CRITERI PSICOPATOLOGICI E CLINICI NELLA DIAGNOSI DI SCHIZOFRENIA

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22 dicembre, 2012 - 15:02

di Eugenio Borgna, M.T.Ferla, Chiara Guglielmetti
(Servizio di Psichiatria, Azienda Ospedaliera "Maggiore della Carità", Novara)

Premessa

Definizioni come queste: tipico e atipico nel contesto della schizofrenia, sono (sottintendono) modelli conciliabili fra loro, o inconciliabili e incompatibili? E ancora: psicopatologia e clinica sono categorie interscambiabili, o qualcosa le distingue e le separa radicalmente?

Non sono domande oziose, o sofisticate, queste, ma sono domande decisive ed essenziali in ordine alla concettualizzazione della schizofrenia e alla ricerca delle sue (possibili) fondazioni e delle sue (diverse) strategie terapeutiche.

Ovviamente, quando ci si confronta con problemi complessi e brucianti, la tentazione è anche quella di annacquare le differenze (le distinzioni), facendo di ogni erba un fascio, o ricorrendo al solito refrain della integrazione dei modelli: cosa che è non di rado importante, ma che può sconfinare nella inerzia e nella passività.

Come è possibile rispondere alle domande che ci siamo posti? Temiamo che non si possa non scegliere fra l'essere clinici e l'essere psicopatologi; o, meglio, il problema è questo: si deve essere consapevoli del fatto che, in psichiatria, il metodo conoscitivo, che presiede alla clinica, è diverso da quello che sta a fondamento della psicopatologia. Sicché, è possibile passare da un piano all'altro: ma nella consapevolezza della distinzione dei piani conoscitivi.

La clinica coglie, le macromolecole di una sintomatologia psicotica o neurotica; la psicopatologia coglie invece lemicromolecole delle fenomenologie psicotica o neurotica. La clinica, in psichiatria, si serve dello sguardo freddo e distanziante delle scienze naturali, della medicina che ne fa parte; la psicopatologia si serve, invece, della immedesimazione e della introspezione che sono emblematici strumenti conoscitivi delle scienze umane. Già in questa contrapposizione si delinea, del resto, la natura dilemmatica della psichiatria: il suo volto di Giano: il suo essere scienza naturale e il suo essere scienza umana; il suo scivolare dall'una all'altra: nel cambiamento del suo oggetto (1,2).

 

 

La psicopatologia non è la clinica

Come ha scritto Karl Jaspers (3), la psichiatria clinica e la psicopatologia si distinguono essenzialmente per questa ragione: la prima è una prassi, una modalità di conoscenza pratica (unaKennerschaft come l'ha definita Klaus Conrad) (4), che si confronta con la psicopatologia e la somatologia che costituiscono invece discipline scientifiche: subordinate, cioè, ai criteri che modulano le scienze umane (la psicopatologia) e le scienze naturali (la somatologia). In ogni caso, anche al di là di distinzioni e di disgiunzioni di questa natura, il modello di conoscenza e le risultanze conoscitive della psichiatria clinica si differenziano profondamente da quelli della psicopatologia. La questione, e la esigenza, si realizzano in una prospettiva che, senza trionfalizzare enfaticamente e dogmaticamente psichiatria clinica o psicopatologia (e somatologia), sia consapevole fino in fondo delle diverse forme di conoscenza e delle diverse conseguenze non solo terapeutiche ma anche epistemologiche che stanno a fondamento dell'una e delle altre articolazioni costitutive della psichiatria tout court.

Questa distinzione di linee conoscitive e applicative si riflette, del resto, sulla questione della tipicità e della atipicità della patologia schizofrenica: della fenomenologia schizofrenica; nel senso che una modalità di conoscenza elettivamente clinica (pratica e oggettivante) tende a cogliere ciò che c'è di comune, e cioè di tipico, nel contesto camaleontico delle espressioni (dei sintomi) della schizofrenia; mentre una modalità di conoscenza essenzialmente psicopatologica, indirizzata a cogliere gli elementi micromolecolari di una patologia, tende a fare riemergere ciò che c'è di mutevole, ditrasformabile, di friabile, e cioè di a-tipico, nella forma di vita psicotica (schizofrenica).

