Intervista a Nichi Vendola

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26 novembre, 2012 - 13:48

D: Io volevo chiederle da politico e da cittadino: Lei non pensa che il vero problema non sia tanto quello delle eccellenze e della miseria e della nobiltà, ma riuscire ad avere in Italia una sanità "normale"? Come si fa ad arrivare a questo? Come pensa di poter rispondere in termini reali a questa esigenza del paese?
R: Intanto, condividendo un percorso davvero fondato sull'allargamento sistematico dei luoghi decisionali, l'apertura delle porte e delle finestre delle aziende ospedaliere e delle ASL al controllo democratico. Le ASL sono aziende invisibili dal punto di vista delle loro scelte, di ciò che lì dentro accade. Un cittadino non sa perché i soldi siano stati impiegati in una certa maniera anziché in un'altra. Immaginare che nei depositi degli ospedali ci siano attrezzature per miliardi di vecchie lire che restano imballate per anni inutilizzate, fa nascere qualche perplessità. Ma, per fare in modo che la perplessità esca fuori dall'ambito della letteratura e del costume e possa incidere nell'ambito della politica, c'è bisogno, appunto, che la vita dell'azienda sanitaria sia attraversata dalle domande dei poteri della cittadinanza attiva, dall'audit civico, attraverso il coinvolgimento del tribunale dei diritti del malato e la conferenza dei sindaci. Bisogna cioè spezzare tutto quello che è separatezza e autoreferenzialità del servizio sanitario.
D: Però esistono anche delle zone d'ombra, di grande difficoltà nel paese per quanto riguarda certe categorie. Io come psichiatra curo quelli che chiamo "gli ultimi che non saranno mai i primi". Lei si è sempre molto occupato con attenzione delle fasce più deboli e i più deboli di tutti, indipendentemente dal censo, sono i malati psichici. Ecco, cosa può fare la politica per far sì che veramente l'aiuto che ci vuole nasca? Io non credo che sia un problema di legge, perché la legge è buona. Il problema è applicarla, ma, avendo ultimi che non saranno mai i primi, che non hanno voce con difficoltà anche delle famiglie, che lei ben conosce, cosa può fare la politica, cosa può fare la regione, che ha il compito prioritario di occuparsi di queste persone?
R: Nel settore che Lei indica il tema di fondo è i conti non saldati con la manicomialità, che è sopravvissuta in forme camuffate, sia negli ex-ospedali psichiatrici, sia nel circuito delle cliniche private, sia in quei micromanicomi, chiamati come vogliamo in tante forme. Il problema è che se si fa una comparazione sui percorsi attuativi della legge 180, si può capire cosa significa la ramificazione di servizi sociosanitari sul territorio come nel modello triestino o che cosa è accaduto invece in altri territori. Questo è stato accompagnato da una tendenza anche culturale, una certa nostalgia della manicomializzazione del malato psichico che negli anni 90 ha avuto fortuna anche nel dibattito politico, anche perché il dibattito politico è diventato più ignorante su tali questioni. Fortunatamente il manicomio non ha vinto. Anche la psichiatria "tradizionale", organicistica ha avuto le sue evoluzioni, i suoi punti di crisi e in qualche maniera nessuno, né le associazioni dei familiari dei malati psichici, né le varie società psichiatriche, nessuno più proclama la necessità di restaurare l'ancient regime manicomiale. E questo è un punto importante. Il punto seguente è legato al fatto che in una lunga stagione, quella del liberismo, si è teorizzato e praticato il dimagrimento del welfare e sostanzialmente il taglio di alcuni servizi e si è vista la famiglia tornare come un ammortizzatore sociale, un parcheggio, un surrogato di quei servizi sociali che hanno una loro peculiarità insostituibile. Tutto ciò ha pesato in modo particolarmente negativo sul malato psichico non solo perché il più povero tra i poveri, ma perché tante volte la natura o la ragione di quel disagio aveva origine in quella struttura familiare che diventava la nuova prigione coattiva del suo impossibile percorso terapeutico. Io continuo a pensare che la malattia principale è l'espropriazione, la spoliazione, la miseria morale e materiale, l'alienazione e che quello che è terapeutico da un lato come dicevano dalle parti di Trieste è la liberta e dall'altro la socialità. Questo vuol dire impegnarsi in seri percorsi di assistenza domiciliare sul territorio che da noi è un deserto. C'è l'ospedale come una specie di totem e il territorio è un deserto. Occorre impegnarsi a far vivere la salute sul territorio, ripristinare il dibattito sulla necessità di convivere con il disagio e di rimettere in discussione l'agio. Ritornare anche a quegli elementi di discussione e di civiltà non sarebbe male perché anche questi hanno un effetto sulle programmazioni concrete dei servizi assistenziali. Qua è facile rispondere alla sua domanda: in Puglia non c'era più niente di servizi psichiatrici, di programmazione psichiatrica, non c'era più niente. Un bambino psicotico significa automaticamente una famiglia alla deriva. Noi dobbiamo riorganizzare, riprogrammare, ricostruire un po' da zero senza farci venire la tentazione diabolica della scorciatoia, che è sempre quella più facile, della manicomialità.
D: L'imbuto manicomiale.
R: Esattamente.
D: Un'ultima cosa: ma ce la facciamo, cioè, Lei pensa che ci riusciamo a uscire? Io parlo al politico perché non tutti parlano come lei.
R: Intanto non posso non provarci, anche perché ho una collocazione privilegiata da quel punto di vista. Nel senso che sono uno degli attori più importanti della decisione politica. Naturalmente la decisione politica non è sufficiente, perché può essere divorata, cannibalizzata, dalla macchina della pubblica amministrazione, dalle ASL, dal mondo medico, dal mondo infermieristico, dal mondo degli utenti. Il problema è che appunto, insieme agli elementi di programmazione servono gli elementi di partecipazione: quel nuovo patto civico di cui parlavo che è l'unica vera terapia per una sanità così malata.
(a cura di F. Bollorino, M. Sancilio, W. Natta)

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