Seconda giornata - Mercoledì 17 febbraio

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23 novembre, 2012 - 13:08

 

SESSIONE PLENARIA, 17 Febbraio, ore 09:30-11:30.

La prima sessione plenaria, e’ stata aperta dal Prof. F. Bogetto (Professore Ordinario di Psichiatria, Università degli Studi di Torino) che, in qualità di Chairman, introduce i relatori.

Suffering and pain – psiche versus soma Prof. T. Sensky, Department of Psychological Medicine, Imperial College, London

Il dolore e’ una causa comune di sofferenza, ma i due termini a volte sono usati in maniera interscambiabile. Ciò e’ dovuto in parte all’ampia varietà di modi in cui il termine "sofferenza" e’ utilizzato nel linguaggio comune.

Il dolore (definizione IASP) e’ un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale in atto o potenziale, o generalmente riferita ad una forma di danno.

La sofferenza, secondo la definizione di Eric Cassel, si verifica quando e’ presente una grave minaccia alla "Personhood", termine che identifica l’insieme di qualità e caratteristiche che una persona utilizza per definire se’ stessa, tra cui troviamo, ad esempio:

- Personalità/carattere

- Passato ed esperienze di vita

- Autostima

- Famiglia/amici

- Background culturale e ruolo sociale

- Comportamento abituale e scelte di vita

- Percezione del futuro

- Spiritualità e dimensione trascendente

Inoltre bisogna ricordare che la sofferenza, strettamente influenzata da fattori culturali, e’ uno stato psicologico che può assumere caratteri di corporeità quando e’ dovuta al dolore. E il dolore stesso può essere fonte di sofferenza quando e’ difficile da controllare, ha effetti intrusivi nella vita quotidiana e non può essere intravista una sua risoluzione.

I due termini dunque non sono sinonimi, dal momento che la sofferenza e’ possibile anche in assenza di dolore, e viceversa. La differenza principale tra dolore e sofferenza consiste nel fatto che mentre il dolore e’ di solito localizzabile in una parte del corpo, la sofferenza e’ sempre associata alla persona nella sua interezza. Un metodo per misurare la sofferenza e’ il PRISM (Pictorial Representation of Illness and Self Measure) che consiste in una metafora visiva della sofferenza, in accordo con la concettualizzazione di Cassel, e consente ai pazienti e ai clinici di focalizzare rapidamente gli aspetti salienti della malattia che causa sofferenza, senza necessità di lunghe descrizioni. Questo metodo di misurazione, che non e’ una scala di tipo analogico, si basa sull’identificazione degli elementi che il paziente considera importanti soggettivamente.

E’ possibile alleviare la sofferenza dando l’opportunità alla persona di ridefinire la personhood attraverso la creazione di un rapporto medico-paziente basato sulla narrazione della propria storia personale e sulle capacità di ascolto del terapeuta.

E’ possibile affermare che l’intervento sulla minaccia alla personhood e’ attuabile con diversi intenti:

- Rimozione della causa

- Ridefinizione della personhood

- Ridefinizione della minaccia

Dal momento che personhood e sofferenza sono costrutti psicologici, i suddetti cambiamenti possono essere raggiunti attraverso interventi psicologici.

Discriminare tra dolore e sofferenza e’ importante perche’ possono essere necessari interventi diversi per alleviarli.

Tali interventi sono cruciali, in una medicina centrata sull’individuo.

Empathy, simpathy and perception of others’ distress: a neuroscience perspective and implications for therapeutic relationships in medicine and in psychiatry

Prof. J. Decety, Department of Psychology, University of Chicago, USA

L’interesse per il concetto di empatia nasce dal fatto che essa e’ ritenuta la scintilla della preoccupazione per gli altri, ha un risvolto di tipo morale e costituisce un elemento fondamentale nel rapporto medico-paziente. Un deficit di empatia e’ rilevabile in alcune disturbi psichiatrici, come ad esempio il Disturbo Borderline di Personalità.

L’empatia ha una propria storia evolutiva ed e’ riscontrabile anche negli animali, ma nell’uomo e’ particolarmente sviluppata, in quanto potenziata da facoltà come il linguaggio e le capacità cognitive superiori.

E’ spesso dato per scontato che essere empatici e’ positivo e utile nelle relazioni interpersonali: l’empatia e’ un’importante attitudine in molti aspetti delle relazioni sociali (come avviene per un buon insegnante, un genitore dedito e un medico sensibile), ma ci sono anche costi fisiologici e sociali connessi con l’essere troppo empatici.

Dal punto di vista concettuale bisogna distinguere l’empatia (capacità naturale di percepire e condividere emozioni e sensazioni altrui, che riduce la distanza tra noi e gli altri), la simpatia (preoccupazione empatica rivolta al prossimo) e il disagio personale (sensazione spiacevole determinata dalla percezione della sofferenza altrui, ma auto-orientata).

L’empatia consta di diverse componenti:

1) Arousal affettivo

2) Riconoscimento emozionale

3) Regolazione emozionale

Essa può essere validamente indagata facendo riferimento al concetto di dolore, la cui natura sociale può stimolare reazioni di aiuto negli altri: i substrati neurofunzionali di dolore ed empatia sono, infatti, in parte sovrapponibili.

