Residenza emotiva

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20 gennaio, 2013 - 19:11

a cura di Roberta Antonello, Beppe Berruti, Gianni Giusto, Marco Massa

 

Riassunto

 

Residenza emotiva e oggetto intermediario sono elementi basilari nel trattamento integrato della psicosi proposto da G.C. Zapparoli.Sono stati presi in considerazione in questo scritto le particolari caratteristiche che questi concetti assumono in una ComunitàTerapeutica (in questo caso Redancia), dove i clienti trovano realmente una casa per le loro emozioni e dove gli aspetti transizionali, così come sono stati descritti dalla teoria delle relazioni oggettuali, possono essere importanti.

Infine la Comunità Terapeutica può e deve rappresentare un "oggetto intermediario senza fine" per coloro che non sono in grado di lasciare la Comunità Terapeutica.

 

 

Summary

 

Emotional residence and intermediary object are basical issues in the integrated treatment model by G.C. Zapparoli for the treatment of psychotic patients. In this paper authors consider the particular characteristics these concepts assume in Therapeutic Community (Redancia in this case) where clients actually find a home for their feelings and a place where transitional objects as they have been described by object relation theory could be important therapeutic agents.

Finally Therapeutic Community could (and really should) be a "Neverending intermediary object" for those chronic patients not able to leave the Therapeutic Community.

 

 

introduzione

Vorremmo mettere in evidenza, nel nostro contributo a questo numero monografico de "Il Vaso di Pandora", due aspetti della terapia dello psicotico appartenenti al modello di trattamento integrato sviluppato dal Prof. Zapparoli e dal suo gruppo per come si realizzano nel contesto particolare della Comunità Terapeutica: essi sono la residenza emotiva gruppo e gli aspetti intermediari, o funzione intermediaria del processo terapeutico.

Il termine residenza emotiva ha in Comunità Terapeutica un significato ovvio, perché in comunità si abita per un certo periodo, ma crediamo meriti di essere approfondito perché la categoria dello spazio-abitare fornisce alla relazione terapeutica una dimensione nuova.

La funzione intermediaria ha valenze complesse, ed esprime una funzione fondamentale riguardante i modi in cui i cambiamenti si possono produrre all’interno del processo terapeutico dei disturbi psicotici. In Comunità Terapeutica parlare di funzione intermediaria acquista un significato particolare che cercheremo di vedere più nel dettaglio e che appartiene alle categorie della trasformazione, del cambiamento e del movimento.

L’ipotesi che proponiamo è che la CT ha i numeri, per così dire, per sostenere efficacemente gli aspetti "intermediari" della cura del paziente psicotico che vi abita per un periodo. Questa capacità è basata sul fatto che essere in CT significa prima di tutto avere un rifugio e una casa. Residenza emotiva e aspetti intermediari sono concetti centrali nel trattamento integrato, e può essere utile cercare di capire come si realizzino in una CT che deve essere inserita e integrata in una rete di cure basata nella comunità.

Cercheremo di recuperare le origini di questi concetti: nelle formulazioni originarie ci sono alcuni elementi che ci possono essere utili punti di riferimento senza dimenticare, anche se non è un tema che affronteremo qui, che questi sono due aspetti specifici del processo terapeutico, che ha valenze ben più complesse sul piano clinico e tecnico. Residenza emotiva e funzione intermediaria sono piuttosto due elementi di base del processo.

Cercheremo infine di mostrare un aspetto particolare della funzione intermediaria: la intermediarietà senza fine rappresentata da quei pazienti per cui la CT non è più una fase della vita o della cura, ma la destinazione finale; anche per loro è fondamentale conservare questo spazio virtuale, che li valorizza al massimo delle loro capacità e possibilità

 

LA RESIDENZA EMOTIVA

Una residenza emotiva è, secondo la definizione datane da Zapparoli "uno spazio emotivo che può essere collocato in un luogo che lo favorisce, ma è essenzialmente un rapporto con un oggetto animato o inanimato a seconda delle capacità di relazione del paziente, nel quale quest’ultimo vive la possibilità che i suoi bisogni vengano salvaguardati" (1992, p.87).

È chiaro che chi svolge questa funzione, sia esso il curante in un ambiente "territoriale", sia un’istituzione come la Comunità Terapeutica, svolge una funzione sostitutiva, temporanea o permanente, di qualche cosa che viene a mancare al paziente psicotico, come conseguenza di qualche cosa che è andata male nel corso della sua vita. Questa impossibilità è stata descritta in tanti modi, che hanno in comune l’identificazione di una impossibilità di avere un luogo mentale per le emozioni, e che trovano un punto di riferimento importante negli studi di M. Klein (1930) sul simbolo e sulla sua funzione nella attività psichica. In seguito il tema è stato sviluppato in molte direzioni: in chiave di sviluppo del pensiero da Bion (1962, 1967) e in seguito da Meltzer (1975). Più vicino ai temi della comunità terapeutica, ma in una prospettiva che ci sembra sostanzialmente analoga, Winnicott (1960) con il concetto di holding environment fornisce uno strumento per affrontare questo problema nella relazione terapeutica con lo psicotico in un ambiente comunitario (Pao 1979, Gislon e Orefice, 1988)

