vibrazione muscolare come meccanismo di reset psico-fisico è trattata esaustivamente nei testi di psicoterapia bioenergetica di Wilhelm Reich e di Alexander Lowen. Ci sono molti aspetti in comune con quanto applicato nel TRE e alcune delle differenze si identificano forse nella maggiore attenzione che nel TRE si pone sulla componente neurofisiologica rispetto a quella psicologica. Questa maggiore attenzione alla componente fisiologica è coerente con le metodiche sviluppate da Peter Levine, Pat Odgen, Bessel Van der Kolk. I libri di David Berceli (che si trovano online principalmente in lingua inglese) sono un buono strumento per iniziare a comprendere sia le basi applicative del metodo e sia la complessità della sua applicazione. Ulteriori informazioni si possono anche trovare sul nostro sito dedicato www.metodotreitalia.com

Qui una presentazione di Riccardo Cassiani Ingoni

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