Un numero crescente di studi di neuroimaging funzionale (ad esempio fRMN) sull’empatia verso il dolore evidenzia una sovrapposizione per quanto riguarda l’attivazione neuronale nell’esperienza del dolore provato in prima persona e nella percezione del dolore negli altri. Questa sovrapposizione include non solo le regioni cerebrali coinvolte nella processazione del dolore in una dimensione affettivo-motivazionale, ma anche la sua rappresentazione somatosensoriale (si assiste all’attivazione dei circuiti neuronali dell’insula, del giro del cingolo, della corteccia somatosensoriale e del talamo sia per esposizione diretta allo stimolo doloroso, sia per aver assistito al dolore altrui).

Sulla base di questi studi si può comprendere che quanto maggiore e’ l’esposizione alla sofferenza ed al dolore altrui, e, conseguentemente l’empatia (personale sanitario, etc), tanto maggiore e’ il livello di disagio personale, con aumento del rischio di comparsa di fenomeni di compassion fatigue e burn out, e conseguente impoverimento del se’. L’empatia e’ quindi qualcosa che necessita di essere regolata, a livello inconscio o intenzionale, senza tuttavia arrivare ad un eccessivo distacco dalle emozioni del prossimo, con il rischio di sottovalutarne la sofferenza.

New trend in the diagnosis and classification of somatoform disorder

Prof. J.I. Escobar, Associated Dean for Global Health, UMDNJ-RWJMS Member, DSM-V Task Force

Nel corso degli ultimi dieci anni molti studiosi hanno manifestato insoddisfazione riguardo all’attuale classificazione dei disturbi somatoformi e hanno pertanto proposto di riconsiderarla in vista della stesura della prossima edizione del DSM. In particolare un gruppo di studiosi che collaborano nel CISSD (Conceptual Issues in Somatoform and Similar Disorders) si pone l’obiettivo di stabilire alcuni criteri fondamentali che forniscano indicazioni rivolte al personale operante nell’ambito della primary care, che affrontino la problematica della classificazione multiassiale, dell’uso di termini imprecisi (somatizzazione, somatomorfo, ipocondria) e della rilevanza lifetime di sintomi inspiegabili dal punto di vista medico.

Il gruppo ha prodotto un insieme di raccomandazioni che sono state pubblicate in Psychosomatics nel 2007. Appare particolarmente importante l’invito rivolto all’APA (American Psychological Association) e alla WHO (World Health Organization) a lavorare insieme per creare un DSM-V e ICD-12 che descrivano correttamente i disturbi somatoformi. Inoltre, durante la formulazione del DSM-V, un numero di membri del CISSD sono stati invitati ad unirsi al gruppo di lavoro ufficiale che si occupa di tali disturbi (Barsky, Escobar, Sharpe, Creed).

Alcune delle raccomandazioni iniziali di questo gruppo sono state recentemente sottolineate in un editoriale pubblicato nel Journal of Psychosomatic Research nel 2009. Il gruppo di lavoro ha deliberato per circa un anno e le sue funzioni sono state supplementate dalla collaborazione di due ulteriori gruppi, dei quali uno si occupa delle influenze legate al genere, alla cultura e all’etnia, l’altro della relazione tra problematiche mediche e psicologiche.

Il Professor Escobar ha partecipato ad entrambi questi gruppi: la sua presentazione ha messo in luce il processo finalizzato alla stesura del DSM-V e ha sottolineato le principali raccomandazioni enunciate dal Somatic Symptom Disorder Workgroup.

Report a cura di Veronica Aiello e Andrea Presta

Link di approfondimento:

http://en.scientificcommon

s.org/t_sensky

 

http://scnl.org/

http://en.wikipedia.org/wi

ki/Jean_Decety

 

http://en.scientificcommon

s.org/j_escobar

 

USO DEGLI PSICOFARMACI IN ALCUNE PATOLOGIE MEDICHE (Simposio SOPSI – Società Italiana di Neuropsicofarmacologia )

Depressione, comorbidità, psicofarmaci: aspetti neurobiologici – G. Biggio (Cagliari)

Nel Gennaio 2010 la copertina del Time riportava il titolo: "Perché i geni non sono il tuo destino". Il concetto piu’ attuale riguardo alla genetica è che l’ ambiente modifica in modo straordinario i geni. Quindi il fatto che i geni possano essere mutati dall’ ambiente sta aprendo nuove porte sulla clinica e la terapia farmacologica. Ciò ha portato all’ EPIGENETICA: cioè la capacità dell’ ambiente di modificare i nostri geni , attraverso ad esempio la dieta, i farmaci, gli ormoni. Siamo quindi noi che determiniamo quello che siamo in base ai nostri comportamenti e agli stili di vita che seguiamo, come il fumo, la dieta. Ad esempio una persona puo’ avere una suscettibilità genetica per il cancro al polmone, ma se non fuma molto probabilmente non lo svilupperà, ma se al contrario decide di fumare le probabilità di essere affetto aumenteranno molto. Quindi noi non subiamo solo l’ effetto dei geni, ma decidiamo in prima persona di noi stessi. Tutto questo vale anche per le patologie psichiatriche, nelle quali l’ asse ipotalamo-ipofisi-surrene riveste un ruolo primario: in una madre depressa o particolarmente stressata vi è una iperattivazione dell’ asse, che avviene anche nei figli. Sono i geni a modificarsi ed adeguarsi alle caratteristiche di ogni persona, e tali alterazioni avvengono in breve tempo, al contrario del genoma che ha bisogno di molti anni per modificarsi. In questa nuova prospettiva assumono una grandissima importanza la famiglia, i genitori, le relazioni sociali,gli stili di vita e anche le terapie cognitive. A supporto di questo su Science è uscito poco tempo fa uno studio che ha dimostrato che un training cognitivo ha migliorato la memoria spaziale diminuendo i recettori D1 del 25 % a livello cerebrale.

