LA PSICHIATRIA PER BENE
Dialoghi sulle buone pratiche in Psichiatria
di Gerardo Favaretto

CORRADO DE ROSA: Essere psichiatra nel 2000 fra abitudini e racconti

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19 agosto, 2019 - 18:35
di Gerardo Favaretto
La rubrica Psichiatria per bene si è occupata fino ad ora di esperienze rappresentative non solo di alcuni dipartimenti ma anche di soluzioni e visioni rispetto a quanto si fa in salute mentale. Quest’intervista parte, invece, da un altro presupposto che in verità appartiene agli psichiatri da sempre, ovvero l’esperienza umana e personale dell’essere psichiatra ovvero il punto di vista da cui uno psichiatra costruisce il proprio osservatorio sul mondo e può essere portato ragionare, esaminare e scrivere su fenomeni sociali o anche semplicemente a scrivere letteratura senza mai deragliare in quella poco raccomandabile saccenza e incomprensione che purtroppo caratterizza, fino al degrado della identità professionale molte delle figure pubbliche dello psichiatra mediatico.
Si può, insomma scrivere e approfondire anche tematiche di non strettissima rilevanza clinica, appassionarsi alle biografie, pubblicare romanzi in un modo che dell’essere psichiatra conserva la correttezza il garbo, una lettura dei fenomeni che è indiscutibilmente narrativa ma apporta alla cultura stimoli importanti e preziosi e si può fare anche in modo originale senza declinare concetti presi dal senso comune o mescolato a uno psichiartichese che tutto spiega e tutto sa.
Essere psichiatra in Italia si porta dentro, nella sua stessa costituzione genetica, la grande mutazione del 1978. Come accade per cambiamenti nel genoma e quegli adattamenti così attentamente tenuti in considerazione oggi nell'epigenetica, questi processi intessono profonde modifiche identitarie, del costituirsi e prodursi delle forme del sapere che lentamente, ma in modo irreversibile cambiano, l'identità professionale di chi fa questo lavoro.
Un lavoro continuamente soggetto a critiche anche violente e pregiudiziali, oppure idealizzato ma che non si può fare se non vi è da qualche parte un’autoscopia che nasce dall’osservazione e dalla consapevolezza, dalla riflessione su quello che si fa. Questo costruisce una cultura che finisce poi, più o meno, inevitabilmente con l’interfacciarsi con molte dimensioni e diversi saperi: la storia, la filosofia ma anche La sociologia e , soprattutto, la cultura giuridica e del diritto. Perché la psichiatria ha molto a che fare con il mondo dei diritti e dei doveri, delle regole sociali e dello Stato al punto che il suo stesso ruolo né e profondamente condizionato, non sempre in modo positivo. Questo è quello che è successo, in parte nel 1978, che ha mutato in modo, mi auspico, irreversibile l’identità dello psichiatra italiano. Poi ci sono coloro che sono venuti dopo, anche molti anni dopo e che hanno trovato una psichiatria ancora diversa; che hanno lavorato e lavorano in contesti non sempre facile e che proprio magari alla scrittura e al narrare hanno trovato un modo di  esplorare i limiti e le possibilità di questa nuova identità .

Corrado De Rosa, 44 anni  è uno psichiatra, indiscutibilmente salernitano,  che lavora nei Servizi, è stato fra i coordinatori del progetto “giovani psichiatri” della SIP e ha poi fatto parte del comitato esecutivo della Società. Corrado è partito dalla sua esperienza forense sull’uso strumentale della malattia mentale per proporre analisi e riflessioni che poi ha ampliato anche ad altri campi. Tra i suoi saggi ricordiamo: I medici della camorra (Castelvecchi, 2010), Mafia da legare. Pazzi sanguinari, matti per convenienza, finte perizie, vere malattie: come Cosa Nostra usa la follia (Sperling & Kupfer, 2013), La mente nera. Un cattivo maestro e i misteri d'Italia: lo strano caso di Aldo Semerari (Sperling & Kupfer, 2014), Nella mente di un jihadista. Per una psicologia dell’ISIS (Ed. I corsivi del Corriere della Sera, 2016) ma anche L’allenatore sul divano. Psicologia minima di un tifoso di provincia del 2017 (il titolo è illuminante). Nel 2018, esordisce con un giallo di successo ovvero L’uomo che dorme pubblicato da Rizzoli nella collana Nero.