La Comunità Terapeutica è quindi un luogo, uno spazio che diventa per un periodo la "casa" del paziente. Questo "diventare casa", come abbiamo visto, è una fase importante nel trattamento, perché introduce un elemento nuovo nella relazione che viene descritto in modo interessante da Petrella: "Dobbiamo considerare l’abitare come una particolare categoria che tratta molto concretamente la distinzione tra spazio interno e spazio esterno. Nella generalissima contrapposizione Interno/Esterno troviamo un punto fondamentale di convergenza tra i compiti dello psicopatologo e quelli dell’architetto: architetto e psichiatra sono entrambi interessati a rappresentarsi, a valorizzare, a gestire, ciascuno a suo modo, il rapporto IN/ES" (1993-p. 654). Accanto a questa affermazione di principio generale, più avanti troviamo: "Nell’ambiente ritroviamo trasposte, simbolicamente e materialmente, le relazioni con i primi oggetti. Tutto questo scenario del bisogno, del desiderio e dell’indigenza, dell’angoscia di perdita e di deterritorializzazione radicale, che gli stati psicotici presentano in forme tanto enigmatiche e bizzarre, richiede una specifica semeiotica relazionale dell’abitare" (1993- p 658).

Tutto ciò ha evidentemente molto a che fare con la Comunità Terapeutica come luogo capace di recepire e contenere la follia del paziente, resistendo ad essa e aiutandolo a resistere ad essa senza pretendere un cambiamento.

La possibilità di inserire produttivamente la casa e l’abitare nella relazione terapeutica, attraverso la lettura e l’attribuzione di senso passerebbero quindi attraverso la ripetizione del rapporto con i primi oggetti. Questa prospettiva si può servire degli strumenti messi a disposizione dalla psicoanalisi delle relazioni oggettuali, tra cui in particolare la rappresentazione e l’utilizzo nella relazione della CT come contenitore. Hinshelwood è in questa prospettiva quando descrive i diversi tipi di relazione contenitrice all’interno di una Comunità Terapeutica. Il contenimento terapeutico, viene descritto così: "Per finire, nella terza forma, il contenitore e il contenuto riescono ad adattarsi l’un l’altro, e nel corso del processo si sviluppano e crescono: può essere un esempio una madre, che invece dell’agonia di sentire la disperazione del figlio, riesca a seguirlo per proiettare dentro di lui la comprensione allo scopo di farlo crescere, e che possa a sua volta crescere nel corso del processo" (1987 p. 207). In particolare Hinshelwood si sta riferendo allo stesso tipo di contenitore descritto da Bion.

Ma Petrella è più vicino alla concretezza dell’abitare da cui siamo partiti: "Accanto allo spazio vissuto, allo spazio fisico e a quello psicosociale, deve essere valorizzato lo spazio relazionale. Anzi l’intera esperienza abitativa si fonda su di esso, anche alla luce di una considerazione circa la genesi e la costituzione temporale dell’esperienza spaziale a partire dall’infanzia. La casa, la stanza, ecc., replicano la holding materna costitutiva, sono gli eredi dei dispositivi funzionali di contenimento, di protezione e di sostegno originari"(1993 p. 657-658). Ci sono, in questa direzione aspetti emotivi, simbolici e cognitivi che pongono Petrella vicino ad un altro autore, che pure si riferisce alla costituzione e allo sviluppo del mondo interno personale. R. Money Kyrle scrive, descrivendo il concetto di "base":

"Questa base sembra essere normalmente non l’Io corporeo, bensì qualcosa verso cui l’Io corporeo si orienta come verso la propria "casa". La prima base, da cui tutte le altre sembrano derivare, è il primo oggetto che emerge dalla confusione sensoria del neonato, cioè il seno, o forse specificatamente il capezzolo". […] "Quel che è più facile da seguire è lo sviluppo della base, sia internamente che esternamente, dal seno o capezzolo della madre come persona intera, ai due genitori insieme, all’idea di una casa, di un paese cui si appartiene e via dicendo. Finché si conserva il rapporto interno ed esterno con queste entità, noi non siamo mai disorientati, e in pari misura siamo preservati da attacchi acuti d’ansia. Ma l’orientamento nei confronti della base si perde facilmente in molti modi". (Money Kyrle 1965, p. 618-619). In effetti questa sembrerebbe essere una descrizione piuttosto adeguata dell’esperienza di "deterritorializzazione" di cui parla Petrella e che ritroviamo spesso nei nostri pazienti.

Accostare queste due prospettive è stimolante, ma l’integrazione è tutt’altro che facile; anche in questo caso si mostra vera l’affermazione di Racamier riguardo alla difficoltà di trasferire concetti psicoanalitici in ambito istituzionale (Racamier,1972). Questi e altri concetti analoghi trovano spesso più facile realizzazione in ambito clinico dove nascono con un significato più astratto piuttosto che in campo istituzionale, dove la complessità della situazione rende più difficilmente applicabili certi modelli. Questo è avvenuto per la residenza emotiva, che pure è un concetto evidentemente legato alla concretezza dell’abitare, ma è noto si è sviluppato per una pratica terapeutica territoriale.