Depressione e comorbidità. Uso degli antidepressivi nella BPCO e nel diabete – C. Mencacci (Milano)

Le percentuali della co-presenza di depressione e patologie organiche è molto elevata e nonostante cio’, solo 1 soggetto su 5 riceve un’ adeguata terapia per la patologia psichiatrica. Questo si ripercuote anche sulla funzione socio-lavorativa: in un confronto tra pazienti solo depressi e pazienti con una comorbidità, la percentuale della disfunzione socio-lavorativa del primo gruppo è del 21%, mentre quella del secondo gruppo è piu’ del 50%. Inoltre la depressione in comorbidità ha prevalenza maggiore che la depressione cosiddetta funzionale, portando cio’ ad un aumento della mortalità. Le manifestazioni depressive ed ansiose risultano associate in modo indipendente con bassi livelli di QoL, disabilità fisica, alti costi economici ed elevati livelli di utilizzo delle risorse sanitarie. Purtoppo spesso la comorbidità è sotto diagnosticata, inadeguatamente trattata o non trattata, e il paziente molte volte non riconosce la necessità di trattamento. Infatti meno del 50% dei soggetti riconosciuti con patologia depressiva ricevono una terapia con antidepressive, e di questi solo il 50% riceve una terapie per un tempo adeguato. Sia la depressione maggiore che la depressione minore risultano associate ad un peggioramento della qualità di vita, aumento di morbidità e disabilità funzionale. La depressione inoltre diminuisce la tendenza ad aderire alle prescrizioni mediche . Le aree che il relatore ha maggiormente indagato sono la pneumologia e il diabete.

1) Pneumologia : la prevalenza di depressione in soggetti con BPCO è compresa tra il 25 e il 50%. La difficoltà nel diagnosticare la depressione in pazienti con BPCO è dovuta al fatto che le due patologie hanno sintomi molto simili: faticabilità, disturbi del sonno e dell’ appetito, difficoltà di concentrazione. Inoltre alcuni sintomi psichici possono essere letti come risposta alla malattia fisica. Ma , siccome la mortalità dei pazienti con BPCO e depressione è maggiore, diagnosticare e trattare la depressione è di primaria importanza.

2) Diabete: la prevalenza di diabete in pazienti depressi oscilla tra il 9 e il 27%. L a depressione ha un forte impatto sulla patologia diabetica: ne aumenta le complicanze, diminuisce l’ aderenza alla terapia, alle prescrizioni dietetiche e all’ esercizio fisico. L’ aumento delle complicanze del diabete sembra dovuto ad un’ aumentata secrezione di ormoni anti-insulinici. In questi pazienti le terapie migliori sono gli NDRI seguiti dagli SNRI e SSRI: a differenza dei triciclici, sono associati ad un aumento della glicemia solo a breve termine ma non a lungo termine.

Gli antidepressivi in oncologia- R. Torta (Torino)

La depressione in oncologia fluttua dal 30 al 100%, con un aumento graduale verso la fase terminale della malattia, ed il 90% degli interventi psicofarmacologici è rappresentato da antidepressivi, che vengono utilizzati per disturbi dell’ umore, ansia e dolore. Nel paziente oncologico la scelta dell’ antidepressivo si basa su criteri di tollerabilità del farmaco, determinanti per il mantenimento della compliance in una popolazione, quale quella oncologica, particolarmente fragile. Inoltre in psiconcologia gli effetti collaterale classici degli antidepressivi possono diventare effetti positivi da sfruttare, e viceversa. Un esempio puo’ essere l’ aumento di peso, che puo’ diventare vantaggioso in paziente oncologici defedati e sottopeso. Un altro aspetto importante è che spesso la depressione viene considerata una risposta "normale" in persone a cui è stato diagnosticato un cancro. Invece diversi studi hanno dimostrato che la risposta dell’ umore a trattamenti antidepressivi in pazienti oncologici è sovrapponibile alla risposta avuta in pazienti non oncologici ma solo depressi. Questo sottolinea l’ importanza di trattare farmacologicamente pazienti con cancro e depressi. Importanza dovuta anche al fatto che la depressione è una patologia sistemica, e quindi un miglioramento della depressione porta anche ad un miglioramento dei sintomi fisici e del dolore. Inoltre è proprio la depressione grave ed il dolore a spingere i pazienti a chiedere l’ eutanasia, quindi migliorando appunto la depressione e il dolore diminuisce molto la percentuale dei pazienti che richiedono l’ eutanasia. Il relatore conclude dicendo che la scala di efficacia sul dolore è costituita dal triciclici, seguiti dagli SNRI e poi dagli SSRI. Ma per quanto riguarda la sicurezza e la tollerabilità, al primo posto vi sono gli SNRI mentre all’ ultimo posto troviamo i triciclici. Questo si collega pero’ ad un altro grande problema, cioè che nella maggior parte dei casi in pazienti oncologici gli antidepressivi vengono utilizzati a basse dosi, mentre devono essere usate ai massimi dosaggi terapeutici.

