I Deficit Cognitivi nei pazienti psichiatrici anziani di B. Manglaviti-M. Marcenaro

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3 dicembre, 2012 - 17:40

 

I DEFICIT COGNITIVI TRA ALTERAZIONE CEREBRALE E SINTOMO PSICOPATOLOGICO

Nell’ambito di un approccio multifattoriale alla psicopatologia dell’anziano, normale o a rischio, si collocano gli studi sui difetti basali dei processi di elaborazione delle informazioni, vale a dire sul complesso delle alterazioni evidenziabili alla somministrazione di test neuropsicologici in diverse categorie di soggetti anziani, sia neurologicamente integri che portatori di disturbi psichiatrici psicotici e depressivi. Per quanto concerne i pazienti schizofrenici anziani i principali obbiettivi degli studi sui deficit cognitivi riguardano in generale l'approfondimento delle conoscenze sulla natura e sull'evoluzione del disturbo nucleare della schizofrenia, che si identifica in un importante deficit cognitivo, estendendo l’arco temporale di osservazione e incrociando i rilievi neuropsicologici con i dati patoanatomici e strutturali morfofunzionali con i rilievi di alterazioni a livello cellulare e subcellulare o di circuiti anatomo-funzionali in settori cerebrali specifici. ( Siedman, 1983; Weinberger, 1986; Paulman, 1990). La possibilità di stabilire correlazioni tra indagini neuropsicologiche, neuromorfologiche, neurochimiche e della biochimica recettoriale consente inoltre di formulare ipotesi sui meccanismi psicobiologici sottesi ai processi disfunzionali che si ritengono interposti tra substrato neurale e funzioni comportamentali e relazionali di crescente complessità.

Deficit e sintomi cognitivi sono considerati come un livello di compromissione mentale o cerebrale autonomo rispetto alla psicopatologia, in grado di interagire direttamente sia con il livello delle variabili biologiche, che rimandano ad alterazioni genetiche, neuroanatomiche e neurochimiche cerebrali, sia con quello delle variabili ambientali, rappresentate da fattori scatenanti, fattori protettivi e dalle componenti affettive. Il particolare gradiente di funzionamento cognitivo richiesto nel comportamento umano sembra in relazione con l’attività neurofisiologica di estese regioni anatomiche cerebrali e con l’attività di sistemi multipli di neurotrasmissione, entrambe sottoposte a condizionamento genetico.

Da un punto di vista neuromorfologico, le funzioni cognitive in generale dipendono dall’attivazione di una rete neuronale complessa interconnessa e diffusa, cioè distribuita senza particolari localizzazioni nell’ambito della corteccia cerebrale e con l'intervento di strutture sottocorticali. Le funzioni cognitive superiori vengono prevalentemente localizzate nelle aree prefrontali della corteccia, senza peraltro escludere il coinvolgimento di altre aree corticali cerebrali, mentre le strutture sottocorticali chiamate in causa sono il sistema limbico-ipotalamico, il talamo, lo striato e la sostanza reticolare ascendente. I differenti sistemi neurali che entrano in gioco dipendono dall’attività basale di neurotrasmissione di tipo monoaminergico e non ( noradrenalina, dopamina, serotonina, acetilcolina e glutammato), attività che può essere modificata per l’azione di diversi fattori quali l'invecchiamento, la presenza di psicopatologia, variabili individuali, l'influenza diretta di farmaci agonisti e antagonisti. Le alterazioni delle funzioni cognitive possono essere fatte risalire ad alterazioni di recettori, dei meccanismi postsinaptici e dei controllli trascrizionali, a loro volta espressione di variazioni genetiche. Inoltre l'interazione continua con l'ambiente rende possibile un'interferenza di fattori esterni e stressors psico-sociali sullo stesso programma genetico sia in senso disfunzionale che facilitante.