Com’è stato l’inizio del tuo lavoro di psichiatra? Che impressione hai avuto della realtà dei servizi in cui ti sei trovato a operare e che impressione hai della realtà di oggi?
Ho iniziato a lavorare nei Dipartimenti di Salute Mentale 15 anni fa. Probabilmente il tempo idealizza il passato, ma mi sembra che allora si lavorasse ancora sotto l’onda lunga della riforma psichiatrica. Poi, la nostra, è diventata l’epoca delle passioni tristi e della fine delle risorse. Prima si faceva in dieci quello che adesso si fa in sei, l’utenza aveva più possibilità di riposta; la multidisciplinarietà dei Dipartimenti assottiglia e, di pari passo, le varie figure professionali che animavano i Servizi sono diventata merce rara. Questo incide sull’attività lavorativa, più centrata su visite ambulatoriali e ricoveri. E poi, la mia impressione, è che non siamo al passo con i cambiamenti sociali, dobbiamo ancora definire bene le nostre competenze. C’è troppa disparità lasciata ai singoli, troppa oscillazione fra chi restringe al massimo l’ambito di azione e chi prova a rispondere a tutto. In questo cuneo s’infilano forze dell’ordine, magistrati, altre branche specialistiche e Istituzioni. Le strutture che accolgono i migranti, per esempio, sono spesso impreparate a gestire problematiche sociali o culturalmente mediate e rimandano alla Salute mentale questioni che con la Salute mentale c’entrano poco. Anche la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari resta un tema caldo: i percorsi di cura rischiano, nella quotidianità, di diventare troppo spesso controllo. E quest’aspetto, insieme al tema delle nuove droghe e dei suoi correlati comportamentali, va di pari passo con il problema della sicurezza professionale. Forse è tempo di parlare, oltre che dei diritti, anche dei doveri degli utenti senza barriere ideologiche. 
Le tue prime pubblicazioni riguardano l’uso della psichiatria e della perizia psichiatrica nel mondo della camorra e della mafia. Che cosa hai riportato nella tua identità professionale?
Forse una maggiore attenzione ai temi dell’etica, della deontologia e della formazione. Non mi sconvolge tanto la corruzione nel nostro mondo, fa parte dei giochi: esistono psichiatri corrotti come esistono magistrati, giornalisti, avvocati corrotti. Il punto è che, più spesso, la strategia dell’impunità attraverso l’uso della perizia va a segno per le scarse competenze dei medici, poiché nessuna formazione specifica è richiesta per lavorare in questo campo. E neppure ritengo che chi faccia il consulente dei mafiosi sia, a sua volta, mafioso. Al contrario, si tratta spesso dei più bravi che, semplicemente, scelgono il committente più appetibile poiché le mafie pagano una consulenza venti volte di più dello Stato, lo fanno subito e senza farraginose intermediazioni burocratiche. Ogni tanto, mi contatta un parlamentare, o un suo intermediario, per propormi di lavorare sul tema della riforma delle attribuzioni degli incarichi peritali e, quindi, sulle incompatibilità. Ma la questione, questo è comprensibile, non è al centro delle agende politiche e tutto passa nel dimenticatoio. Eppure ancora adesso nulla vieta di essere il consulente di parte di un boss in un processo e il perito di un giudice in un processo sul braccio destro di quel boss. Forse sarebbe utile aprire un tavolo di discussione più forte su questi temi, che parta magari dalle Società scientifiche.
Cosa ti ha spinto a riflettere e analizzare questa esperienza?
