GRUPPI TERAPEUTICI PER PICCOLI BAMBINI
di Dorella Scarponi (Clinica Pediatrica, Università di Bologna)
Al paziente pediatrico, quasi sempre minore, le informazioni rispetto alla malattia, giungono selezionate, concordate con le figure mediche di riferimento, a tutela della sua salute psichica, secondo l'equivalenza : non sapere la verità equivale ad verità più benevola. Il bambino deve farsi curare, deve rispettare le regole. Non a caso i bambini più piccoli, dopo ripetute esperienze di ricovero, soprattutto nelle fasi di recidiva di malattia, si disegnano completamente trasparenti, già senza capelli, come attraversati dagli eventi .
All'esperienza nuova di sofferenza i bambini più piccoli tentano di reagire con numerose crisi di rabbia ;si rifiutano di giocare, interrompono il normale flusso vitale che li unisce ai fratelli. Inventano, insieme ai genitori, nomi buffi da dare alla malattia, compromessi fantasiosi che perdono la loro utilità se nel tempo non sono soggetti a rivisitazione comunicativa. L'angoscia è quella relativa all'abbandono, all'essere lasciati cadere in mondi sconosciuti da soli o in compagnia di defunti visti solo in fotografia .
L'adolescente tace, invece, tutta la sua paura di morte ed esaspera difese sofisticate - la razionalizzazione, l'intellettualizzazione, la sublimazione- intorno a segnali di sofferenza psicologica grave .
Il non detto via via satura ogni spazio di relazione. Alla domanda: " Che cosa ho?" pochi sono gli adulti, genitori e operatori, disponibili a dare risposte adeguate alla capacità del paziente a capire.
Prevale l'idea che dire parole definitive, come una corretta diagnosi, equivalga a dotare di realtà la malattia, come se il silenzio autorizzasse la creazione di aree di illusione o di onnipotenza.
Bene è stata accettata dai pazienti la proposta di partecipare a gruppi ( di lavoro, di pensiero, di gioco, di terapia) condotti da un terapeuta, con la finalità di creare opportunità di comunicazione e confronto intorno a temi sofferti come quello della scelta terapeutica, dell'alleanza di fronte alla cura, della paura e del dolore. Pensiamo non solo alle ripercussioni che ha la comunicazione della diagnosi al paziente e alla sua famiglia da parte del medico, ma anche al lavoro di ridefinizione continua, dentro ogni piccolo bambino, delle comunicazioni implicite durante le diverse fasi della malattia, soprattutto nei momenti di crisi come la recidiva di malattia, il trapianto di cellule staminali emopoietiche, la fase terminale.
L'intento, nell'occuparsi di bambini in gruppo, è quello di far circolare una maggiore comunicazione. Permettendo alle emozioni taciute di trovare una collocazione, attraverso uno stato di condivisione col terapeuta e col gruppo dei pari si riesce a coltivare, autenticamente, la disponibilità di ognuno alla speranza, non solo rispetto alla possibilità di guarigione ma più in generale a quella di essere accuditi.
IL DOLORE CHE SI PUO' RACCONTARE
Il resoconto di un'esperienza
I gruppi terapeutici coi piccoli bambini sono molto indicativi della loro capacità di capire.
Tutti seguiti individualmente, a livello psicologico, durante le prime fasi della malattia, una volta iniziata la terapia di consolidamento, i pazienti vengono selezionati per poter essere inseriti in piccoli gruppi. Della durata di un’ora circa, si svolgono, una volta la settimana, nella stanza del Day Hospital.
Immersi in un ambiente dove i tempi dei contatti con gli operatori sono veloci ma le attese eterne, più gruppi si susseguono nel tempo. La frequenza ai gruppi è condizionata dalla provenienza dei pazienti dal centro-sud dell'Italia e dalla possibilità di ricoveri intercorrenti dei pazienti per le fasi di aplasia midollare.
Il primo gruppo, semi-aperto, è partito con un numero di 5 pazienti, è durato 12 incontri ed è terminato con le dimissioni dal regime di DH dei pazienti per le feste di Natale.