Certo, nel fare-psichiatria è necessario confrontarci con le emergenze sintomatologiche delle esperienze psicotiche cercando di sottrarsi alle spirali e agli artigli della ideologia che ci fanno perdere il senso preciso, reale, concreto, problematico e ambiguo ma, comunque, concretizzabile e delineabile della psichiatria. Solo ri-flettendo, e mettendo fra parentesi ogni ovvietà (5) del discorso, si fa una psichiatria rigorosa.

 

 

L'orizzonte di conoscenze della psichiatria clinica

Il grande magistero di Emil Kraepelin (6) si è sempre svolto lungo la linea univoca e radicalizzata della clinica: della psichiatria clinica come parametro esclusivo e assiomatico (ma problematico, ovviamente, all'interno delle conoscenze degli elementi sintomatologici in gioco) al fine di fare diagnosi di schizofrenia.

Come si sa, nel suo gigantesco lavoro di sintesi (di ricapitolazione di schegge sintomatologiche che, prima di lui, laceravano la configurazione clinica della schizofrenia in molteplici sindromi), Emil Kraepelin ha sostenuto come la conoscenza in psichiatria si snoda lungo il semplice e omogeneo sentiero della osservazione e della descrizione dei modi di comportarsi e dei modi di apparire dei pazienti e dei sintomi in cui la sofferenza psichica si manifesta: al di là e al di fuori di ogni riflessione e di ogni attenzione ai contenuti interiori, ai vissuti, dei pazienti e ai significati (alle connotazioni simboliche) dei sintomi psicotici. Sulla base di queste modalità di osservazione ab externo e di questa ricerca di tipologie comuni in sindromi cliniche (apparentemente) scheggiate e atipiche, Kraepelin ha delineata la definizione stessa di dementia praecox come emblema univoco di ogni esperienza psicotica.

I criteri clinici, applicati allo studio e alla analisi di quelle che oggi chiamiamo schizofrenia e che, appunto, Kraepelin ha chiamato dementia praecox, hanno consentito al grande psichiatra tedesco di raccogliere e di unificare in una sola condizione morbosa, sia pure articolata e suddivisa in tre sindromi cliniche, le molteplici forme morbose solo apparentemente autonome. Ma, nel fare questo, e nel tematizzare la tipicità (gli elementi comuni) della malattia e nel riconoscerla nel suo decorso e nella sua sintomatologia macroscopica (macromolecolare, direi), Kraepelin è rimasto estraneo all'arcipelago infinito della vita interiore, della interiorità, dei pazienti, alle loro esperienze vissute: senza le quali non può esistere, invece, psicopatologia che si è liquefatta nel solco di parametri meramente clinici. Alla vita interiore dei pazienti, alle loro espressioni psicologiche ed emozionali, egli non dava alcuna importanza: considerandole del tutto inattendibili. Inutile, allora, ascoltare i pazienti, cercare di cogliere quello che si muove nella loro interiorità, cercare di rendere dialettico ogni sintomo psicotico: correlandolo, e confrontandolo, con il modo (con il loro senso) con cui ogni sintomo è vissuto da ciascun paziente.

Il criterio clinico è considerato, così, come impegno radicalizzato e assolutizzato ad analizzare e a osservare come abbiano a comportarsi i pazienti e quale sia la consistenza, e la fisionomia, dei sintomi macroscopici (come vorrei, appunto, definirli): dei sintomi correlati con i deliri e le allucinazioni, con i disturbi della psicomotricità e del linguaggio che sono sintomi evidenti e visibili a ogni osservatore dotato, certo, della facoltà di descrizione e di serializzazione delle diverse sequenze sintomatologiche.

Il criterio clinico è finalizzato, del resto, a cancellare, a oltrepassare e a escludere ogni variante che interferisca, e sia in collisione, con questo disegno diagnostico (cartesiano, matematico, geometrico) che giunge a tematizzare e a rendere immobile ogni (possibile) camaleontica variabilità dei sintomi: a inchiodare, insomma, ciò che costituisce la tipicità, la dimensione ne varietur della malattia schizofrenica.

Nell'orizzonte kraepeliano del discorso, dunque, la psichiatria clinica tende a cogliere e a indicare gli elementiimmobili della sintomatologia schizofrenica: ripetibili di caso in caso.