Per ciò che riguarda le implicazioni di ordine clinico, la compromissione delle funzioni cognitive si evidenzia in differenti patologie neurologiche e psichiatriche come in caso di lesioni estese del lobo frontale, di lesioni focali del lobo parietale, di lesioni cerebrali diffuse e nei disturbi schizofrenici e affettivi; lo studio della diversa espressività delle alterazioni cognitive in queste condizioni può consentire ulteriori approfondimenti delle conoscenze sulle basi neurobiologiche del disturbo mentale.

Le funzioni cognitive, come sappiamo, non si identificano con l'intero spettro delle attività mentali e devono essere anche distinte da altre funzioni neuropsicologiche non cognitive, in rapporto con fattori personologici, emotivo-affettivo, istintivi ed - in parte - con le capacità relazionali e di funzionamento sociale. Le alterazioni delle funzioni cognitive possono essere classificate in due categorie principali: deficit primari e deficit secondari( ) e, secondo chi scrive, in una categoria residua di tipo aggiuntivo, comprendente le false positività o artefatti.

I deficit primari costituiscono una categoria nella quale si includono sia alterazioni dell'attività mentale causate da fattori neuropatofisiologici riconosciuti e quindi da modificazioni strutturali cerebrali che possono essere "localizzate" e come tali espressione di una vulnerabilità biologica; sia da fattori correlati allo sviluppo progressivo della psicopatologia, vale a dire ad altre forme di danno o malattia cerebrale associabile ad alterazioni di funzioni cerebrali, per le quali è ipotizzabile comunque una matrice o componente biologica.

I deficit secondari rappresentano invece una categoria che identifica i disturbi cognitivi generali, quali la capacità cognitiva limitata e gli effetti collaterali indotti dagli psicofarmaci.??( )

Tra gli artefatti si possono invece includere le alterazioni sicuramente artificiose indotte da: ansia; sintomi psicopatologici acuti, transitori e focali, che determinano alterazioni nei processi di attenzione e vigilanza; patologie croniche con diminuita capacità di concentrazione ed elevata distraibilità; insufficiente motivazione e mancanza di cooperazione; problemi di linguaggio.

A parte infine devono essere considerati i fattori che interferiscono con lo stato di funzionamento cognitivo basale cerebrale rappresentati da: età, sesso, aspetti educativi e culturali, fattori psicosociali di tipo avverso, assunzione di farmaci ed ipersensibilità agli effetti di farmaci attivi sul sistema nervoso centrale.

Lo studio delle alterazioni delle funzioni cognitive, così come quello delle funzioni emotivo-affettive e comportamentali, riguarda la valutazione quantitativa delle variazioni delle funzioni neuropsichiche in relazione all'età e dei rapporti tra substrato anatomo-funzionale ed attività mentali. La ricerca e l'assessment neuropsicologico, sviluppato originariamente dalla neurologia, da circa vent'anni ha assunto un importante rilievo anche in psichiatria clinica per lo studio dei disturbi mentali correlati con il funzionamento cerebrale.

I test neuropsicologici utilizzati per lo studio delle funzioni cognitive nei disturbi mentali possono consistere in batterie estese, ma anche in un numero più limitato di prove per il rilevamento di alterazioni di funzioni specifiche. Ogni test neuropsicologico coinvolge molti processi cognitivi e soltanto alcuni di questi sono rilevanti per la localizzazione delle lesioni.

L'obiettivo della valutazione neuropsicologica è quello di evidenziare modificazioni delle funzioni cerebrali correlabili ad alterazioni di strutture anatomiche cerebrali o di sistemi anatomo-funzionali. Però neanche ciò risulta possibile per le funzioni cognitive elementari, è invece difficile trovare dirette corrispondenze tra evidenze empiriche e danno anatomico cerebrale in un settore specifico, per il probabile coinvolgimento simultaneo di un complesso contesto di funzioni mentali e, verosimilmente, di un livello superiore di elaborazione delle informazioni. Un'alternativa metodologica che può garantire in questo ambito nuove possibilità di studio è quella che comprende ed ipotizza meccanismi mentali, a partenza da evidenze empiriche verificabili di tipo neurobiologico, interposti tra il substrato neurale e le funzioni comportamentali e relazionali. La valutazione neuropsicologica condotta a questo livello può costituire uno degli strumenti più interessanti di ricerca ed elaborazione di teorie psicobiologiche sul funzionamento mentale.