L'intero gruppo ha risentito ogni volta della vivacità di uno dei pazienti, di 10 anni, al quale piace assumere il ruolo di leader raccontando delle sue avventure fuori di qua. Lo guardano tutti estasiati, anche la ragazza più grande di lui, immobile sulla sedia . L, suo coetaneo, non regge il contatto del gruppo e vi rinuncia dopo il primo incontro. L. appartiene ad una famiglia in cui della malattia non si parla mai e dove l'unico intervento esterno tollerato è quello dell'insegnante. F. e I. sono attenti e taciturni ma sorridono alle battute divertenti dell'eroe. Via via che il gruppo procede tutti partecipano più attivamente sia nelle produzioni pittoriche che nello scambio della comunicazione verbale. Ogni volta che qualcuno di loro viene chiamato fuori, per un prelievo o per una visita, quelli che restano ipotizzano il tipo di intervento.
Quando il numero dei partecipanti si fa più piccolo, 3 o 2, la comunicazione diventa più intima e si parla di dolore e di sentimenti. La volta in cui si sono trovati in 3, F., I., C., quasi coetanei, hanno cominciato a parlare di manovre dolorose. C. si deve sottoporre proprio oggi alla puntura lombare e ha assunto già un ansiolitico. Comincia a parlare in maniera più rallentata ma vuole rimanere con noi. Disegna nel frattempo mostri spaventosi e chiede anche a me di farne; lui li aggredisce e li cancella con la penna .
Ci racconta cosa fa per evitare il troppo dolore: urla per non sentirlo, I. si concentra pensando ad altro, F. invece non urla più.
Quando, durante il gruppo, la mamma di C. viene dentro a chiamarlo, chiede se tocca proprio a lui.
Gli altri continuano a lavorare mentre gli dico che lo avremmo aspettato e gli avremmo lasciato il posto coi suoi disegni. Dopo la manovra la mamma di C. torna dentro, scusandosi, ma C. deve dirmi una cosa. Sul letto con gli occhi socchiusi mi dice: "Stavolta non ho urlato! E' la prima volta!". Gli dico che è stato molto coraggioso. Accenno all'ipotesi che, forse, ci ha parlato talmente tanto e in maniera così chiara di come urla quando ha male che non ha avuto più niente da urlare durante la puntura. "Deve essere così…adesso dormo un po’".
Nel piccolo gruppo riporto il racconto di C. Sono tranquillizzati dal fatto che sia andato tutto bene.
Durante l'ultima seduta di questo gruppo siamo in tre. Sappiamo che ci saluteremo.
Nel penultimo incontro F. aveva sfoggiato un bel completo colorato con tanti toni di verde e il gruppo lo aveva notato. I., in quella occasione, aveva lasciato incompiuto un disegno perché lo riteneva brutto. F. si era proposto di terminarlo . C'erano delle casette, senza tetto né finestre. F., visto che sarebbe tornato a casa, per tutto il tempo ci aveva raccontato di suo fratello, degli amici di scuola, del desiderio di fare, da grande, il pastore. I. lo guardava nostalgico: non capiva la sua voglia di tornare a scuola e con sua sorella aveva troppi problemi in sospeso.
Oggi, mentre F. è già seduto intorno al tavolo, I. entra accompagnato dalla madre. Noto subito che ha un vestito nuovo, non più blu, come di solito, ma verde, verde bosco.
La madre racconta che lo ha dovuto accontentare in questo acquisto, ieri pomeriggio.
Lo dico che oggi si assomigliano un po’.
È contento, finalmente si sente uguale a qualcuno. Insieme a F. cominciano a disegnare. I. ci dice di cosa lo fa arrabbiare, come a continuare il discorso rimasto in sospeso l'ultima volta. F. si diverte quando si arrabbia, comunque per entrambi sembra essere un sentimento dicibile.
Il gruppo dura un po’ di più. Quando lo interrompo siamo rimasti gli ultimi in Day Hospital. Ci salutiamo con un abbraccio. Guardo il colore della loro pelle, così diversa, e quello stesso colore verde bosco dei vestiti….