Ho iniziato a occuparmi per caso dell’argomento. Se fai perizie psichiatriche in Campania, prima o poi ti imbatti nella criminalità organizzata che sfrutta ogni professione che possa garantire dei vantaggi. Da una perizia si ottengono proscioglimenti, riduzioni di pena, sospensione dei processi e scarcerazioni. Ecco perché anche la Psichiatria diventa terra di conquista, ed ecco perché non c’è grande processo di mafia che non abbia avuto i suoi finti pazzi: partendo dal primo Novecento, passando per il Maxi processo istruito da Falcone e Borsellino fino a quelli più recenti. Ovviamente i metodi, nel tempo, si sono affinati. Oggi facciamo i conti con simulazioni più sofisticate, forzature del concetto di disturbo di personalità e della sua gravità, riletture creative di raptus e altri luoghi comuni sulla follia, tentativi di far passare disadattamenti per depressioni maggiori o condotte autolesive strumentali per tentati di suicidi, dimagrimenti patologici procurati e volontari come anoressie, oppure tentativi di strumentalizzazione del tema delle neuroscienze – ovvero di attribuire un comportamento ad alterazioni celebrali o a presunte anomalie genetiche, senza che questa correlazione sia al momento dimostrata - e del suo correlato deresponsabilizzante in aula di giustizia: colpevoli si nasce.
Com’è stata la tua esperienza di collaborazione con il mondo della giustizia e della magistratura in particolare?
Intensa. Perché mi ha consentito di occuparmi di vicende giudiziarie, allo stesso modo, inquietanti e interessanti, che hanno a che fare con la coscienza sporca del nostro Paese: eversione, stragi di stato, mafia al Nord, falsi invalidi ecc. E poi perché mi ha spinto a interrogarmi sul ruolo di consulente per l’Autorità Giudiziaria. Sul fatto, cioè, che anche il tema della responsabilità dei periti andrebbe approfondito e sulle conseguenze catastrofiche che possono derivare da consulenti che si affannano a compiacere il loro committente, sia esso una Procura o un Collegio giudicante. Anche nel campo della responsabilità professionale.
Che cosa ha cambiato per te e per la tua esperienza di lavoro la pubblicazione dei tuoi saggi e la tua attività pubblicistica?
Forse il fatto che quando escono i libri, cioè quando mi muovo per promuoverli, lavoro un po’ di meno durante la settimana e un po’ di più nei week end con giusta soddisfazione dei colleghi. E poi il fatto che, occupandomi di temi che sembrano … come dire: delicati? Posso parlare con più autorevolezza di calcio. Perché, come hai scritto nell’introduzione, sono indiscutibilmente salernitano e tifoso della Salernitana. Scherzi a parte, poco o nulla.
L’animo un po’ melanconico e indolente, ma in fondo altruista del dott. Costanza, protagonista del tuo L’uomo che dorme ha a che fare con l’immagine dello psichiatra della tua generazione?
Molto. Scrivere un romanzo è stata un’esperienza strana perché la complessità di scrittura di un saggio d’inchiesta è fredda, sta nell’utilizzo delle fonti, della bibliografia, del materiale giudiziario che devi utilizzare. L’uomo che dorme è una commedia nera che ha come protagonista uno psichiatra. Quindi la difficoltà principale era emotiva, stava nel prendere le distanze dal personaggio. Di certo, non ho preso le distanze dal suo modo di intendere la professione. Il dottor Costanza s’interroga sulla questione etica, sul suo mandato, su cosa può fare per i suoi pazienti e su cosa, in realtà, non è in grado di garantirgli. Fa quello che può.
Qual è il tema centrale del romanzo?
Lo smarrimento esistenziale dei 40enni di oggi e il fatto che non tutti i comportamenti incomprensibili sono frutto di follia. Relegare quello che non capiamo nello stanzino della diagnosi psichiatrica ci serve solo come strumento di consolazione, come presa di distanza da male, rabbia, odio che sono sentimenti profondamente umani e non esclusivi dei disturdi mentali.

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