VI Giornate psichiatriche ascolane. "La pulsione, il controllo: se i freni si allentano". Intervista a Bruno Callieri
Rossi - Lo scrittore Alberto Arbasino diceva che è fondamentale per un giovane entrare in rapporto sia con i propri contemporanei, sia gli "anziani"; l'autore faceva qui riferimento al prorpio incontro con Borges e all'influenza da lui avuta. Come si pone lei nei confronti di giovani, come me, agli inizi del loro percorso nella psichiatria?
Callieri .- Per me è molto interessante, mi incuriosisce questo incontro tra un'ottantaduenne e una ventottenne: quasi 35 anni...mi piacerebbe piuttosto io intervistare te!
Intanto se osservo il percorso che mi ha portato alla psichiatria, quasi per sbaglio, e osservo il tuo percorso, credo sia giusto che quanto tu che io ci domandiamo, io con il verbo al passato, tu al futuro: nella nostra professione "sono stato capace e sarai capace di smettere ogni tanto l'habitus medicus oppure anche nell'incontro interpersonale non ho saputo prescindere da esso?". Bè, ci troviamo, io con un peso che i tedeschi definiscono un "conio", che poi sono gli anni;se tu pensi alla tua "dote" di conoscenza, tu capisci che la nostra è quasi una scelta destinale
Già da tanto tempo io ho sentito l'importanza progressiva in me del peso teoretico come diceva Szondi, psichiatra ungherese, che parla di neurosi di destino, del concetto per cui ognuno si costruisce e non è solamente il "faber suus", ma si costruisce anche negli incontri. Ci sono incontri determinanti.
-Parliamo allora di questi incontri determinanti
C.-Debbo dire allora che non a caso in questi ultimi venti anni il mio modo di impostarlo, come psichiatra e psicopatologo si è plasmato sul concetto di incontro. Se vado a ben vedere la mia vita di medico è stata sempre costellata di incontri significativi. Che sia stata una semplice fortunata coincidenza ripetuta più volte, o che invece sia stato un consapevole andare a cercare, questo io non te lo so dire. Comunque fin da giovane psichiatra, poco più grande di te ora, ho cominciato a cercare. Facevo la psichiatria secondo il praecox gefüll, come si faceva la psichiatria in Italia e soprattutto come si faceva la psichiatria dai nostri vicini francesi, o come si faceva in Germania, soprattutto ad Heidelberg, ma anche a Colonia e a Tubingen. Questi incontri sono stati, diciamo, voluti, appetiti, anche se naturalmente alla mercè del caso. Da un lato andare a carcare la persona, i grandi maestri, è necessario. Mi pare che ieri sera parlavamo..
-di Borges e della ricerca di questa figura del maestro:molto importante, ma se vogliamo anche molto difficile.
C. -Ecco proprio il concetto di paidéia, di educazione, di bildung, non solo apprendimento ma di formazione. Per esempio per me è stato fondamentale l’incontro con la psicopatologia di Jaspers, quella Psicopatologia Generale che poi nel ’64 è stata tradotta dal mio amico Priori, e a fianco c’ero anche io. Poi in seguito, su questa impostazione, una volta entrato Jaspers nelle aule della clinica "Neuro" romana — fino ad allora era stata di impostazione rigorosamente organicista — è chiaro che venne spontaneo andare a ricercare la figura di questa persona, vedere se ne "incarnava" la teoria; ancora ricordo quando, ormai negli ultimi anni della sua vita io mi trovai a Basilea, mi pare nel ’57, e andai alla ricerca del Prof. Jaspers e mi presentai, bussai, mentre invece a Roma il baronismo imponeva di fare la fila, io invece mi presentai all’assistente "Sono il dott. Callieri, mi sono interessato alla sua Psicopatologia e desiderei parlare con il Prof. Jaspers". L’ assistente, un po’ arcigna, sollecitata forse dal mio povero tedesco, disse aspetti. Tornò,dicendo che il professore era disposto ad incontrarmi, ma, aggiunse lei, mi raccomando solo cinque minuti! E sai, cinque minuti germanici sono cinque minuti! Così mi presentai...e tutto quello che può essere il ricordo, oggi userei molto volentieri la parola mnemotivo, perché in fondo anche i nostri ricordi sono sempre legati alle emozioni. Io oggi sono diventato un fautore della narratologia, lo psichiatra non può non essere sensibile alla dimensione narrativa.