Trattamento antidepressivo nella patologie somatiche: influenza sulla salute e qualità di vita- E. Aguglia(Catania)

Molti studi hanno dimostrato che pazienti affetti da malattie internistiche hanno una elevata prevalenza di disturbi mentale. Le principali sindromi psichiatriche che si riscontrano nei pazienti affetti da malattie somatiche sono i disturbi d’ ansia e dell’ umore. La depressione è diffusamente riscontrata nei soggetti affetti da patologie reumatiche ed appare correlata agli indici di disabilità, di adattamento e di benessere psicologico; inoltre si presenta in comorbidità con la malattia cardiovascolare ed è spesso secondaria ad eventi cerebrovascolari con un esordio 4 mesi dopo l’ evento acuto. In tutti questi casi il rilevamento precoce del disturbo psichiatrico ha una elevata importanza clinica.

Report di Davide Prestia

Simposio Speciale 4, 17 Febbraio, ore 16:00-18:00

CORPOREITA’ E IMMAGINE CORPOREA

Coordinatore: Professore P. Castrogiovanni, Universita’ di Siena

Il Professor Castrogiovanni introduce il Simposio con una breve presentazione inerente il rapporto dell’individuo con la propria immagine corporea, in particolare soffermandosi sul rifiuto per essa come denominatore comune di diverse patologie, quali l’Anoressia Nervosa (rifiuto del volume del corpo per un ostinato disgusto verso il ‘grasso’, con eliminazione progressiva dell’introduzione di cibo e controllo ossessivo del peso), il Disturbo da Dismorfismo Corporeo (sensazione di deformita’ localizzata ad un preciso difetto somatico, inesistente o quasi, continuamente oggetto di controllo, con tentativi di liberarsene tramite trattamenti anche chirurgici) ed il Disturbo Ossessivo Compulsivo Washer (ossessione per lo sporco, compulsione che spinge il soggetto a lavarsi continuamente per liberarsene). Tuttavia elementi che rimandano ad una percezione forse alterata della proprio aspetto sono riscontrabili anche nell’obesità e nella Fobia Sociale: l’immagine corporea potrebbe dunque configurarsi come il carattere comune e peculiare di uno spettro di disturbi psichiatrici, tra i quali i suddetti.

LA COSTRUZIONE MULTISENSORIALE DELLE RAPPRESENTAZIONI DEL CORPO

Professore F. Pavani, Università di Trento

La percezione del proprio corpo da parte dell’individuo si basa su una mappa ordinata presente sula corteccia sensitiva primaria ( il cosiddetto ‘omino sensitivo’), la quale tuttavia presenta importanti distorsioni sia nella posizione reciproca dei distretti corporei (si trovano vicini, ad esempio, mano e volto) sia nelle proporzioni, che, più chele dimensioni, riflettono l’importanza e la concentrazione di recettori sensoriali nel distretto in questione.

Tale distorsione della rappresentazione corporea fu evidenziata già nel 1834 da Weber nell’esperimento detto, appunto, ‘L’Illusione di Weber’, che mostra come la distanza tra due punti sia sovrastimata nei distretti corporei a più alta concentrazione recettoriale, come il polpastrello, e sottostimata, invece, ad esempio, nell’avambraccio.

Successivi studi (2004) hanno pero’ evidenziato come la mente moduli e compensi l’eventualità di cadere in tale illusione tramite l’acquisizione dell’informazione visiva: nel conflitto visuo-sensoriale, appunto, l’afferenza visiva viene considerata più attendibile. Cio’ trova conferma in altri esperimenti, come ‘L’illusone dell’arto finto’, che mostra come l’informazione visiva influenzi profondamente la percezione e la coscienza della posizione non solo dell’arto, ma anche del volto e dell’intero corpo: nella crescita la mente impara infatti a soppesare i sensi in modo proporzionale e coerente alla loro efficienza. La percezione del corpo e’ quindi caratterizzata da una costruzione multisensoriale, le cui conseguenze si manifestano anche a livello sociale.

Gli stessi esperimenti sono poi stati effettuati su un campione di soggetti affetti da Disturbi della Condotta Alimentare, confrontati con un gruppo di controllo epidemiologicamente analogo, al fine di indagare possibili alterazioni nella percezione del proprio corpo in tali patologie. Effettivamente le pazienti affette da DAC hanno mostrato una maggiore precisione e capacità di valutare la distanza tra due punti soprattutto in distretti critici (vita, cosce), nei quali, in assenza dell’afferenza visiva, essa appare sovrastimata; inoltre e’ stato evidenziato che il conflitto visuo-sensoriale si risolve generalmente a favore dell’informazione somatosensoriale, al contrario di ciò che, invece, accade nei controlli. Va sottolineato, pero’, che tale differenza pare annullarsi quando il soggetto non sia precedentemente informato sulla zona corporea che verrà stimolata, ma al contrario gli venga segnalato un distretto diverso.