 

LE ALTERAZIONI COGNITIVE NEI SOGGETTI SCHIZOFRENICI

Le disfunzioni cognitive che si sviluppano nel corso delle psicosi schizofreniche, sono presenti in tutte le forme cliniche. Come è noto, i deficit cognitivi sono indipendenti dal decorso dei fenomeni psicopatologici e diverse alterazioni rimangono costanti anche dopo la riduzione di intensità dei sintomi clinici nel corso del disturbo, frequentemente una marcata compromissione cognitiva caratterizza il primo episodio di malattia dopo il quale i deficit possono stabilizzarsi o anche peggiorare ulteriormente.

Per un lungo periodo di tempo e sotto l’influsso della psicopatologia schneideriana il problema dei disturbi cognitivi è stato particolarmente attribuito alla sfera psicorganica e all’ambito involutivo e degenerativo escludendo tutte le psicosi endogene. L'attualità delle ricerche sulla schizofrenia ha al contrario confermato il significato nucleare dei disturbi delle funzioni cognitive in questa patologia.

Le alterazioni cognitive della schizofrenia, in generale considerate deficit funzionali secondari alla riduzione della motivazione o l'effetto dell'istituzionalizzazione, hanno assunto il significato di caratteristica centrale e primitiva del disturbo (Green 1998) e sono state correlate ad alterazioni della struttura cerebrale (Siedman, 1983) o del metabolismo cerebrale (Paulman, 1990; Weinberger, 1986). Moltissimi studi hanno dimostrato una correlazione significativa tra deficit cognitivi, scarso funzionamento sociale e fallimento dei trattamenti riabilitativi mentre training cognitivi sono spesso risultati efficaci nel produrre miglioramenti.

Sono peraltro sorte nuove controversie riguardo la necessaria presenza di elementi neurodegenerativi alla base dei deficit cognitivi dei soggetti schizofrenici, per cui sono state sviluppate diverse ipotesi e nuove linee di ricerca pur all’interno del medesimo registro delle alterazioni cerebrali organiche, ma ad un diverso, più fine, livello di risoluzione dei fenomeni neuropatologici.

In una recente review sull’argomento, Rund (1999) conferma che le principali funzioni cognitive alterate nei pazienti schizofrenici riguardano l’attenzione ( vigilanza/attenzione sostenuta, attenzione selettiva e precoce processazione delle informazioni, discriminazione visiva), la memoria (deficit del richiamo a breve termine più evidente rispetto alla memoria a lungo termine; deficit della memoria verbale, in particolare per il richiamo delle parole e soltanto nei casi più gravi anche per il riconoscimento), le funzioni esecutive (abilità nel pianificare, organizzare ed eseguire le azioni, nel modulare il livello di attività, nell’ integrare il comportamento, nell’automonitoraggio e nel riconoscimento degli errori). In particolare alcuni mettono in rilievo la specificità del deficit dell’attenzione a livello superiore (Frith, 1992), altri sottolineano invece la centralità dei deficit esecutivi nelle alterazioni del funzionamento della vita quotidiana e la necessità del loro trattamento nei programmi riabilitativi (Breier, 1991); le funzioni esecutive risultano sempre alterate nei pazienti più gravi e istituzionalizzati, mentre appaiono meno costanti negli schizofrenici ambulatoriali (soltanto un terzo di questi casi, il 35% secondo Bruff-1999, il 29% secondo Hoff-1992).