Tornando all’incontro con il professor Jaspers...mi chiese "che si dice di me a Roma?" Rimasi perplesso, non ricordo nemmeno cosa blaterai come risposta…Dopo i minuti andavano avanti velocissimo, lo salutai, fu un incontro così, fugace. Invece, adesso che sto parlando di questo, mi viene in mente l’incontro con Carl Kleist, grosso professore della psichiatria organicista. Ero andato a Frankfürt per Zutt, che era l’opposto, rappresentava la psicologia dell’æstetische erlebnis bereichnung , cioè il piano estetico dell’erlebnis. Poi andai a trovare Kleist, il quale mi domandò perché stavo lì. Ricordo una casa bellissima, con una libreria stupenda, di letteratura tedesca. Io gli dissi che ero venuto dal Professore Zutt: allora si inalberò, tutte chiacchere Io mi sentii invece sempre progressivamente attratto dall’impostazione antropologica; quindi continuai, incontrai anche un altro grande maestro il Prof. Minkowski.
-Come avvenne questo altro mirabile incontro?
C.-Debbo questa nobile coincidenza al mio direttore, il quale, durante un congresso, disse "Callieri, vai ad accompagnare il Professor Minkowski"; mi ricordo abitava a Fontana di Trevi. Arrivato sotto casa lui parlava...passò un’ora, lui mi raccontava, come adesso io sto raccontando a te. Per me fu quasi una sorpresa, perché io non l’avevo studiato. Minkowski ebbi l’occasione di conoscerlo prima di persona e poi di studiarlo. Queste particolari caratteristiche dell’incontro, ti fanno sempre riflettere.
Intanto si era venuto affermando in me la passione per tutto quello che è la filosofia dell’incontro. Vedevo che per il rapporto con il paziente la dimensione dell’incontro era quasi obbligatoria, ineludibile. Si poteva eludere solo rifugiandosi nella oggettivazione del dato scientifico, che oggi chiamerei pseudo-scientifico. Oggettivare, però, non significa mai cogliere l’alter ego; questo naturalmente ha poi definitivamente segnato il mio declinarmi in una professionalità fatta di empatia. Tu, cara amica, devi vivere questo anche tu, perché il rapporto con il paziente, anche la più desolata della persone, il più assurdo schizoide, il più instabile borderline, il piùsfrangiato iniziale demente, pre-alzheimer, che se ne accorge, se tu eviti, fuggi dall’incontro, fallisci come clinico.
Cosa vorresti sapere, ora?
-Beh, abbiamo discusso dei suoi incontri…ora mi piacerebbe sapere dove devo dirigere io il mio percorso di incontri.
C.-Se dovessi dire a te qualche cosa, un consiglio da un vecchio psichiatra ad un giovane psichiatra bè, qui nel panorama nostro italiano, mi verrebbero subito due nomi: uno è l’amico Eugenio Borgna e l’altro è Lorenzo Calvi. E tra i miei allievi, ora diventati totalmente autonomi, è Gilberto Di Petta. Ti spiego perché: Calvi oggi incarna la più rigorosa fenomenologia husserliana, quindi con una ombra di oggettivazione che ancora c’è - Solo con la Stein si afferma la nozione di empatia — e quindi non a caso è legato, come d’altra parte sono stato legato io, a Cargnello, allievo di Binswanger.