Zapparoli non è comunque lontano da questa prospettiva quando si riferisce ad uno spazio emotivo e ad una relazione con un oggetto che sia alla portata della capacità di relazione dello psicotico in quel momento. Un pregio del concetto di residenza emotiva è proprio quello, a nostro avviso, di raccogliere molte elaborazioni di origine psicoanalitica e non, trasformandole in uno strumento clinico per la pratica psichiatrica quotidiana. Abbiamo introdotto all’inizio la dialettica tra un abitare statico e un progredire dinamico; è però il momento di segnalare quanto c’è di artificiale in questa distinzione: "un’altra tecnica, che si basa sulla possibilità di porsi come intermediario tra i due poli opposti del dilemma che caratterizza il bisogno del paziente. Non solo essa rinuncia a voler modificare con qualsiasi mezzo, le convinzioni onnipotenti del paziente, ma lo aiuta nella ricerca di quelle situazioni illusionali che gli mantengono la sicurezza di poter non avere bisogni, ma anzi di essere lui ad avere la padronanza dei bisogni stessi negandoli. [...] Filippo ad esempio, a seguito di questa mia funzione di intermediario, è sicuro di avere una "residenza emotiva" dove poter parlare dei suoi deliri, ed è riuscito a sviluppare una sua capacità di inventare aree di dominio assoluto sulle cose. (Zapparoli 1992 p.111). In un passaggio come questo è chiaro che avere una casa per le emozioni è molto legato alla possibilità di accedere allo spazio mentale dell’illusione che è a sua volta lo spazio della transizionalità. La nostra distinzione è in parte artificiosa: nella cura dello psicotico abitare e progredire sono strettamente integrati Piuttosto un aspetto specifico della Comunità Terapeutica, riconoscibile grazie anche a modelli di osservazione come quelli proposti da Petrella, è quello di cercare di recuperare un aspetto fisico, concreto del concetto, da cui il termine residenza emotiva origina. Nel suo sviluppo la psichiatria di comunità rischia un po’ di perdere, ci sembra, questi aspetti concreti, qualche volta così utili forse anche in relazione a fantasmi istituzionali ancora ben presenti, con qualche ragione probabilmente. Residenza emotiva in Comunità Terapeutica vuol dire accedere, almeno come possibilità, a quel mondo di significati antichi e a quella ricerca di accoglimento che può essere animato o inanimato, secondo la terminologia di Zapparoli, vale a dire più o meno calda, vicina, impegnativa a seconda dei momenti e delle fasi. Ciò dipende senza dubbio dalla capacità di "contenere" e contemporaneamente di essere lo scenario della relazione. Questo vuol dire che "una semiologia dell’abitare che includa la relazione è la premessa per una riabilitazione terapeutica" (Petrella 1993, p. 657), e che, d’altro canto, "tutto questo apre il problema di una responsabilità terapeutica che investe il nostro modo di rappresentarci le cose nello spazio assistenziale e di farne esperienza. Da qui, da questa istanza di conoscenza, potrebbe iniziare un vero discorso sulla riabilitazione e sulla cura" (Petrella 1993, p 659)

Vale ancora la pena di notare che la possibilità di essere in relazione a diversi livelli, preverbali, presimbolici, oppure più evidentemente relazionali, ha valore particolare in C.T. perché può avvenire in una sostanziale continuità spaziale e che ha la caratteristica specifica di poter accogliere e contenere aspetti più regrediti del paziente che ospita.

Il paziente che arriva a Redancia è molto spesso una persona che per vari motivi ha perso, non ha, o non può più abitare la sua casa. Gli viene offerto quindi innanzitutto un luogo dove abitare, in grado come minimo di garantirgli la sopravvivenza, soddisfando quei bisogni comuni a tutti, che permettono di non morire fisicamente e psichicamente. Fin da subito gli viene prospettato il viaggio di ritorno a casa, dovunque essa sia. Anche se a volte, come vedremo, l’approdo non potrà essere altro che la comunità stessa, si tratterà in ogni caso di un viaggio e di una esperienza da conservare. A partire da questo contratto iniziale si sviluppa una relazione diversa dall’utilizzo casuale di un’agenzia piuttosto che un altra, e si fonda quella che abbiamo visto essere la residenza emotiva. Nella pratica clinica essa diventa uno strumento ponte tra l’istituzione e la relazione personale; questo permette una costanza nel tempo e l’inserimento nell’area intermediaria della cura.

Ma la CT è anche un luogo dove devono realizzarsi dei cambiamenti, che sono diversi a seconda delle diverse ideologie delle CT. Nella nostra prospettiva, la trasformazione che cerchiamo è quella dei bisogni dei nostri pazienti, che consiste per esempio nella possibilità di accedere a bisogni meno "concreti". Da un cibo e un riparo, solidi, garantiti, alla possibilità di nutrirsi da soli, fino a un cibo meno visibile, ma non meno importante che è quello di una relazione con l’altro più ricca. Questo trasforma un punto fermo in una linea o in un percorso, che ha come meta avere meno bisogno della concretezza dell’istituzione.

Dal punto di vista clinico e tecnico il guidare o l’assistere questo processo rende ad un certo punto necessarie delle scelte che si rivelano decisive per il futuro del paziente.

Una scelta di questo genere potrebbe essere espressa per esempio, in termini psicodinamici, come l’alternativa tra il favorire l’accesso a una posizione "depressiva" più integrata d evoluta, ma difficile e dolorosa da sostenere, rispetto alla possibilità di salvaguardare una posizione non integrata, scissa, che difende comunque sia dal dolore di una integrazione intollerabile sia dalla frammentazione psicotica. La difficoltà e i criteri di queste scelte, che facciamo in pratica continuamente in CT, sono un campo ancora non ben esplorato.

Può essere interessante, per illustrare questo dilemma, le storie di Pino e di Paolo.