Così intesa e delineata, la schizofrenia si trasforma in una malattia, in una realtà clinica, che segue sue proprie leggi naturali: insensibile, dolorosamente insensibile a qualsiasi articolazione, a qualsiasi sollecitazione, ambientale e interpersonale, psicoterapeutica e socioterapeutica. Si capisce, allora, come mai, se la schizofrenia abbia a seguire sue proprie fatali (implacabili) destinazioni naturali, non serve a nulla conoscere e analizzare cosa i pazienti vivano e provino nella loro soggettività, e quali significati essi attribuiscano ai sintomi: ai modi psicotici di scandagliare e di interpretare la realtà in cui sono immersi.

Se la schizofrenia non è se non il coagulare di sintomi e di andamenti evolutivi che abbia a cancellare, e a riassorbire, ogni differenza e ogni distinzione, se esiste un solo modo di essere schizofrenici, e non invece modi diversi di vivere una esperienza schizofrenica, ogni atipicità (ogni sostanziale variabilità dei sintomi e dei decorsi) scomparirebbe; non configurandosi se non un solo modellodi Lebenswelt schizofrenica: una sua costante e radicale tipicità.

Nella psichiatria clinica postkraepeliniana le cose sono cambiate: nel senso che, alla tipicità della sintomatologia psicotica (schizofrenica) contrassegnata dalle grandi costellazioni sindromiche (deliranti, allucinatorie, comportamentali, psicomotorie), si è aggiunta una prospettiva diversa in ordine al decorso, e cioè alle forme di decorso, della esperienza schizofrenica. Mentre nella prospettiva kraepeliniana il decorso della dementia praecox veniva considerato univocamente rettilineo e prefissato lungo binari fatali e irreversibili a cui non era possibile sfuggire (benché Kraepelin non escludesse la possibilità di un decorso diverso e reversibile in alcunesituazioni cliniche), oggi le ricerche catamnestiche di Manfred Bleuler (7) in particolare ma anche quelle di Luc Ciompi e Christian Müller (8) e di altri autori hanno dimostrato come, anche all'interno dei criteri diagnostici proposti da Kraepelin, non ci sia una sola modalità di decorso ma diverse modalità di decorso. Sicché, la tipicità (ciò che c'è di tipico) nella Lebenswelt schizofrenica non può essere ancorata alla forma del decorso se non lungo linee tendenziali, e non certo univoche e obbligate.

Anche nel contesto di una impostazione kraepeliniana, insomma, la tipicità può essere ritrovata nellasintomatologia, nella aggregazione sintomatologica, ma non nel decorso unidimensionale.

Ci sono decorsi (forme di decorso) ovviamente più frequenti e altri meno frequenti, ci sono decorsi striscianti e nucleari (paradigmatici) e ci sono decorsi periferici, satelliti, ci sono insomma decorsi che si avvicinano alla "tipicità" indicata da Kraepelin e decorsi che da esse si allontanano. Ci sono forme di esordio che tumultuosamente si risolvono in tempi anche molto brevi, e forme di esordio scolorite e, come si sa (9), prognosticamente negative.

Il criterio clinico, fondato esclusivamente sul decorso (sulla evoluzione longitudinale) della sintomatologia psicotica, e quello diagnostico correlato, entrano così in crisi nel momento in cui già l'osservazione clinica dimostra nella galassia schizofrenica la presenza di camaleontiche, e variabili, forme di andamento.

In ogni caso, la individuazione (la delimitazione) di andamenti più o meno tipici, e più o meno atipici, trascina con sè radicali implicazioni terapeutiche. Queste cambiano, ovviamente, in relazione alle forme di esordio e alle forme di evoluzione.

Insomma, la tipicità nel decorso si fa problematica nella misura in cui la ricerca catamnestica ne dimostra la variabilità.

 

 

L'orizzonte di conoscenze della psicopatologia

Gli scenari sembrano cambiare quando si abbia a che fare con la psicopatologia, con l'indagine psicopatologica, che è indirizzata a cogliere le costellazioni micromolecolari, i contenuti di ogni singola funzione psichica, scendendo lungo i sentieri frastagliati e segmentati della vita interiore (della soggettività) dell'altro-da-noi confrontata con la nostra soggettività.