L’altro, Borgna: c’è stata adesso un’incredibile coincidenza; siamo molto legati, molto amici, direi sintonizzati sulle stesse lunghezze d’onda, iniziammo la nostra amicizia con uno scontro, sull’archivio dei Gemelli. Psicologia, psichiatria e neurologia erano ognun per sé e Borgna scrisse un articolo intitolato "la crisi della psicopatologia". Cargnello, con l’amico Poli e con me, rispondemmo con un articolo lungo, un po’ "acharmé", accanito : la psicopatologia è davvero in crisi? E ce lo pubblicarono. Con questo primo incontro nacque appunto un incontro che è diventato incontro di fratellanza, in cui per ragioni di età, solo per ragioni di età, io sono il fratello maggiore. Una cosa singolare, cui accennavo prima, è che ci sono due temi sui quali ho puntato tanto, per la declinazione della pratica clinica, la prassi di vicinanza ai sofferenti, cioè attesa e speranza, per me due concetti radicali. Pochi giorni fa Borgna mi ha mandato il suo libro, l’ultimo uscito, che si intitola proprio "attesa e speranza".
Poi c’è Gilberto, che è oggi il mio migliore allievo, aggressivo, vivacissimo, adesso nel passaggio dal mondo del tossico al mondo del delirante, al mondo della coscienza lucida, sta svolgendo a mio modo di vedere un ruolo di primaria importanza.
Poi, secondo me tu dovresti non escludere dai tuoi incontri di giovane psichiatra amici oltralpe. La scuola di Tatossian, Charbonneau, nominato ieri da Ballerini. Questa per quanto riguarda il gruppo francese di fenomenologia; che poi è stato ripreso mirabilmente da Luciano Del Pistoia che è uno psichiatra toscano. Ma non c’è solo questo, c’è la scuola tedesca; qui ci sono aperture alle quali tu devi aderire, sempre con una grande curiosità.
-molti maestri, dunque…
C.-A volte mi sento un po’ inquieto perché, mi pare sempre di cadere nell’errore, nel peccato, in quello che Julien Bandas, nel ’30 circa, chiamò la traison de clerques, tradimento dei chierici: io ho tenuto, accumulato esperienze preziose per capire l’altro: debbo non dissipare questa ricchezza, ma la debbo spendere, investire nelle coscienze giovanili. E io credo che il solo fatto che ci troviamo qui con questa tua attenzione che leggo nel tuo sguardo mi fa pensare che questo incontro potrebbe in un certo qual modo non risolversi in un mio ennesimo tradimento della mia missione, o meglio, del mio dovere. Che poi è un dovere di humanitas, communitas, di reciprocità. Perché c’è sempre un do ut des, perché adesso con la tua attenzione, con il tuo sguardo, con le tue domande con la tua disponibilità recettiva mi doni qualche cosa. Direi mi fai una invisibile flebo di giovinezza: uscirò da questo incontro rinnovato, con un pochino più di ossigeno nei vecchi miei globuli.
-Nella relazione che ha tenuto ieri mi particolarmente colpito il riferimento alla necessità di trovare un linguaggio comune, spesso invece noi giovani ci sentiamo un po’ distanziati rispetto a linguaggi troppo tecnici, distanti; forse lo stesso succede anche con i nostri pazienti.
C.-Certo. In questo mi trovi assolutamente non solo aperto, ma direi entusiasta, di aderire con te al problema del linguaggio. In questo ha ragione Lacan, l’inconscio è il linguaggio dell’altro. Ma il linguaggio, che poi è la parola, qualche cosa che permette l’incastro di due esistenze, consente non solo un tentativo di comprensione ma un tentativo di trasformare una conversazione, una intervista, in un "dia-logos", un dialogo, in cui c’è una reciprocità; anzi a me in questo momento piacerebbe usare la parola reciprocanza, che è più legata ad un "modo di distendersi". La reciprocità è più statica, la reciprocanza e’ dinamica, legata ad un movimento. Questo ci permette poi di lavorare insieme a superare l’enorme ostacolo alienante nell’incontro con l’altro che è la distanza. Io per distanza intendo non soltanto una distanza metrica, che linguisticamente viene superata. Il linguaggio deve essere per noi psicopatologi che incontriamo l’autre que moi, l’altro, anche quando l’altro è ancora immerso nelle nebbie dell’alieno. La distanza deve essere