 

Il caso di Pino

Pino ha 40 anni, una diagnosi di schizofrenia paranoide e un passato di gravi atti eteroggressivi, una totale perdita di risorse economiche in relazione ad una gestione compensatoria onnipotente di quello che gli restava, 5 anni di soggiorno ininterrotto in strutture psichiatriche, una posizione nel gruppo di leader grazie alla sua intelligenza, ma anche grazie alla sua capacità cinica e a volte sprezzante di osservare il malessere di tutti, rimanendo costantemente in una posizione di pessimismo su ogni possibilità di cambiamento con un atteggiamento i cui aspetti "crudeli" sembrano leggibili in chiave di difesa da aspetti "caldi" della relazione secondo Brenman (1985). A questo fa fronte una visione idealizzata di alcuni dei suoi curanti a cui evidentemente delega la propria onnipotenza.

La posizione di Pino rispetto al suo futuro e al suo passato può essere definita, e lui stesso qualche volta la definisce così, è quella del pensionato, dove il lavoro svolto è stata la malattia con le sue conseguenze. Questa posizione ricorda molto quella descritta da Cerati (1993) del delirio come "lavoro dello psicotico".

L’importanza della CT come Residenza Emotiva per Pino emerge durante una crisi. Il terapeuta psichiatra nei colloqui sente emergere temi deliranti, pretese inadeguate, valutazioni sempre meno realistiche; contemporaneamente viene avvertita una sempre più elevata rabbia ed aggressività. Inizialmente si risponde con un aumento del "controllo", (prescrizioni-ordini di controllo farmacologico, richieste di adeguamento del comportamento accompagnate da u a presenza sempre più vicina nei luoghi dei suoi nascondigli (bar, ristoranti, casa del padre ecc.) per informali incontri volti al "saperne di più". Intanto il gruppo terapeutico diventa sempre più allarmato, e questo rafforza la convinzione di dover provvedere in qualche modo ad una rivalutazione della pericolosità con lo stesso servizio di appartenenza del paziente, che lo ha affidato da tempo e i cui operatori sono nel frattempo cambiati.

Nella riunione settimanale emerge la sua sofferenza e la sua rabbia per tutti: questo limita i sentimenti di invidia verso i privilegi di un’attenzione particolare rassicura gli ospiti che la sua pericolosità è riconosciuta dagli operatori.

Si viene poi a sapere in modo informale che Pino ha saputo che il figlio che aspettava non verrà a trovarlo (non lo vede da circa 10 mesi), e che ha dato in gestione i soldi rimasti convinto di non riuscire più a controllarsi e altrettanto consapevole che senza soldi "dà di fuori". Per quanto la presenza delle sue figure di riferimento sia sempre più frequente, testimoni della sua sofferenza, la sensazione che la situazione non sia più controllabile è sempre più presente i tutti. Anche in lui: di fronte al sesto bicchiere di whisky, stravolto e arrabbiato si rivolge al medico dicendo "Mi trovi qualche posto sennò faccio qualcosa". Un altro ospite della Comunità seduto al tavolino del bar per il resto deserto, si allontana silenziosamente mentre il medico gli dice: "Mi dispiace, non ho altro da offrirle che l’ospedale, ma forse è meglio..." "Prendo un altro whisky e non voglio iniezioni, voglio..." Il resto è un rapidissimo automatico muoversi di tutti, gli ospiti soccorrevoli e l’infermiera che prepara la valigia, le chiavi dell’armadio e della stanza che vengono date alla responsabile della Comunità, mentre l’infermiere che conosce da tempo, anche se non lavora più in comunità viene chiamato per accompagnarlo ed arriva di corsa, mentre il resto dello staff si organizza per supplire al vuoto di personale infermieristico conseguente, a prescindere dalle competenze. Alla sua partenza non si avverte tensione, ma tristezza e vicinanza tra tutti, ospiti e operatori. È il primo ricovero volontario nella lunga storia di malattia di Pino. Viene poi dimesso e riaccolto due settimane dopo, con una sia pur minima percezione di un modo meno ostile intorno alla Comunità.

In questo caso Pino ha potuto utilizzare la Comunità Terapeutica sia come casa che come istituzione: Pino può vivere solo sapendo di essere controllato, e la Comunità ha svolto questa funzione, anche attraverso la comprensibilità da parte dell’intera comunità della sofferenza e pericolosità della situazione attraverso quanto percepito in diversi contesti e attraverso informazioni raccolte in vario modo. Lo scenario preoccupato e attento è stato utile perché Pino percepisse via via responsabilità intorno e non persecuzione. La funzione della Comunità è stata, ci sembra, quella di contenere e restituire come un ambiente abbastanza buono la sofferenza di Pino.

Pino non ha un progetto di reinserimento sociale, è, dicevamo, un pensionato della psicosi. La CT gli dà la possibilità di sostenere un equilibrio fragile, permettendogli una posizione di negazione nei confronti della sua sofferenza, proteggendolo da un contatto troppo crudo con il proprio dolore e il proprio fallimento assumendo una posizione di comprensione e accettazione. In questo caso una funzione facilitatoria dell’istituzione che sarebbe in altre situazioni al servizio della promozione dello sviluppo psichico è qui al servizio del mantenimento di meccanismi di difesa che per quanto primitivi, sono essenziali per la sopravvivenza , probabilmente non solo psichica, di Pino.

In un caso come questo è molto evidente la funzione della CT come casa delle emozioni, mentre gli aspetti intermediari, pur presenti, sono un po’ in ombra, perché più legati agli aspetti evolutivi del trattamento. Sono comunque presenti, perché impliciti in una relazione terapeutica di lunga durata, e formano quella che chiamiamo la intermediarietà senza fine, che vedremo meglio più avanti.