Quando Eugen Bleuler (10) ha introdotto il termine di schizofrenia, sostituendolo a quello di dementia praecox, ha spostato radicalmente e vertiginosamente l'asse della conoscenza e della denominazione della forma morbosa dal piano di una esperienza psicotica, che si riconosca e si costituisca utilizzando criteri clinici,a una esperienza psicotica che si abbia a definire e a diagnosticare mediante criteri non clinici (comportamentali ed esteriori) ma, appunto, psicopatologici (interiori e immedesimativi). Non solo: parlando di schizofrenia, Eugen Bleuler ha inteso sottolineare la sindromaticità degli elementi sintomatologici, che contrassegnano la ragione d'essere di questa, che è l'esperienza psicotica par excellence, e l'importanza della dissociazione (sintomo micromolecolare) nel farne diagnosi.

Nel solco delle grandi analisi bleuleriane e jasperiane si è, così, indotti a sottolineare come la descrizione e l'analisi, e cioè la conoscenza, non siano possibili in psicopatologia senza la partecipazione radicale della soggettività del medico alla soggettività del paziente. Non c'è una modalità astratta e impersonale, in psicopatologia, ma in essa ogni forma di conoscenza è implacabilmente implicata e immersa in una circolarità ermeneutica che trascini con sè la interiorità (la soggettività) del paziente e la soggettività (la interiorità) del medico. Non c'è, dunque, possibilità di conoscenza in psicopatologia, non c'è captazione possibile degli orizzonti infiniti che fanno da sfondo ai sintomi (ai fenomeni), che possano fare a meno delle connessioni radicali con l'area sfuggente e problematica, ma essenziale, della intersoggettività.

Non è possibile fare della psicopatologia, non è possibile sondare i modi di vivere e di ri-vivere (le cose e le situazioni) da parte dei pazienti se non si rinuncia a ogni atteggiamento di neutralità, di fredda e gelida scientificità, di fronte a loro, e se non ci si serve della intuizione e della immedesimazione.

Ancora: solo mettendo fra parentesi ogni impostazione ideologica, ogni teoria che si sovrapponga come un diaframma impenetrabile alle realtà umane (normali o patologiche), solo muovendo dalle esperienze vissute dai pazienti e mettendoci dalla parte dei pazienti mediante una conoscenza che si abbia ad alimentare, appunto, di immedesimazione e di intuizione, è possibile cogliere le dimensioni e le interne articolazioni della vita psichica e il sensoche da essa, di volta in volta e di situazione in situazione, riemerga: frastagliato e straziante, doloroso e opaco, silenzioso e nostalgico.

Una psichiatria, che faccia a meno delle labili sonde della psicopatologia, delle sonde che abbiano a fare lievitare le stratificazioni magmatiche delle emozioni, si trasforma, o rischia di trasformarsi, in una meccanica applicazione di metodologie meramente cliniche incentrate sui comportamenti e sui modi di essere esteriori dei pazienti: come si è già sottolineato, del resto, nelle pagine precedenti.

Qualche osservazione ancora su questo tema e su questi aspetti del discorso.

La psicopatologia, la decifrazione dei segni dotati di senso, consente una conoscenza più radicale e più profonda dei modi di essere di ogni esperienza neurotica e di ogni esperienza psicotica, e consente anche di riconoscere le differenze categoriali che separano le esperienze neurotiche da quelle psicotiche: tematizzando ciascuna di esse nei suoi contenuti e nelle sue articolazioni formali che rimandano alle radicali epistemologie jasperiane (3).

La psicopatologia si riflette anche nei modi con cui la diagnosi, in psichiatria, abbia a essere rifunzionalizzata. Solo nella ricerca degli elementi psicopatologici, che la costituiscono, la diagnosi riassume una sua emblematica significazione dialettica e dialogica che nasce e si continua fra paziente e medico: nel contesto di una relazione interpersonale, di una rifondazione intersoggettiva della relazione, che sfugga a ogni reificazione e a ogni negazione del senso e che non rinunci mai alla intuizione e alla immedesimazione come strumenti essenziali di conoscenza. Ma la psicopatologia consente infine di realizzare una farmacopsichiatria che si indirizzi selettivamente alle singole sindromi psicopatologico-cliniche.