Bilder (1994 o forse anche 2000) ha evidenziato nelle sue ricerche che il correlato fondamentale della riduzione del volume ippocampale (prevalentemente dell'ippocampo anteriore Bogerts, 1990 e 1993; Suddath, 1989; Pilosky, 1993; Shapiro,1993; Bilder 1994 ) è un deficit delle funzioni esecutive (spesso associato con l'integrità funzionale dei lobi frontali). Altri correlati della riduzione del volume ippocampale sono alcuni deficit delle funzioni attentive e motorie (regolate a livello frontale e frontolimbico nonché collegate a funzioni visuospaziali attribuite alla corteccia dorsoparietale), questi dati suggeriscono che un indice della patologia strutturale dell'ippocampo può essere particolarmente predittivo di anomalie funzionali di solito attribuite ai lobi frontali. L'ipotesi di Bilder è che la schizofrenia sia associata ad un disturbo dello sviluppo del sistema citoarchitettonico dorsale identificato per primo da Sanides (citato da Bilder) e descritto da Goldberg (1985-1987) a cui appartengono strutture evolutivamente collegate sia morfologicamente che in senso funzionale (ippocampo, giro cingolato, neocorteccia frontale dorsale e parietale, gangli della base). Questo sistema, contrapposto funzionalmente a quello più antico ventrale (corteccia olfattoria, insula, corteccia frontale ventrale, temporale e parieto -occipitale, cervelletto) è correlato alle funzioni di controllo comportamentale"projectional"nell'ambito delle funzioni esecutive. Tale ipotesi è compatibile con il risultato di diversi studi condotti su animali, su scimmie (Bachavalier, 1993) e su topi (Lipska) che hanno messo in evidenza come lesioni precoci a livello ippocampale determinano lo sviluppo, in un secondo tempo, di deficit simili a quelli che ci si potrebbe attendere in seguito ad una lesione del lobo frontale provocata in un animale già adulto.

 

 

LE ALTERAZIONI COGNITIVE NEI SOGGETTI SCHIZOFRENICI ANZIANI

I cambiamenti cognitivi generalmente considerati normali nell’invecchiamento riguardano una compromissione della fluenza verbale e della denominazione, dell’attenzione sostenuta, della prassia costruttiva, delle funzioni esecutive e della memoria esplicita . Con i termini proposti recentemente di " declino cognitivo correlato all’età " (ARCD), " declino cognitivo associato all’età " (AACD) , " compromissione cognitiva lieve" ( MCI ) e "deficit della memoria associato all’età " (AAMI) si indica un declino nel funzionamento cognitivo associato ai processi di invecchiamento senza che siano soddisfatti i criteri per la diagnosi di demenza. Esistono notevoli controversie circa il significato da attribuire alla presenza di un disturbo cognitivo lieve nell’anziano: per alcuni si tratta di un segno prodromico di un successivo processo demenziale ( Petersen,1993 ; Linn, 1995 ), per altri invece i disturbi della memoria età correlati costituiscono un’entità clinica a sé stante rispetto alla demenza ( Koivisto, 1995 ). L’analisi dei clusters della performance cognitiva di soggetti anziani e di soggetti dementi ha mostrato che essi formano due gruppi qualitativamente separati relativamente all’assenza o alla presenza di deficit nei processi cognitivi di base( ). L’età risulta un fattore di rischio per la demenza ma non un movente causale. Studi con tecniche brain imaging hanno inoltre mostrato che gli anziani durante la cognizione impiegano diversi livelli di interazione funzionale che coinvolgono i lobi frontali e che la performance cognitiva è equivalente a quanto osservato nei giovani ( ).

La questione della centralità del disturbo cognitivo nel corso delle psicosi schizofreniche viene ad assumere una particolare rilevanza allorchè si consideri l’invecchiamento, con i suoi correlati fisiopatologici e disfunzionali, come una nuova variabile inserita nel processo della malattia e dei trattamenti terapeutico-riabilitativi.