Si può concludere che la maggiore accuratezza e’ interpretabilecome un’attenzione specificamente e attivamente rivolta verso una specifica parte del corpo, tuttavia maggiore di quella che normalmente sviluppa un soggetto non affetto da DAC.

NUOVI CONTRIBUTI DELLA GENETICA ALLA COMPRENSIONE DELLA FISIOPATOLOGIA DELLA SCHIZOFRENIA

Coordinatore: M. Nardini (Bari)

Neurogenetic mechanisms of schizophrenia (A. Meyer-Lindenberg, Germany)

Lo studio sperimentale delle basi genetiche della schizofrenia ha posto da sempre diversi problemi, a partire dal fatto che la sua variabilita’ nell’espressione fenotipica (a patto che esista come sindrome a se stante) rende difficile garantire quella omogeneita’ del campione che servirebbe per ottenere dei risultati non contraddittori dalle analisi genetiche. Probabilmente un nuovo approccio ai disturbi psichiatrici che parta da insiemi di polimorfismi genici (con il contributo futuro dell’epigenetica), passando per le alterazioni molecolari correlate, per arrivare alla disfunzione di specifici circuiti cerebrali, agli endofenotipi, alle dimensioni psicopatologiche e infine alla malattia psichiatrica manifesta, permettera’ di risolvere almeno in parte questo problema. Coerentemente con cio’, evidenze sperimentali promettenti si focalizzano sullo studio della disregolazione del tuning dopaminergico del sistema prefrontale come via finale comune della dimensione psicotica. Alterazioni correlate riguardano la connettivita’ prefrontale-ippocampale e i sistemi sottocorticali dopaminergici mesostriatali. Sono state individuate diverse varianti geniche che influenzano tali sistemi cerebrali e che, ipoteticamente, potrebbero rappresentare fattori di rischio per lo sviluppo della schizofrenia. Esempi di tali varianti riguardano i geni della COMT e del DRD2 (che modulano il sistema dopaminergico), della SREB2/GRP85 (proteina G altamente conservata evolutivamente), della KCNH2 (di cui l’isoforma 3.1 viene overespressa in cervelli di schizofrenici, portando ad una disattivazione rapida della corrente al K+, con firing non adattativo e ridotta funzionalita’ dell’ippocampo) e della ZNF804A (proteina che probabilmente regola la connettivita’ interemisferica della corteccia prefrontale con conseguente alterazione della processazione dell’informazione a livello prefrontale-ippocampale).

Genetic imaging studies of the NRG1-ErbB4 pathway (J. Hall, UK)

Studi di associazione e di linkage hanno identificato la Neuregolin-1 (NRG1) come uno dei locus di suscettibilita’ per la schizofrenia. La NRG1 viene codificata da un gene molto esteso (1/2000 dell’intero genoma umano) localizzato sul cromosoma 8 (8p) che presenta multipli trascritti suddivisi nei tipi I – VI. La NRG1 è coinvolta sia nello sviluppo del sistema nervoso - influenzando la migrazione neuronale, la mielinizzazione e lo sviluppo assonale, soprattutto a livello talamo-corticale – sia nella plasticita’ neuronale – con conseguenze sulla modulazione glutammatergica, gabaergica e colinergica. Diversi studi hanno dimostrato un’associazione tra alcuni polimorfismi di questo gene e lo sviluppo della schizofrenia. Tali variazioni geniche non modificano la struttura proteica della NRG1, ma ne influenzano l’espressione. Lo studio "Edinburg High Risk" (EHRS) ha studiato l’effetto di tali variazioni geniche sul fenotipo schizofrenico su soggetti ad alto rischio vs controlli non a rischio di sviluppare la schizofrenia, attraverso studi clinici e studi di neuroimaging (RMI strutturale e RMI funzionale): in particolare la variante in omozigosi (T/T) a livello del promoter della regione 5’ (aplotipo "Iceland", Hap-Ice) presenta, a differenza delle varianti in eterozigosi T/G o in omozigosi G/G, una stretta associazione con lo sviluppo di sintomi psicotici (deliri e allucinazioni) in piu’ del 50% dei soggetti ad alto rischio e di diagnosi di schizofrenia nel 13% nella stessa popolazione. In secondo luogo e’ stato evidenziato alla fRMI che lo stesso polimorfismo e’ associato ad una ridotta attivazione dell’area cingolata anteriore e dell’area temporale posteriore. In terzo luogo, utilizzando la MRI pesata in T1 e in DWI, si anche dimostrato una ridotta integrita’ della sostanza bianca del braccio anteriore della capsula interna nel genotipo T/T. Infine e’ stata analizzata una variante funzionale del gene ErbB4 (rs4673628) associata in epistasi con NRG1 con lo sviluppo della schizofrenia. Concludendo questi studi hanno individuato nell’alterazione del sistema NRG1-ErbB4 uno dei fattori di rischio genetico della schizofrenia, passando dalla disregolazione del funzionamento e della connetivita’ della corteccia prefrontale.