sempre qualche cosa che è sul momento di infrangersi. Dove lo vediamo questo? Lo vediamo considerando due aspetti importanti: uno, la carezza, carezzare, carezzarsi, le touché, toccare, toccarsi, esser toccati. In linguaggio proprio e in metafora. Questo significa anche lo sguardo. Ce tenir par les yeux , tenersi con lo sguardo. Toccando questo argomento è indubbio che il mio sguardo oramai usurato dal tempo, incontrandosi con il tuo sguardo attento e giovane, si comunicano: tu prendi da me e io do a te ma è un reciproco darsi. Che è un darsi l’anima. Allora l’altro da te si apre. A me è capitato tante volte di incontrare persone chiuse in ambiguità, in irresoluzioni, in dubbi, tristezze radicali, in ambivalenze insuperabili che attraverso questa materializzazione verbale dello sguardo mi hanno dato l’anima e io ho capito il valore dell’atto in lui di darmi la mano, era un darmi la mano che implicava l’accettare la mia mano. Questo secondo me dovrebbe essere qualche cosa di cui felicitarsi giornalmente, non quotidianamente, insisto sempre sulla differenza fra giornaliero e quotidiano, qualche cosa che quando un volta,anche una volta l’anno, emerge e tu lo senti ti da quella energia sufficiente per portarti avanti. Ecco che come io ti auguro di tutto cuore dopo qualche anno di riflessione la rievocazione del tuo passato inevitabilmente sarà costellato da emergenze di figure. Ricorderai Giuseppe, Federica, Marina….come figure altrettanto dense di presenza nel rievocarle.
Stai attenta anche, come giovane psichiatra, a non lasciarti incantare troppo dalle teorie, tu devi mantenere sempre una freschezza originaria nell’incontro. Nell’incontro tu devi prescindere, devi dimenticarti che hai fatto tre quattro anni di analisi didattica, o che hai approfondito test fenomenologici di Merlot-Contis, quello che conta è la tua immediata presenza, quello che noi diciamo l’esserci, il da-sein, e l’esserci con, il mit-da-sein, e ancora di più, il mi- ein-anders-sein: esserci uno per l’altro. Questo discorso dell’esserci però, è anche un’esserci nel mondo: mai pensare che siamo soli io e te. Quest’incontro con questo sofferente tu devi assumerlo portando accanto non solo lui come presenza singola, ma lui come suo mondo lui ecco la mondità, il suo esser mondano. Questo per me, e te lo passo oggi, fu un grande insegnamento che ricevetti dal professore Zutt nel lontano ’62. Sono passati 40 anni che Zutt diceva "Lieber freund, das Ich ist immer weltlich und die Welt ist immer ichalt",l’Io è sempre mondano, il mondo è sempre, non dovremmo dire egoico, diciamo "iico". Cioè il mondo è sempre plasmato dall’incontro singolo, però è lì, il mondo. Questa affermazione, potertela dare così come me la dette Jörg Zutt 45 anni fa, sperando che tu la possa tra un X numero di anni dare ai tuoi allievi sarebbe per me una mirabile consolazione.
E tu, che farai come psichiatra?
-Spero a questo punto di intraprendere dei percorsi di viaggio, magari con un paio di dizionari francese e tedesco con me...
C.-Visto che hai usato questa parola, viaggiare, mi viene in mente una cosa che mi sono un po’ inventata io, "Ich bin ein wegwanderer", io sono un camminatore di vie, di strade, l’eterno viandante. Che poi era il mito dell’ebreo errante, cioè questo notro modo di andare, che nella filosofia cristiana di Marcel è homo viator. L’uomo per sua natura è un viator, lo status viatoris. Questo ci apre però un altro orizzonte, come ho scritto in un mio lavoro "Consigli di uno psichiatra a giovani psicologi": sempre più avvicinarsi alle cultrure altre, capire che la nostra cultura occidentale, in fondo con un imprinting di scienza empirica è una cultura tra le altre cullture, non che le altre culture debbano per autenticarsi meglio vestire i nostri panni. Da qui il mio incontro con le altre culture, le altre religioni, è stato per me determinante. Mi piacerebbe che lo fosse anche per te! Insomma tu hai il tuo piano forte, e su questo pianoforte devi suonare i ritmi, le cadenze, le melodie e le musiche diverse. Questo è il mio augurio per te.