I risultati delle diverse ricerche di tipo psicometrico, morfofunzionale ed anatomopatologico condotte su soggetti schizofrenici anziani hanno portato a dati contrastanti. Come affermano Friedmann, Harvey et Al. (1999) l’eterogeneità del decorso del disturbo schizofrenico appare ancor più marcata con l’invecchiamento. In alcuni casi i deficit cognitivi e funzionali comunemente riscontrati nei pazienti schizofrenici più giovani peggiorerebbero con l’incremento dell’età da cui ne è derivata l’ipotesi del progressivo sviluppo di un processo simil-demenziale, in altri casi invece tenderebbero a rimanere più stabili. Secondo alcuni autori (Zorilla, 2000; Rund, 1998; Harvey, 1996; Heaton, 1994; Hyde, 1994), nei soggetti schizofrenici anziani i deficit cognitivi rimarrebbero per lo più stabili, essendo stata dimostrata una progressione nel tempo non particolarmente intensa, pur in presenza di alterazioni cognitive sicuramente più marcate rispetto ai punteggi degli stessi soggetti nel corso dei primi episodi di malattia o di altri soggetti schizofrenici più giovani. Questi assunti sono coerenti con il risultato di studi neuropatologici (Arnold, 1998; Powchick, 1998; Purohit, 1998; Trojanowski, 1998), condotti su pazienti psichiatrici anziani ospedalizzati, già portatori di un deterioramento spiccato delle funzioni mentali superiori evidenziabile dal punto di vista clinico, che hanno evidenziato in tali pazienti un numero relativamente basso di anomalie neuropatologiche degenerative, per questo è stato escluso nel campione dei soggetti esaminati l’esistenza di un processo di neurodegenerazione come caratteristico della malattia schizofrenica. Questi risultati confermerebbero l’ipotesi per cui è sottesa al corso della malattia una condizione di "encefalopatia statica", in rapporto al deficit cognitivo iniziale, piuttosto che quella di un processo simil-demenziale. Harvey, del resto, in base ai risultati di un suo studio del 1996, ipotizza l’esistenza di una netta differenza nei meccanismi neurobiologici responsabili dei deficit cognitivi nella schizofrenia e nella demenza. In tale studio ha confrontato i deficit cognitivi in tre gruppi di pazienti, schizofrenici anziani istituzionalizzati, anziani con AD ed anziani di controllo utilizzando il CERAD Cognitive Battery; sono emersi livelli prestazionali deficitari in entrambi i gruppi patologici con delle differenze significative fra di loro, il gruppo degli schizofrenici infatti mostrava una maggior compromissione nella prassia costruttiva ed al naming test con relativamente migliori prestazioni al richiamo a breve termine.

Altri studi condotti su pazienti schizofrenici cronici istituzionalizzati hanno consentito di evidenziare differenze significative relativamente all’età per quel che riguarda il deficit cognitivo; Davidson (1995) ha rilevato al MMSE un declino pari a 3 punti in media (da 1 a 4,6) per decade negli schizofrenici cronici, declino che risulta più lento di quello riscontrato nella AD, ma decisamente più rapido rispetto a quello relativo al normale invecchiamento. Risultati più o meno sovrapponibili sono stati ottenuti in altre ricerche da diversi autori (Bartels, 1997; Harvey, 1997; Arnold, 1995; Bilder,1992). Nel 1999, Friedmann ha proposto di applicare al disturbo schizofrenico il concetto di "encefalopatia dinamica" secondo il quale viene ipotizzato nella malattia un processo progressivo che può produrre un declino cognitivo, il quale tuttavia, a causa dell’interferenza dei processi degenerativi senili potrebbe non conservare la propria specificità; in altri termini si ammette che — data una popolazione di pazienti schizofrenici cronici — un sottogruppo di soggetti possa sviluppare un processo degenerativo a tipo demenza, e ciò è spiegato con l’ipotesi per cui le anomalie dello sviluppo dei circuiti neuronali di base determinerebbero un ampliamento degli effetti dei cambiamenti neurali normalmente correlati all’età. Ipotesi simili sono state formulate anche da Arnold (1998 ) e Dwork (1998 ). Granholm (2000) parla di un declino, età correlato, abnormemente accelerato nei compiti di processazione delle informazioni nei pazienti schizofrenici che egli ha evidenziato tramite la registrazione della risposta pupillare durante la performance alla SOA (span of apprehension). Lo stesso Hyde (1994, già cit.), benché non riscontri un’accelerazione marcata del declino cognitivo al MMSE e al Dementia Rating Scale negli schizofrenici, deponendo per l’ipotesi di una encefalopatia statica, riporta un significativo peggioramento della prestazione al Boston Naming Test legato all’età.