Ma a quali risultanze, a quali contenuti e a quali modi di essere psicotici ( e neurotici), in particolare a quali modi di essere schizofrenici, giunge una indagine psicopatologica che analizzi, dunque, le diverse funzioni psichiche nelle loro articolazioni modali e tematiche?

Ovviamente, non ci è possibile se non svolgere un discorso di sintesi e di ricapitolazione critica: alcuni sintomi guida della schizofrenia, come l'autismo (considerato sintomo fondamentale da Eugen Bleuler) (10), la dissociazione, le modificazioni della esperienza dell'io (riguardate da Kurt Schneider come strutture portanti di ogni fenomenologia schizofrenica) (11), come anche le modificazioni della esperienza del tempo e dello spazio così magistralmente analizzate nei lavori di Hubertus Tellenbach (12), e come del resto le diverse modalità di rivivere affettivamente le situazioni e gli eventi vitali, sfuggono fatalmente ai criteri conoscitivi rigidamente clinici e si rivelano invece ai criteri conoscitivi psicopatologici. Solo, infatti, con la rivoluzione copernicana che Karl Jaspers (3) ha introdotto in psichiatria sottolineando l'importanza decisiva della soggettività nel conoscere e nel fare-diagnosi, questi sintomi sono riemersi nella loro fenomenologia.

I criteri psicopatologici di analisi di una forma di vita (di unaLebensform) schizofrenica conducono alla valutazione e alla delimitazione di sindromi e non già di malattie; ed è ciò, che è avvenuto, nel momento in cui dal termine di dementia praecox si è slittati in quello di schizofrenia nel senso di Eugen Bleuler. (La valutazione del decorso di una esperienza psicotica, o neurotica, rientra invece nei criteri di captazione e di delimitazione non della psicopatologia ma, ovviamente, della psichiatria clinica; e già questo significa che il giudizio diagnostico e prognostico complessivo non può configurarsi se non sulla base di una integrazione e di una aggregazione dialettica dei criteri clinici e di quelli psicopatologici: non essendo giustificata una escalation trionfalistica ed enfatizzata che abbia a privilegiare gli uni o gli altri criteri di analisi e di valutazione).

Certo, lo slittamento dal conoscere clinico a quellopsicopatologico trascina con sè un indebolimento degli elementi ditipicità e un accrescimento di quelli di atipicità; nel senso che la connotazione clinica dei modi di insorgere e di evolversi di ciascuna esperienza schizofrenica, benché non sempre univoci e omogenei, ha in sè una Gestalt e una impronta di alta pregnanza; e questo fino al punto che alcuni autori, come Henri Ey (13) che ha svolto lavori di straordinaria significazione psicopatologica e clinica, hanno sostenuto che la natura e la ragione d'essere della schizofrenia si possono fondare e giustificare solo nella misura in cui si tenga presente (kraepelinianamente, del resto) la evoluzione della forma morbosa: la sua scansione implacabile e fatale. Cosa che non è, oggi, accettabile ovviamente; anche se non è possibile negare che alcune delle forme di vita schizofreniche mantengano, al di la di ogni strategia terapeutica e riabilitativa, la tendenza a una evoluzione inafferrabile.

In ogni caso, l'analisi del decorso consente di cogliere meglio quello che c'è di tipico in una esperienza schizofrenica; meglio che non una analisi fondata sulle aggregazioni psicopatologiche: nelle quali l'oscillare fra tipico e atipico si fa molto più significativo.

Una ultima cosa; e anche questa induce a ritenere che non sono possibili assolutizzazioni, in psichiatria, ma che è invece necessaria una alta coscienza critica della relativizzazione delle cose. La considerazione psicopatologica, anche se più fragile e più sfuggente che non quella clinica, consente di riguardare l'esperienza schizofrenica nella sua dimensione dilemmatica: nel senso che essa, alla luce della psicopatologia, si svolge e si viene articolando come una forma di vita a volte intensa, drammatica e radicale, ma a volte come una forma di vita sfumata, sfibrata e oscillante: molto più vicina, cioè, a una esperienza che possa fare parte, sia pure solo virtualmente (sul virtuale vorremmo rinviare al bellissimo libro di Pierre Levy) (14), della condizione umana. Intendiamo richiamarci nel dire questo alla tesi suggestiva di Asmus Finzen (9) che ha prospettato l'esistenza di uno spettro (di un potenziale) schizofrenico, in senso psicopatologico ovviamente, che da gradienti normali, o schizotimici (rinasce, qui, il discorso ancora attuale e affascinante di Ernst Kretschmer) (15), si sposterebbe poi lungo sequenze variabili e zigzaganti verso gradienti di schizofrenicità (come intendeva dire, nei suoi lavori smaglianti e indimenticabili, Ferdinando Barison) (16-18) scompensata e radicalmente psicotica.