 

Il caso di Paolo

Paolo ha 29 anni e alle spalle un malessere psichico che dura ormai dall’età di 15 anni, 4 anni di totale isolamento in camera sua dopo una lite coi genitori, un buon ricordo del servizio militare, che tuttavia era stato interrotto a causa dei disturbi psichici, e alcuni tentativi di mantenere un lavoro, tutti falliti.È stato in psicoterapia per alcuni anni, con esiti nel complesso positivi, interrotta per volontà del terapeuta, cui era seguito un rapido peggioramento: si isola, chiuso in casa, tenta di guadagnare una impossibile autonomia andando a vivere in una roulotte in un campeggio.Man mano che la sua angoscia cresce si fanno sempre più evidenti comportamenti bizzarri e inadeguati, che fanno decidere ai genitori di richiedere l’intervento del Servizio di Salute Mentale che provvedere al primo ricovero in ambito psichiatrico quando Paolo ha 26 anni. Dopo la dimissione viene inserito presso ilCentro Diurno del Centro di Igiene Mentale di competenza, ma l’inserimento fallisce per l’incapacità o la non volontà di Paolo di inserirsi. Viene ricoverato altre due volte in seguito a TS con psicofarmaci, e alla dimissione dall’ultimo ricovero viene inserito direttamente in Redancia.

Lo scopo iniziale dell’inserimento in CT fu senza dubbio quello di dare a Paolo un luogo sufficientemente protettivo dove stare, dato che risultava dalla sua storia che se da un lato era stato in grado di instaurare una relazione psicoterapeutica valida, tutti i suoi tentativi di adattamento sociale (la scuola, gli amici, il lavoro) erano falliti. La famiglia, pur essendogli molto vicina, era caratterizzata da una eccessiva protettività materna e da una figura paterna che suscitava movimenti invidiosi e aggressivi.

All’inizio, era evidente inPaolo la necessità di partecipare a tutte le attività che la struttura metteva a disposizione, mostrando d’altro canto la tendenza ad andare in crisi, con momenti di grave angoscia e sfiducia quando non era possibile parteciparvi, mostrando la sua idea di cura come guarigione attraverso prestazioni in determinate tecniche terapeutiche (la riabilitazione).

D’altro canto proprio il confronto con questo atteggiamento, nei colloqui bisettimanali con il terapeuta e la possibilità di sviluppare col tempo relazioni intense e selezionate sia con operatori che con altri ospiti, ha permesso lo sviluppo di una buona capacità di osservazione e di consapevolezza dei propri limiti. Ciò ha provocato un cambiamento nel suo atteggiamento nei confronti delle attività comunitarie "standard".Attualmente Paolo si reca a casa ogni week-end, mentre nel futuro si prevede un graduale inserimento in alloggio protetto.

In questo caso si vede, diversamente da Pino, che per Paolo c’è una forte spinta allo sviluppo e alla autonomizzazione che viene da egli stesso e dalla sua famiglia; dato che apparentemente questa era sostenuta dalle risorse personali, e non solo dalle aspettative che lo circondano, il progetto terapeutico è in effetti molto più evoluto. In questo caso il problema è stato inizialmente quello di fornire a Paolo il tipo di accoglimento che richiedeva, e che per esempio non era stato possibile dargli al Centro Diurno o in famiglia, mettendo in evidenza proprio la disponibilità ad aspettare, superando il problema "prestazionale", inevitabilmente votato al fallimento.

Col progredire del processo evolutivo, quando si è intravista la possibilità di una effettiva trasformazione dei suoi bisogni, verso l’autonomizzazione, la CT è diventata per Paolo la "base" da cui partire per progressivi allontanamenti, processo che dura tuttora, e che rappresentano per lui aspetti "intermediari" del trattamento. Entrare in CT per Paolo ha rappresentato la possibilità di arrivare in un luogo dove suo malgrado non gli veniva richiesto di guarire, ma di rimanere, aspettare, farsi conoscere per riconoscere i propri bisogni.

Siamo di fronte evidentemente ad un problema diverso rispetto a Pino: qui il problema è quello di non colludere con la "fretta" di Paolo e dei suoi genitori, e di valutare di momento in momento le possibilità e i bisogni presenti, senza fare il "passo più lungo della gamba".

Se da un certo punto di vista la prognosi sembrerebbe migliore, è anche vero che questo processo evolutivo è difficile e delicato, proprio perché ha dei punti in comune con i tentativi fatti in passato, risultati intollerabili e che hanno portato a comportamenti autoaggressivi. Paolo non si pone come un pensionato della psicosi, ma senza dubbio il suo compito è difficile, e la CT può forse aiutarlo, dopo avergli dato uno spazio vitale per sé, fornendogli uno spazio che potremmo chiamare transizionale, una "base" per verificare le sue effettive risorse senza rischiare troppo. Il rischio è quello che le capacità di tollerare il dolore e la frustrazione di Paolo siano ad un certo punto insufficienti.

Vediamo quindi che compaiono a partire dalla base costituita dalla residenza emotiva gli aspetti intermediari del processo terapeutico rappresentano una funzione importante nel procedere del trattamento, e cercheremo di approfondirli un poco.

 

La funzione intermediaria

Dato che il contesto della Comunità Terapeutica costella certi aspetti particolari della cura dei disturbi psicotici, può valere la pena di risalire in breve alle origini di quest’area di intermediarietà che è centrale nel modello di trattamento integrato; prenderemo quindi in breve in considerazione il suo sviluppo come funzione intermediaria nel trattamento, e finalmente cercheremo di approfondire le sue particolarità in CT.