Secondo Dwork (1998), l’aumentata sensibilità agli effetti dell’età sul cervello dei pazienti schizofrenici cronici può essere una manifestazione della riduzione della "riserva cognitiva". Questo termine, introdotto da Katzam (1988), esprime un’ipotesi secondo la quale un livello educativo ed occupazionale più elevato comporta un aumento della densità sinaptica con effetto protettivo nei confronti delle demenza, pur in presenza di correlati neuropatologici di degenerazione (placche senili e filamenti ad elica). I pazienti schizofrenici anziani più gravemente compromessi sul piano cognitivo presentano un numero di placche pari od inferiore alla metà di quelle riscontrabili nella demenza. La presenza di elementi neurodegenerativi potrebbe essere quindi una condizione necessaria per il deficit cognitivo sia nei soggetti schizofrenici che in quelli non schizofrenici; la soglia a cui questo processo neurodegenerativo produce manifestazioni cliniche sarebbe ipoteticamente più bassa negli schizofrenici in cui non sono presenti diminuita densità sinaptica, né markers colinergici, ma una ridotta plasticità della funzioni sinaptiche; a questo proposito sono formulate diverse ipotesi e linee di ricerca riguardanti anomalie delle proteine sinaptiche corticali (Eastwood, 1995; Thompson, 1998, Gabrieli,1998; Young, 1998), delle proteine microtubulo-associate (Cotter, work, 1997), della grandezza dei neuroni (Rajkowska, 1998), del volume del neuropil (Selemon, 1995). Dwork ipotizza una riduzione dell’attività dopaminergica prefrontale nel determinismo della riduzione della riserva cognitiva. Altri autori (Powchik, 1998) hanno rilevato deficit serotoninergici e noradrenergici corticali fronto-temporali in pazienti schizofrenici anziani correlati alla gravità del deficit cognitivo. Secondo Dwork la maggior parte dei deficit cognitivi negli schizofrenici non può essere attribuito a demenza; l’aumentata sensibilità agli effetti dell’età sul cervello degli schizofrenici può essere una manifestazione della diminuita riserva cognitiva. In una ricerca clinica e autoptica sul ruolo delle alterazioni degenerative tipo Alzheimer nel deficit cognitivo degli schizofrenici cronici, l’autore ha confrontato gruppi di schizofrenici cronici anziani, con pazienti affetti da disturbi dell’umore, con pazienti affetti da altri disturbi psichiatrici, con pazienti dementi e con controlli sani, rilevando che : 1) mentre un deficit cognitivo era presente nel 68% degli schizofrenici cronici, soltanto nell’8% erano presenti alterazioni neuropatologiche della demenza di Alzheimer; 2)gli schizofrenici con deficit cognitivo hanno un maggior numero di placche senili rispetto a quelli senza deficit cognitivo; 3)il deficit cognitivo è più frequente tra i pazienti schizofrenici che tra quelli con disturbo dell’umore cronicamente istituzionalizzati omogenei per età, alterazioni neuropatologiche tipo Alzheimer e trattamenti somatici subiti; 4)pazienti schizofrenici senza deficit cognitivo hanno un minor numero di placche senili e di filamenti ad elica rispetto ai controlli sani. L’autore ne deriva l’ipotesi di un'azione sinergica della schizofrenia e della degenerazione senile nel produrre il declino cognitivo.