Polimorfismo del gene COMT e riserva cognitiva nella schizofrenia: dal laboratorio alla riabilitazione (R. Cavallaro, Milano)

Uno degli endofenotipi della schizofrenia su cui si sono maggiormente concentrati gli studi clinici e preclinici e’ l’impairment neurocognitivo (ovvero l’alterazione di funzioni esecutive, working memory, memoria verbale, attenzione, abilita’ psicomotorie e abilita’ sociali), che e’ presente indipendentemente dallo stato di malattia e si ritrova anche in un’alta percentuale dei familiari di primo grado. La variabilita’ della risposta alla CBT e al social skill training mostrato dai pazienti per quanto riguarda i deficit cognitivi ha fatto nascere il concetto di riserva cognitiva (Stern, 2005), basato sulla compensazione neuronale (ovvero l’attivazione di reti neuronali alternative) e sulla riserva neuronale (a piu’ alta componente genetica). Gli studi piu’ recenti hanno dimostrato che un polimorfismo del gene che regola l’attivita’ delle COMT cerebrali è in grado di influenzare la riserva cognitiva, ovvero le prestazioni di base di soggetti sani e schizofrenici a test neurocognitivi. La COMT influenza la concentrazione della dopamina (DA) a livello della corteccia prefrontale (dove invece il trasportatore della DA, essendo poco espresso, la influenza in minor misura). Il polimorfismo Val/Val del gene della COMT, rispetto a quello Met/Met, determina una maggiore attivita’ dell’enzima e, conseguentemente, una piu’ bassa concentrazione di DA e una piu’ alta espressione dei recettori D1 a livello prefrontale. Questo sembra determinare nei portatori di tale polimorfismo una migliore performance delle funzioni esecutive e cognitive. Alcuni studi del gruppo di lavoro del Prof. Cavallaro hanno dimostrato che tali polimorfismi influenzano la risposta sia agli antipsicotici sia alla CBT. In particolare la clozapina, nella quale il blocco dei recettori D1 prevale sul blocco D2, e’ piu’ efficace nei pazienti portatori del polimorfismo Val/Val (che presentano una piu’ alta concentrazione prefrontale di recettori D1), mentre il Tolcapone (I-MAO) e l’aloperidolo (che blocca principalmente i recettori D2) sono piu’ efficaci nei Met carriers. Infine questi ultimi rispondono meglio alla CBT rispetto ai pazienti Val/Val. Nel complesso questi studi dimostrano come l’analisi di alcuni polimorfismi genetici possa essere cruciale per la scelta di una terapia piu’ specifica che porti ad una riduzione dei casi di resistenza.

Modulazione genetica del signaling dopaminergico studiata con imaging funzionale nell’uomo (A. Bertolino, Bari)

Il sistema dopaminergico modula l’attivita’ della corteccia prefrontale attraverso due vie principali: la via diretta, monosinaptica, ovvero la via mesolimbica che connette i neuroni dopaminergici dell’area ventrale tegmentale con i neuroni glutammatergici del cingolato anteriore, e la via indiretta, polisinaptica, ovvero la via mesostriatale che modula il circuito cortico-striato-talamo-cor

ticale. I recettori D2 sono espressi principalmente a livello sottocorticale, e in particolar modo a livello dello striato. Tali recettori esistono in due isoforme: l’isoforma D2S (short, mancante dell’esone 6), ovvero un autorecettore presinaptico, e l’isoforma D2L (long, dove l’esone 6 non e’ deleto), ovvero il recettore postsinaptico. Le due isoforme derivano dallo splicing alternativo dell’esone 6 del gene DRD2 che codifica per tale recettore, localizzato nel cromosoma 11 (11q22-23). Sono state trovate diverse varianti funzionali di tale gene. Una di queste varianti (rs1076560) e’ stata localizzata a livello intronico e influenza lo splicing alternativo del gene. L’allele G in particolare, rispetto all’allele T, determina una maggior espressione dei D2S e una minor espressione dei D2L. I soggetti G/G sembrano presentare una migliore performance nella working memory rispetto ai soggetti G/T. Tuttavia i portatori G/G dimostrano una maggiore lentezza nell’approccio sociale, una maggiore attivazione dell’amigdala (e relativo fenotipo ansioso) e una maggiore necessita’ di risorse cognitive nell’elaborazione dello stimolo, rispetto ai portatori G/T, che invece dimostrano un maggior controllo e stabilita’ emotiva. Nello studio in questione sono stati genotipizzati 37 soggetti sani per il polimorfismo intronico del DRD2 rs1076560 (G>T). Inoltre gli stessi soggetti sono stati studiati con diverse tecniche di imaging funzionale utilizzando due radio traccianti SPET, [123I]IBZM (che si lega principalmente ai D2 postsinaptici) e [123I]FP-CIT (che invece si lega principalmente ai trasportatori DA presinaptici, la cui densita’ e attivita’ e’ fortemente regolata dai recettori D2 presinaptici). I dati di SPET dimostrano una riduzione di legame striatale dei due radiotraccianti nei portatori dell’allele T (associato a ridotta espressione di D2S), che sembra correlare con una alterazione dell’attivita’ della corteccia prefrontale dorso laterale durante working memory misurata con bold fMRI. Questi dati sono coerenti con la possibilita’ che varianti genetiche del DRD2, influenzando il "filtro" striatale nel bilanciamento della trasmissione eccitatoria-inibitoria del circuito cortico-striato-talamo-cor

ticale, possano incrementare il rischio di schizofrenia.

