IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
Uno su e
Approssimare, una forma topologica di sapere
Sono due numeri reali, uno antico, l’altro moderno: pi greco caratterizza la matematica antica, e (e da Eulero) la moderna. La differenza è piccola: sta nel riferimento all’infinito, più esplicito in e. Nel caso, il numero e non è un rapporto come tra circonferenza e il suo diametro, né è la radice di un polinomio; come pi greco anche e non è un numero algebrico ma trascendente; si definisce come limite di una successione infinita o di una somma infinita di numeri razionali. Entrambi i numeri si approssimano con procedure familiari all’analisi matematica moderna, ma poco praticate dagli antichi, per i quali la matematica era – e tale è rimasta nell’opinione comune: “due più due fa quattro” – scienza esatta, non approssimata. L’approssimazione non è approssimativa, però; testimonia l’ingresso dell’infinito nella cultura. Il tipico algoritmo di approssimazione si chiama epsilon-delta: per ogni intervallo epsilon piccolo a piacere, intorno alla “vera” misura, esistono valori nell’intervallo delta che portano a valori nell’intervallo epsilon, prossimi alla vera misura. La migliore approssimazione antica di pi greco sulla terza cifra decimale è compresa tra 223/71 e 22/7, più che sufficiente per la tecnologia dell’epoca; è dovuta ad Archimede, vero precursore della topologia moderna, che la calcolò con la serie di poligoni da 4 fino a 96 lati. Tanto per dire che approssimare non vuol dire ignoranza. Fine della premessa.
Il numero e
Il modo più semplice per approssimare e è il limite della somma infinita degli inversi dei fattoriali: 1/0! + 1/1! + 1/2! + 1/3! + 1/4! + …,[1] dove per fattoriale n! di un numero intero nsi intende il prodotto degli n numeri consecutivi minori o uguali a n; per esempio 4! = 1.2.3.4 = 24. Per convenzione si pone 0! =1, calcolando i prodotti successivi a partire da 1, come le somme successive si calcolano a partire da 0. Ai nostri fini basta approssimare e alla terza cifra decimale: e = 2,718, troncando la serie al sesto termine, che porge e per difetto a meno di 1 millesimo.
Non affronto la questione delle innumerevoli applicazioni di e, da solo (è la base dei logaritmi naturali) o insieme a pi greco, ad es. nella curva gaussiana degli errori sperimentali (ancora approssimazione!). Mi limito a segnalare l’applicazione di e che indebolisce il principio della scienza antica, l’eziologia delle cause che producono effetti.[2]
Di fondo la scienza antica è storiografia: conosce il reale attraverso le cause; così attinge la verità narrativa. Verum et factum convertuntur, raccontava il giurista Vico. Oggi, nei fatti, la scienza moderna non dà per certa l’associazione causa-effetto, secondo il principio leibniziano di ragion sufficiente, perché sa che esistono effetti senza causa. L’esempio lampante è il moto inerziale a velocità costante, in assenza di forze acceleranti, posto da Galilei alla base della sua dinamica. L’esempio più tragico è la guerra, spesso scatenata per i motivi più futili, che invano gli storici cercano di localizzare, come stiamo vedendo in questi giorni. È banale, ma il numero e, in versione 1/e, smonta la pretesa eziologica. Da quanto segue dovrebbe essere facile comprenderlo.
Per gioco
Qui presento alcuni modelli, in pratica dei giochi, dove il numero e interviene nell’associare due serie di eventi, visti in astratto come modelli della relazione causa-effetto; una è la serie delle cause, l’altra degli effetti. In apertura segnalo che i giochi avvengono in contesto casuale, senza fattori di polarizzazione. Si presuppone cioè l’ignoranza. Il numero e organizza delle probabilità, una nozione che gli antichi non conobbero, come lo stesso numero e.
Gioco delle rencontres. In una festa da ballo, cui partecipano coppie di coniugi, si appaiano uomini e donne in modo che nessuna moglie balli con il proprio marito. In quanti modi è possibile?
Gioco bicolore. Si allineano le 13 carte di picche e in corrispondenza le 13 carte di cuori. Si chiede la probabilità che i valori delle carte di picche e di cuori nella stessa posizione siano sempre diversi.
Gioco delle urne. Due urne contengono n palline numerate da 1 a n. Fino a esaurimento si estraggono coppie di palline, una pallina dalla prima urna, l’altra dalla seconda. Si chiede la probabilità di estrarre solo coppie di palline diverse.
Gioco delle torri. Su una scacchiera nxn si dispongono n torri in modo che ogni torre occupi una riga e una colonna diversa dalle altre, così nessuna torre attacchi le altre. Si chiede quante siano le configurazioni possibili senza torri sulla diagonale principale (da sinistra in alto a destra in basso a sinistra), da dove minacciano posizioni omonime.[3]
In senso psicanalitico sono tutti giochi equivalenti, basati su un’interdizione comune. Infatti è interdetto ogni riferimento omonimo alla permutazione di partenza di n numeri: 1,2,3,4,5, …, n, cioè l’1 non si può associare all’1, il 2 al 2 ecc. (tanto per dire una relazione ben determinata). Tralascio la non difficile dimostrazione e affermo che tuttiquesti giochi hanno una soluzione comune, basata su 1/e: il numero delle permutazioni senza auto-riferimenti è infatti
Il minimo numero intero maggiore di n!.1/e se n è pari,
il maggiore numero intero minore di n!.1/e se n è dispari.