Altri studi hanno preso in considerazione i diversi fattori implicati nel determinismo del declino cognitivo negli schizofrenici anziani fra cui il peso dei trattamenti e l’influenza della sottostimolazione socio-ambientale legata all’istituzionalizzazione; Harvey (1993) e Davidson (1995) non hanno riscontrato correlazioni significative per i neurolettici e le terapie elettroconvulsivanti, mentre Leff (1994) ha riscontrato una correlazione positiva significativa tra istituzionalizzazione e i sintomi negativi, ma non per i disturbi cognitivi. Inoltre è stato anche rilevato che il grado di adattamento precedente è inversamente proporzionale al declino cognitivo e funzionale negli schizofrenici anziani. Goldstein (19989 in uno studio sulle differenze individuali del declino cognitivo nella schizofrenia, misurato con la WAIS e l’Haltsted Retain neuropsychological Battery, ha evidenziato che schizofrenici con deficit cognitivi lievi o assenti presentano un più evidente declino cognitivo età-correlato rispetto a quelli con deficit cognitivi gravi precoci. E’ stato anche ipotizzato( ) che la severità delle anomalie dello sviluppo di base che interagiscono con l’età sia correlata con lo stato clinico dei pazienti, per cui forme di deterioramento progressivo tendono a svilupparsi nei quadri più severi di schizofrenia. Infine Harvey in uno studio longitudinale con follow-up di 30 mesi su schizofrenici anziani (età>65) cronici istituzionalizzati e successivamente in una review, entrambe del 1999, ha identificato come fattori di rischio per il declino cognitivo e funzionale l’età avanzata, il basso livello di scolarità, un basso livello di funzionamento premorboso e la gravità dei sintomi positivi sottolineando come molteplici episodi di severe riacutizzazioni possano favorire il declino cognitivo, continuando ad agire in tal senso durante tutto il decorso della malattia, così come possa essere deleterio il ritardo nell’ iniziare la terapia antipsicotica. Non ha evidenziato invece correlazioni significative tra declino funzionale e sesso, stato del trattamento neurolettico, gravità dei sintomi negativi.

 

CONCLUSIONI

Per concludere la rassegna degli studi che è stata presa in esame consente di considerare le alterazioni delle funzioni cognitive, nel loro duplice aspetto neurocomportamentale e psicocomportamentale, come una dimensione o meglio un insieme di dimensioni fenomeniche che può essere studiata trasversalmente in differenti categorie diagnostiche dalla schizofrenia alla demenza. Harvey (1998) ed altri autori sottolineano come i deficit cognitivi rappresentino i predittori più validi del funzionamento adattativo dei pazienti, anche rispetto ai sintomi negativi, e debbano rappresentare il focus degli interventi terapeutici farmacologici e non. L’obiettivo degli studi neuropsicologici sopra accennati, che pure difettano nell’approfondimento delle metodologie di studio impiegate, è quello di poter meglio risalire alla valutazione di meccanismi disfunzionali nucleari intrinseci alle principali patologie psichiatriche. Queste conoscenze rappresentano la necessaria premessa di interventi di tipo terapeutico-riabilitativo sviluppabili ad un livello specifico che si differenzia dai restanti interventi formulati ad un livello neurobiologico o psicosociale. Gli interventi di tipo terapeutico-riabilitativo sviluppabili in una prospettiva di tipo cognitivo sono centrati su due tipi di strategie: quelle di tipo diretto e quelle di tipo combinato, che vanno distinte dagli interventi indiretti di tipo aspecifico.

Le strategie di tipo diretto si fondano sull’ipotesi della neuroplasticità, per la quale possibili cambiamenti del substrato neurale possono verificarsi lungo l’intero arco della vita adulta anche nel corso di disturbi mentali. Esse mirano ad applicare in modo puntiforme metodiche di stimolo settore-specifiche, soprattutto nel caso di funzioni cognitive di ordine semplice. Il loro successo ha a che vedere, almeno su un piano teorico, con i seguenti aspetti: 1) miglioramenti compensatori nei processi di elaborazione delle informazioni, che dipenderanno o dalla capacità di correzione di difetti e squilibri neurochimici preesistenti o dalla possibilità di creare nuove connessioni neurali attraverso l’apprendimento; 2) influenze sull’attività psicofisiologica di sistemi neurali, che possono essere sovra o sottostimolati; 3) influenza sui processi di controllo emotivo che sono in grado di ampliare i deficit cognitivi. Nel caso delle psicosi schizofreniche, i metodi diretti dovranno avere come bersaglio le funzioni differenziate della corteccia pre-frontale dorsolaterale e del lobo temporale mediale, che si ritengono maggiormente implicate in attività mentali superiori.