a cura di Matteo Martino

CORPOREITA' E IMMAGINE CORPOREA

Coordinatore: Professore P. Castrogiovanni, Universita' di Siena

Il Professor Castrogiovanni introduce il Simposio con una breve presentazione inerente il rapporto dell'individuo con la propria immagine corporea, in particolare soffermandosi sul rifiuto per essa come denominatore comune di diverse patologie, quali l'Anoressia Nervosa (rifiuto del volume del corpo per un ostinato disgusto verso il 'grasso', con eliminazione progressiva dell'introduzione di cibo e controllo ossessivo del peso), il Disturbo da Dismorfismo Corporeo (sensazione di deformita' localizzata ad un preciso difetto somatico, inesistente o quasi, continuamente oggetto di controllo, con tentativi di liberarsene tramite trattamenti anche chirurgici) ed il Disturbo Ossessivo Compulsivo Washer (ossessione per lo sporco, compulsione che spinge il soggetto a lavarsi continuamente per liberarsene). Tuttavia elementi che rimandano ad una percezione forse alterata della proprio aspetto sono riscontrabili anche nell'obesità e nella Fobia Sociale: l'immagine corporea potrebbe dunque configurarsi come il carattere comune e peculiare di uno spettro di disturbi psichiatrici, tra i quali i suddetti.

LA COSTRUZIONE MULTISENSORIALE DELLE RAPPRESENTAZIONI DEL CORPO - Professore F. Pavani, Università di Trento

La percezione del proprio corpo da parte dell'individuo si basa su una mappa ordinata presente sula corteccia sensitiva primaria ( il cosiddetto 'omino sensitivo'), la quale tuttavia presenta importanti distorsioni sia nella posizione reciproca dei distretti corporei (si trovano vicini, ad esempio, mano e volto) sia nelle proporzioni, che, più chele dimensioni, riflettono l'importanza e la concentrazione di recettori sensoriali nel distretto in questione.

Tale distorsione della rappresentazione corporea fu evidenziata già nel 1834 da Weber nell'esperimento detto, appunto, 'L'Illusione di Weber', che mostra come la distanza tra due punti sia sovrastimata nei distretti corporei a più alta concentrazione recettoriale, come il polpastrello, e sottostimata, invece, ad esempio, nell'avambraccio.

Successivi studi (2004) hanno pero' evidenziato come la mente moduli e compensi l'eventualità di cadere in tale illusione tramite l'acquisizione dell'informazione visiva: nel conflitto visuo-sensoriale, appunto, l'afferenza visiva viene considerata più attendibile. Cio' trova conferma in altri esperimenti, come 'L'illusone dell'arto finto', che mostra come l'informazione visiva influenzi profondamente la percezione e la coscienza della posizione non solo dell'arto, ma anche del volto e dell'intero corpo: nella crescita la mente impara infatti a soppesare i sensi in modo proporzionale e coerente alla loro efficienza. La percezione del corpo e' quindi caratterizzata da una costruzione multisensoriale, le cui conseguenze si manifestano anche a livello sociale.

Gli stessi esperimenti sono poi stati effettuati su un campione di soggetti affetti da Disturbi della Condotta Alimentare, confrontati con un gruppo di controllo epidemiologicamente analogo, al fine di indagare possibili alterazioni nella percezione del proprio corpo in tali patologie. Effettivamente le pazienti affette da DAC hanno mostrato una maggiore precisione e capacità di valutare la distanza tra due punti soprattutto in distretti critici (vita, cosce), nei quali, in assenza dell'afferenza visiva, essa appare sovrastimata; inoltre e' stato evidenziato che il conflitto visuo-sensoriale si risolve generalmente a favore dell'informazione somatosensoriale, al contrario di ciò che, invece, accade nei controlli. Va sottolineato, pero', che tale differenza pare annullarsi quando il soggetto non sia precedentemente informato sulla zona corporea che verrà stimolata, ma al contrario gli venga segnalato un distretto diverso.

Si può concludere che la maggiore accuratezza e' interpretabilecome un'attenzione specificamente e attivamente rivolta verso una specifica parte del corpo, tuttavia maggiore di quella che normalmente sviluppa un soggetto non affetto da DAC.

BODY IMAGE IN EATING DISORDER - Prof. K. A. Halmi, Weill Cornell Medical College

Diversi studi hanno evidenziato come la costruzione mentale della propria immagine corporea inizi in una fase precoce della crescita, attraverso il graduale sviluppo della percezione sensoriale nel corso degli anni, come osservarono Piaget e Elkin; pertanto l'attenzione e' ora rivolta alla fascia d'età tra i 10 e 18 anni, cosa che comporta non poche difficoltà metodologiche nella creazione di adeguati gruppi di controllo che rendano attendibili gli studi ed i loro risultati.

Da studi condotti da Landa nel 2007 e da Clark nel 2008 si evince che l'insoddisfazione verso la propria immagine corporea, valutata tramite questionari, e' proporzionale al BMI e fortemente influenzata dall'internalizzazione di modelli di riferimento ideali, con una suscettibilita' a tale insoddisfazione che appare diminuire con l'aumentare dell'eta' del soggetto.