Ad esempio, su una scacchiera 8x8 il numero di disposizioni di torri che non si attaccano e non stanno sulla diagonale principale è il minimo intero > 8!.1/e = minimo intero > 40320/2,718 = 14833, cioè poco più di 1/3 di tutte le 8! disposizioni possibili, 40320.
Casuale o causale?
Qual è il succo di questo discorso? Interpretando sulla scacchiera le righe come luogo delle cause e le colonne come luogo degli effetti, si ha che la causa i-esima produce l’effetto i-esimo se esiste una torre nella casella (i,i) sulla diagonale principale. Ciò vuol dire che l’insieme delle disposizioni di torri contenenti almeno una coincidenza riga-colonna, cioè una relazione causa effetto, è l’insieme complementare del precedente, formato da 40320 – 14833 = 25487 elementi, cioè poco meno dei 2/3 del totale. In altri termini, in ambito probabilistico, cioè senza sapere nulla,[4] l’apparente relazione causa/effetto è una coincidenza molto frequente, quasi nel 66% dei casi, anche se solo casuale; in media c’è da aspettarsi una coincidenza: n.1/n = 1. Un esempio recente? la nazionale italiana di calcio che vince il campionato europeo e si fa eliminare dai mondiali, sono due risultati della stessa variabile aleatoria. Si spiega così la diffusione del principio di ragion sufficiente nella filosofia fenomenologica di ieri e di oggi, favorita anche dall’ignoranza delle condizioni di variabilità dei fenomeni naturali. (In Freud il termine Variabel non ricorre). Ce n’è abbastanza per dimenticare l’eziologia, con tutto il suo contesto vitalista. Inventando l’eterna ripetizione dell’identico, Nietzsche la dimenticò.[5] È la legge 1/e.
Tra finito e infinito
Concludo con una considerazione da meditare. I giochi citati sono finiti, nel senso che prevedono solo un numero n finito di attori, ma la probabilità dell’autoriferimento è determinata da un numero trascendente, e, con un numero infinito di cifre decimali non periodico, che non è radice di nessuna equazione algebrica di grado finito. Tanto per dire la prossimità dell’infinito al finito nella vita quotidiana, che la supposta relazione causa-effetto pretende ignorare.
E pour cause. Aristotele lo sapeva bene; perciò relegò l’infinito allo stato potenziale. Se l’infinito esistesse nella realtà attuale, non si potrebbe risalire alla causa prima, che resterebbe sempre un passo oltre, rendendo impossibile la conoscenza eziologica. Insomma, l’infinito è meta-realistico, soprattutto non è cognitivo. A ragione Freud parlava di metapsicologia, che non tratta relazioni di probabilità.
Da ultimo una considerazione meta-edipica. Il numero e è vicino al numero intero 3 del triangolo edipico, ma non è 3. Il reale, diceva Lacan, non cessa di non scriversi. Come il rapporto sessuale nel gioco delle rencontres.
Poscritto
L’elucubrazione esposta suggerisce un criterio pratico “oggettivo”, di facile verifica, per stabilire la fine – il fine – di un’analisi. Un’analisi che si possa dire scientifica, non solo un compromesso psicoterapeutico, finisce quando l’analizzante giunge a sospendere il criterio di ragion sufficiente delle cause prestabilite, le edipiche comprese, ritenute certe prima dell’analisi. Insomma, un’analisi riuscita è contro-aristotelica, per non dire galileiana, esattamente come la scienza moderna. In base a tale criterio, l’analisi di Freud condotta con Fliess, lo sturanasi di Berlino, non terminò. Rimase una pratica epistemica antica. Lasciò intatto, addirittura rinforzò, “l’imperioso bisogno di causalità” di Freud,[6] che non sapeva di 1/e. Sapeva di non saperlo scrivendo Analisi finita e infinita (1937), volgarmente nota come Analisi terminabile e interminabile. Freud non conosceva la probabilità. Usò Wahrscheinlichkeit solo in senso di “verosimiglianza”, cioè l’adeguamento cognitivo a certi schemi eziologici, in gran parte arbitrari, ricalcati su schematismi medicali: se c’è l’agente morboso, c’è il morbo; se non c’è, c’è guarigione. Non conosceva il probabile come ciò che può accadere, ad esempio, il termine della cura, dimostrando di non conoscerne la causa.
Con un pizzico di polemica direi che un percorso psicanalitico termina se e quando esce dall’orticello delle scienze umane, in particolare dalla medicina, che fu la malattia infantile di Freud. O non siamo cresciuti abbastanza a 83 anni dalla scomparsa di Freud?