Il concetto di oggetto intermediario, sebbene per certi aspetti ne sia un’estensione, deriva da tutta la ricerca sugli spazi transizionali, che porta con sé l’idea di uno spazio mentale e relazionale intermedio che favorisce lo sviluppo psichico e in particolare il passaggio da una fase ad un altra. I fenomeni transizionali sono stati descritti da D.W. Winnicott a partire dal 1951 (Winnicott 1953) e poi approfonditi nel corso degli anni. Il concetto è stato poi raccolto ampiamente dalla successiva pratica e teoria psicoanalitica soprattutto come esigenza di una gradualità nelle trasformazioni relative allo sviluppo psichico e al processo analitico, e ha contribuito notevolmente alla possibilità da parte della psicoanalisi di affrontare disturbi psichici più gravi.

Quando Winnicott introduce i fenomeni transizionali si riferisce sia al bambino, sia all’adulto che deve recuperare funzioni che non ha mai avuto o che ha temporaneamente perduto. Se guardiamo alle caratteristiche dell’oggetto transizionale come vengono descritte da Winnicott (1953) per la prima volta, possiamo fare alcune interessanti considerazioni. Vediamo la descrizione:

1. Il bambino assume diritti sull’oggetto e noi conveniamo su questo assunto. Tuttavia una qualche abrogazione dell’onnipotenza è una caratteristica fin dall’inizio.

2. L’oggetto è trattato con affetto, e al tempo stesso amato con eccitamento e mutilato.

3. Non deve mai cambiare, a meno che non venga cambiato dal bambino. Deve sopravvivere all’amore istintuale, ed anche all’odio, e se questo fosse una sua caratteristica, alla pura aggressività.

5. Al bambino deve sembrare tuttavia che l’oggetto dia calore, o che si muova, o che abbia un suo tessuto, o che faccia qualcosa che provi l’esistenza di una sua propria vitalità o realtà.

6. Proviene dall’esterno secondo il nostro punto di vista, ma non secondo quello del bambino. Né viene dall’interno; non è un’allucinazione.

7. Il suo destino è che gli venga gradualmente concesso di essere disinvestito di cariche, in modo tale che nel corso degli anni non venga tanto dimenticato quanto piuttosto, relegato nel limbo...

 

Sebbene questa descrizione iniziale sembri adattarsi più al bambino piccolo che al paziente psicotico, possiamo notare subito che viene messo in evidenza qualche cosa che sembra riguardarci direttamente: l’abrogazione, sia pure potenziale eppure reale nello stesso tempo, dell’onnipotenza; viene affermata cioè la possibilità di riconoscere qualche cosa di esterno/interno cui si è legati e con cui avere una relazione. Considereremmo questa posizione, tutto sommato, un buon punto di partenza per un ingresso in Comunità Terapeutica.

Successivamente sono stati messi in luce, anche da altri autori, diversi aspetti dell’area transizionale, che possono rappresentare qualche cosa di importante per tutti coloro che si prendono cura in modo continuativo, e soprattutto in un’ottica evolutiva, del paziente psicotico.

Winnicott stesso, qualche anno dopo: "ho introdotto il termini "oggetto transizionale" e "fenomeni transizionali" per designare l’area intermedia di esperienza tra il pollice e l’orsacchiotto, l’erotismo orale e la vera relazione di oggetto, l’attività primaria creativa e la proiezione di ciò che è già stato introiettato, l’inconsapevolezza primaria e "l’essere debitore" (Winnicott 1958, p. 276)

Questa definizione, più astratta, assomiglia di più a qualche cosa di utilizzabile: c’è l’idea di un passaggio, di una evoluzione, e di oggetti, o avvenimenti che favoriscono questo processo. Successivamente chi si è occupato di disturbi psicotici ha ampiamente utilizzato una prospettiva transizionale, magari con qualche cautela o modifica, o semplicemente usando una terminologia diversa.

Anche se secondo Fine (1979) il concetto di area intermediaria ha avuto meno successo di quello di oggetto intermediario, senza dubbio l’idea che nel trattamento delle psicosi sia necessaria una funzione facilitatoria per lo sviluppo di capacità perdute o mai acquisite è universalmente riconosciuta e viene comunemente utilizzato nella cura dei disturbi psichici gravi da coloro che si riferiscono a un modello di tipo psicodinamico.

Nella pratica psichiatrica italiana, che ha un orientamento spiccatamente territoriale, sia che si tratti della prospettiva riabilitativa che della quotidiana pratica terapeutica coi pazienti psicotici, gli elementi di intermediarietà sono fondamentali nei percorsi terapeutici e appartengono più allo spazio della relazione che a quello dell’istituzione.

Nella prospettiva del trattamento integrato il concetto di intermediarietà viene visto da diversi punti di vista, secondo la prospettiva multifocale che la pratica clinica impone.

Così l’intermediario è il traditore dell’onnipotenza psicotica, ma anche colui che fornisce la credenza, che viene definita: "Il non facile compito di cogliere i bisogni del paziente e fornirgli un senso di fiducia e di sicurezza sufficiente a permettergli di comunicare e di elaborare le sue angosce "(1992 p. 42).

Ancora, intermedio è lo spazio dell’illusione, che richiama direttamente Winnicott e lo spazio privato di Khan (Zapparoli 1992, p. 127)

Gislon affronta lo stesso problema da un altro punto di vista: parlando della possibilità di inglobare l’operatore nel delirio cita la possibilità che si stabilisca al confine tra parti psicotiche e parti libere una area ludica: "Quest’area ludica svolge cioè la funzione di un’area transizionale, nel senso descritto da Winnicott" (1988 p. 321). Sullo stesso argomento, anche Giovacchini (1986).