E’ chiaro, comunque, che spostando l’obiettivo verso la riabilitazione di funzioni cognitive di tipo complesso, le strategie diventeranno tecniche fondate sulla possibilità di andare a correggere meccanismi mentali disfunzionali, di cui non sono del tutto chiariti i fondamenti neurobiologici, piuttosto che tecniche aventi come "target" un non ancora raggiungibile substrato.

Le strategie di tipo diretto si differenziano dagli interventi terapeutici indiretti di tipo aspecifico, che caratterizzano i differenti strumenti di tipo psicologico, umano ed ambientale impiegati in tutti i tipi di patologia psichiatrica e rivolti a ridurre l’ansia, integrare il soggetto nel contesto ambientale e supportare funzioni psicologiche coesive. Si tratta di interventi che in una prospettiva di tipo cognitivo non appaiono direttamente centrati su aspetti neurali, e quindi sul substrato biologico delle sindromi cliniche, ma piuttosto tendono ad aggirarlo.

Le strategie di tipo combinato rappresentano invece la possibilità di integrare il trattamento degli aspetti neurali con quello dei processi mentali e dei fenomeni psicologici soggettivi, non escludendo in modo asettico dal campo dell’interazione terapeutica le attività di mediazione psicologica, sia pure non approfondite in termini di analisi dei vissuti. Queste linee di intervento prevedono l’associazione di metodi diretti, specificamente rivolti ai deficit dei processi di elaborazione delle informazioni, e metodi indiretti che incorporano strategie comportamentali ed interpersonali. Come esempio, citiamo alcuni programmi di training per pazienti psichiatrici gravi elaborati da Brenner(1989) e adottati in Italia da ricercatori dell’Università di Milano(Vita e coll.).

Il metodo riabilitativo proposto prevede una successione di programmi specifici che sono offerti al paziente secondo un ordine gerarchico di crescente complessità e che riguardano: le attività cognitive di base, la capacità di percezione sociale, la comunicazione verbale, nonché tecniche di addestramento nelle abilità sociali e nella soluzione di problemi interpersonali. Questi interventi sono condotti nell’ambito di un preciso riferimento gruppale, in presenza di un terapeuta affiancato da un coterapeuta, e di una conduzione del gruppo mutuata da tecniche comportamentiste.

Alla luce di questa prospettiva sulle metodologie riabilitative risulta sempre più pressante la richiesta di migliorare le conoscenze sulla specificità del disturbo cognitivo nucleare della schizofrenia identificando metodologie sempre più attendibili per valutare la tipologia , discriminare le diverse componenti nonché i correlati morfofunzionali. L'ipotesi di uno specifico meccanismo per il deficit cognitivo dello schizofrenico anziano (encefalopatia dinamica, confronta Friedman, 1999; Dwork ipotizza per il declino cognitivo dello schizofrenico anziano un processo progressivo non identificato che da sé può produrre declino cognitivo che però può a sua volta non mantenere la propria specificità per l'interferenza dei problemi degenerativi senili) può allora spingere a ricercare ulteriori approfondimenti sul disturbo cognitivo fondamentale grazie a strumenti di valutazione sempre più sensibili che consentano lo sviluppo di tecniche di trattamento per la strutturazione e ristrutturazione cognitiva sempre più aderenti alle effettive carenze. A questo proposito ricordiamo la raccomandazione metodologica di Bilder che è essenziale per questo scopo mettere a punto test particolarmente semplici evitando sempre di più l'uso di test polifattoriali più complessi con cui è difficile isolare con precisione le componenti neurocognitive.

Sulla scorta delle considerazioni metodologiche esposte è nostra intenzione intraprendere una ricerca applicativa con tecniche di assessment neuropsicologiche su campioni di pazienti schizofrenici cronici anziani confrontati, per quanto riguarda le funzioni cognitive di base e specifiche, con gruppi di controllo differenziati per età e psicopatologia.

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