La conclusione

Il senso dialettico (ci auguriamo che sia interpretato così) del nostro discorso si riassume, e si conclude, nella affermazione, o almeno nella considerazione, che le conoscenze, a cui si giunge con l'applicazione di criteri clinici e di criteri psicopatologici, sono diverse e cambiano nella misura in cui ci si serva, nell'analisi sintomatologica della patologia schizofrenica, degli uni o degli altri. I criteri clinici fanno riemergere con più drastica evidenza quelli che sono gli elementi tipici, ma incrinati in ogni caso anche da elementi atipici; mentre i criteri psicopatologici, indirizzati a cogliere i modi di essere, e di rivivere le esperienze vissute, della schizofrenicità, fanno riemergere costellazioni sintomatologiche oscillanti e camaleontiche che definiscono, o tendono a connotare, quelli che sono gli elementi atipici della schizofrenicità.

Nel corso del lavoro questi temi sono sviluppati contestualmente alla esigenza, e alla riaffermazione, che solo da una confrontazione e da una integrazione, da una reciproca valutazione, dei criteri clinici e psicopatologici, degli elementi tipicie atipici, si possa giungere a una più articolata comprensione della realtà e della ragione d'essere evolutiva, ma anche terapeutica, della schizofrenia.La psicopatologia tende a essere, oggi, come ancora ha sostenuto Ferdinando Barison, ermeneutica: decifrazione dei segni più che non dei sintomi.

 

 

 

1. Borgna E. Come se finisse il mondo. Il senso dell'esperienza schizofrenica. Milano: Feltrinelli,1995.

2. Borgna E. Le figure dell'ansia. Milano: Feltrinelli,1997.

3. Jaspers K. Allgemeine Psychopathologie.Berlin-Göttingen-Heidelberg: Springer, 1959.

4. Conrad K. Die beginnende Schizophrenie. Stuttgart: Thieme,1966.

5. Blankenburg W. Der Verlust der natürlichen Selbst-verstndlinchkeit. Stuttgart: Enke,1971.

6. Kraepelin E. Die Erscheinungsformen des Irreseins.In: Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie.1920;62: 1-29.

7. Bleuler M. Die schizophrenen Geistesstörungen im Lichte langjähriger Kranken-und Familiengeschichten. Stuttgart: Thieme,1972.

8. Ciompi L, Müller C. Lebenslauf und Alter der Schizophrenen. Berlin-Heidelberg-New York: Springer, 1976.

9. Finzen A. Schizophrenie. Bonn: Psychiatrie-Verlag, 1993.

10. Bleuler E. Dementia praecox oder Gruppe der Schizophrenien. In: Aschaffenburg G (ed).Handbuch der Psychiatrie. Leipzig-Wien: Deuticke,1911.

11. Schneider K. Klinische Psychopathologie. Stuttgart: Thieme, 1962.

12. Tellenbach H. Psychiatrie als geistige Wissenschaft. München: Verlag für angewandte Wissenschaften, 1987.

13. Ey H. La notion de schizophrénie. Paris: Desclée de Brouver, 1977.

14. Levy P. Il virtuale. Milano: Cortina, 1997.

15. Kretschmer E. Der sensitive Beziehungswahn. Berlin-Heidelberg-New York: Springer, 1966.

16. Barison F. Comprendere lo schizofrenico. In: Psichiatria generale e dell'età evolutiva 1987;25: 3-13.

17. Barison F. Un segno siamo, senza significato. In: Psichiatria generale e dell'età evolutiva 1988;26: 1-18.

18. Barison F. La psichiatria tra ermeneutica ed epistemologia. In: Comprendre 1990;5: 27-35.

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