Infine il segreto, come "spazio segreto, territorio proprio del soggetto, dove sono conservati gli elementi della sua identificazione primaria" (Zapparoli 1987, p. 115-116) rappresenta "Un elemento clinico essenziale nel regolare la giusta distanza che possiamo mantenere con la fusione simbiotica del paziente, oltre ad essere il primo oggetto transizionale che lo psicotico è in grado di costruire e utilizzare per la rottura, o la riduzione, della fusione simbiotica" (Zapparoli, 1987 p. p.41). Lo spazio transizionale rappresenta appunto quell’area racchiusa tra il segreto, il tradimento del segreto e la credenza.

Tutti questi elementi sono in genere utili nel lavoro di comunità, e fanno parte della funzione transizionale del processo terapeutico.

Quando la persona arriva in Redancia questo spazio intermediario è solo virtuale, ma col tempo si fa più importante e necessario, nella prospettiva di un ritorno al luogo di origine, e dell’apprendere modi nuovi per mettersi in relazione con il mondo e con gli altri. Emerge allora l’individualità del paziente e l’individualità dei suoi bisogni. e anche la CT diventa ad un certo punto individuale, unica, per il paziente. Le Comunità a loro volta sono in genere piuttosto diverse le une dalla altre, e ognuna e a suo modo originale. Questo dipende in parte dalla storia individuale, e in parte dalla organizzazione terapeutica: sono fatte a misura non solo dei disturbi psichici che vogliono curare, ma anche delle persone che le hanno pensate e ci lavorano dentro. In parte però vengono "fabbricate" da coloro che ne sono ospiti, insieme a quelli che ci lavorano. Questa è esperienza comune nelle CT, e conferma ciò che abbiamo visto ha scritto Hinshelwood sulla relazione contenitrice terapeutica.

Le CT, infine, sono un’idea di malattia, ma anche di cura e di quelli che sono i valori umani più importanti. La comunità, proprio come lo psicoterapeuta, è essa stessa medicina e non può proporre nient’altro che se stessa, la sua cultura e più ancora le sue emozioni: in fin dei conti la sua umanità. Questo è ciò che viene dato al paziente; la tecnica, cioè la capacità professionale, viene prima, ed è fondamentale per sapere dare la medicina giusta al momento giusto.

In CT abbiamo poi altre particolarità, che sembrano legate a quell’aspetto concreto di casa che la rendono, come abbiamo visto prima, un luogo particolare e importante della relazione: la situazione più protetta permette di affrontare momenti più regrediti e potenziali dell’intermediarietà, e la possibilità di stabilire una residenza emotiva con altri pazienti e con gli operatori stessi permette un’organizzazione e una complessità delle esperienze emotive particolare. A questo punto, possiamo tornare per un momento alla definizione iniziale di Winnicott di oggetto transizionale (1953), e rivedendola alla luce degli altri strumenti clinici del modello di Zapparoli. Quando Winnicott dice che l’oggetto non deve mai cambiare, viene spontaneo il confronto con la necessità, iniziale, di trovare un terreno comune di relazione con il paziente basato sul rapporto col suo bisogno, che non è contrattabile, ma che bisogna accettare all’inizio come un veicolo di relazione, che si basa sul riconoscimento del bisogno che un’area di sicurezza venga ad esistere, venga riconosciuta e infine difesa.

Che l’oggetto debba in qualche modo sembrare vivo senza esserlo, rimanda alla posizione tra la relazione con un oggetto inanimato e uno vivente, che rappresenta la prima fondamentale distinzione nella relazione tra lo psicotico e i suoi curanti (e tutti gli altri). In CT questi aspetti di confine si fanno particolarmente visibili e importanti, perché forniscono un contenitore adeguato a fasi della relazione dove c’è una continua oscillazione tra la scelta di un oggetto più regredito e inanimato, e la possibilità di entrare in contatto con modalità più evolute ma per questo più angoscianti. Il compito dell’istituzione in queste fasi è quello di saper fornire il supporto adeguato, senza essere troppo ingombrante, sapendosi fare un poco da parte al momento giusto. La CT può fare questo solo se possiede caratteristiche di flessibilità tali da adattarsi a diverse posizioni in diversi momenti.

In definitiva si può dire che la Comunità Terapeutica è un luogo dove l’area intermedia è strumento importante; se la residenza emotiva è spazio, stabilità, accoglimento, contenitore, gli spazi intermediari sono il movimento, il percorso, il cambiamento.

 

Gli esclusi, la intermediarietà permanente

C’è però un ultimo punto che ci preme di mettere in evidenza. La possibilità da parte della CT di funzionare come oggetto intermediario, è basata anche sul ruolo e sull’importanza della rete di assistenza: è proprio questa che permette alla CT di svolgere la sua funzione di trasformazione senza essere l’inizio e la fine della terapia, e quindi della speranza.

La Comunità Terapeutica può essere spazio transizionale, o oggetto intermediario del percorso terapeutico, solo se esistono e resistono i termini della transizione: questi sono l’esterno, il passato con i suoi fallimenti e il futuro con le sue speranze; ma se il passato è costantemente presente, e spinge ad andare avanti, il futuro deve essere costantemente testimoniato e sostenuto, e la delega non può e non deve essere totale. Senza di ciò, non importa quanto la CT sia piccola o grande, sia pulita o sporca, sia insomma bella o brutta, diventa per il paziente un’istituzione totale.

Tuttavia chiunque abbia esperienza di pazienti psicotici sa che questo discorso, quando è generalizzato, finisce per odorare vistosamente di utopia e di ideologia; nella realtà vediamo spesso che la trasformazione dei bisogni è un passaggio critico, e non è vero che tutti la realizzino. Anzi, parecchi non lo fanno, o non lo fanno per molti anni, e non è affatto chiaro all’inizio chi sarà in grado di farlo.

È successo invece, e succede, che Redancia sia stata scelta esplicitamente come "casa", come approdo finale, nei termini in cui lo si diceva prima; succede a volte in modo esplicito, a volte in modo implicito, a volte lo si scopre bruscamente grazie ad un agito del paziente stesso.

Questi pazienti, cui ci affezioniamo, e che sembrano essere i "fallimenti" della terapia comunitaria, (anche se magari in cuor nostro pensiamo che non era possibile fare di meglio), ci riportano in realtà alla tensione fondamentale che si crea tra il fornire una prestazione e il riconoscere che questa non corrisponde alle necessità di quei particolari pazienti; ma ci riporta anche alla tensione che c’è tra il riconoscere che il paziente ha scelto l’istituzione e la necessità comunque della testimonianza dell’esistenza dell’esterno, perché gli sia possibile scegliere.

Questo punto è cruciale, e facile a essere perduto o frainteso. C’è un salto fondamentale tra il paziente che resta come un residuo di un fallimento sociale e terapeutico, dimentico e dimenticato, e la persona che sceglie, ad un qualche bivio della sua strada, di non abbandonare la sua "residenza emotiva" che lo ha aiutato e gli è fondamentale per sopravvivere. La differenza è fondamentale, e noi operatori psichiatrici dovremmo averla ben chiara, quando abbiamo a che fare con queste situazioni.

In questi casi è la comunità stessa a farsi progetto rispetto ad essi, e diventa "costantemente" intermedia. A volte, comunque, è possibile una trasformazione del bisogno di appartenenza, che può diventare meno concreto e passare, dalla appartenenza ai muri, a quella del progetto terapeutico con un guadagno sul piano dell’autonomia. Questa esigenza è ben visibile in Redancia, che infatti cerca di organizzarsi per fornire diversi livelli di protezione, dalla struttura "molto protetta", alla cooperativa di lavoro. In altri casi, come nel caso di Pino, il lavoro compiuto è una lunga storia di malattia (Cerati 1993) e la CT è il luogo della pensione, che sostiene i suoi fragili meccanismi di difesa dalla catastrofe psichica ed esistenziale.

Questo blocco all’evoluzione del percorso terapeutico, se lo guardiamo con gli occhi rivolti all’asse casa-lavoro o le competenze sociali, vero o falso che sia, momentaneo o definitivo, rappresenta un momento di scacco, e spinge a cercare l’errore alla base del fallimento (la scelta del paziente, o della terapia per esempio). Accanto a questa prospettiva, su cui peraltro si basa la crescita della comunità stessa, noi poniamo anche il punto di vista del paziente, che implica la capacità di riconoscere i limiti nella situazione, e sottolinea l’importanza della ricerca del percorso, a questo punto non solo terapeutico ma anche esistenziale, migliore. Soprattutto questa prospettiva lega saldamente il "fuori" al percorso del paziente . Il "Fuori" deve essere presente, per testimoniare la scelta e il confronto con essa. È solo il caso di ricordare che le "scelte di vita" dello psicotico non devono essere considerate diverse dalle nostre, che raramente consideriamo definitive.

 

Conclusioni

Abbiamo visto che nella terapia comunitaria, comunque sia organizzata gioca un ruolo importante nel processo terapeutico una funzione intermedia che si realizza in un ambiente emotivo sufficientemente saldo, che fa da casa e da contenitore.

Questo ambiente ha certe caratteristiche che sono più concrete e altre che lo sono meno: la casa per esempio, come luogo fisico e come attività quotidiana fatta di pulizia, manutenzione, ma anche compiti quotidiani e impegni presi con tutti colorii ospiti e operatori che vi vivono e vi lavorano.

Tra quelli meno "concreti", ma altrettanto vivi e importanti ci sono le relazioni: tra gli ospiti e con l’équipe, che è il veicolo e la testimonianza del "fuori" e della normalità della relazione umana, con tutti i suoi diversi aspetti, che entrano in gioco in ogni momento della vita di Comunità.

Si tratta comunque di aspetti intermedi: interni alla comunità, perché l’équipe deve sapere giocare con lo stesso paziente ruoli diversi in momenti diversi e al momento giusto. Ma anche intermediari esterni, come abbiamo visto; in pratica la rete di psichiatria comunitaria, che è un elemento fondamentale discriminante nel distinguere tra una CT e un manicomio. In Redancia si vede bene che la presenza di una rete di assistenza esterna efficace è il miglior elemento predittivo di un possibile reinserimento; forse perché riflette le aspettative dei curanti, un fattore prognostico importante (Ciompi 1984). E abbiamo visto che questo è altrettanto vero per i pazienti per i quali siamo ottimisti quanto per quelli che sfidano di più le nostre velleità terapeutiche.

Infine un altro compito della Comunità Terapeutica è di essere intermedia, soprattutto nella vita del paziente psicotico: tra un passato di fallimenti e il futuro, per quanto incerto; tra la dipendenza e la costrizione, estreme nell’ospedale, e l’autonomia, difficile e incerta; tra la malattia e la desiderata guarigione. Il suo compito è sopportare e curare con questo suo talento raccogliendo su di sé la responsabilità di condividere le scelte e i percorsi con i suoi ospiti.

 

 

 

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