Sono state formulate dunque ipotesi sulla presenza di una alterata percezione dell' immagine corporea nei Disturbi della Condotta Alimentare: l'Anoressia Nervosa pare, infatti, derivare da una profonda sensazione di insicurezza e di inefficacia nella gestione della propria vita, al punto di indurre la persona a creare, a guisa di involucro protettivo, un controllo ossessivo per il proprio corpo, la cui efficacia diviene un rinforzo psicologico positivo, e trasmette una sensazione di sicurezza che da' assuefazione. Tale ossessione occupa la mente del soggetto assolvendolo dall'occuparsi degli altri aspetti della vita che gli appaiono molto più difficili da gestire, come la vita di relazione ed i rapporti coi coetanei, che passano in secondo piano, venendo a configurarsi una situazione di restrizione dell'attività della mente e degli interessi con tendenza al progressivo isolamento. Alla base di questo meccanismo, troviamo probabilmente l'inesperienza per mancato apprendimento del problem solving in fasi precoci della crescita, e, conseguentemente, una bassa autostima.

Bassa autostima e sensazione di inefficacia sembrano essere alla base anche del Binje Eating Disorder.

Altre ipotesi chiamano in causa una tendenza, in soggetti insoddisfatti del proprio aspetto, al perfezionismo, che, in questo caso, porta al tentativo di adeguare la propria immagine corporea a modelli di magrezza internalizzati. Sembra essere rilevante, per quanto ancora non accertata, anche la componente genetica, che per ora è stata identificata nei cromosomi 1, 2 e 13.

Riassumendo, si puo' dire che la famiglia, in particolare il rapporto con la figura materna, e la societa' (amicizie, Media, etc.) possono avere una forte influenza soprattutto su soggetti vulnerabili per predisposizione genetica e scarsa esperienza nel problem-solving, nei quali la proiezione dell'insoddisfazione per la propria vita sull'immagine corporea puo' instaurare un meccanismo che, autoalimentandosi, tende alla cronicizzazione.

DISTORTED BODY IMAGE: CLINICAL FEATURE AND TREATMENT OF BODY DIMORFIC DISORDER - Prof. K. A. Phillips, Alpert Medical School of Brown University, Providence, USA

Il Disturbo da Dismorfismo Corporeo, o BDD (Body Dismorphic Disease), e' una realta' clinica relativamente comune ma ancora poco conosciuta, data anche la tendenza dei soggetti affetti a provare vergogna e a nasconderne i sintomi. Non per questo il carico di sofferenza e' alleviato, anzi: il tasso di suicidio appare notevolmente superiore a quello della popolazione generale (o,25%).

I criteri diagnostici per il BDD, secondo il DSM-IV, sono i seguenti:

A. Preoccupazione per un supposto difetto dell'aspetto fisico. Se e' presente una piccola anomalia, l'importanza che la persona le da' e' di gran lunga eccessiva.

B. La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo oppure menomazione del comportamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti.

C. La preoccupazione non risulta meglio attribuibile ad un altro disturbo mentale.

La diagnosi differenziale e' in particolare con l'Anoressia Nervosa (in cui l'ossessione riguarda il volume, non uno specifico difetto del corpo) e il Disturbo Ossessivo Compulsivo, che presenta un maggiore grado di insight.

E' da sottolineare che spesso il BDD si trova in comorbidita' con altri disturbi psichiatrici (DOC, Fobia Sociale, Depressione, etc.).

La prevalenza e' stimata allo 0,7-4% della popolazione generale, per quanto probabilmente questa sia una sottostima: molto spesso la patologia non e' considerato che un atteggiamento superficiale del paziente, generalmente di sesso femminile e di eta' compresa tra i 4 e i 40 anni (picco di esordio massimo a 13 anni). Se, inoltre, stringiamo la ricerca a gruppi selezionati, la percentuale si alza notevolmente, sino al 53% stimato da alcuni studi svolti su pazienti nell'area della chirurgia estetica.

Le caratteristiche del BDD sono le seguenti:

- Ossessione per un difetto estetico in qualsiasi area corpo (piu' frequenti: pelle, capelli, naso, peso, etc.);

- Continua tendenza al controllare (per es. allo specchio) il difetto;

- Tempo speso a pensare al difetto: dalle 3-8 ore a tutto il giorno;

- Insight generalmente assente;

- Comuni idee di riferimento (68%);

- Atteggiamento autolesivo e di scarnificazione;

- Frequenti tentativi di camuffaggio del difetto coprendo e nascondendo il difetto con indumenti, o, spesso, ricorrendo a terapie dermatologiche, odontoiatriche nonche' chirurgiche (tuttavia non risolutive).

La Professoressa proietta un video nel quale due testimonianze esemplificano quanto detto sin'ora, ed in particolare evidenziano la sofferenza delle pazienti affette da BDD, che risulta fortemente inabilitante nei diversi aspetti della vita: molte lasciano il lavoro(39%), non escono di casa per lunghi periodi di tempo, ricevono ricoveri psichiatrici (38%) ed una percentuale notevole tenta il suicidio (24-28%) per portarlo a termine nello 0,25% dei casi.

Il rapporto con la propria immagine corporea presenta le seguenti caratteristiche:

-Insoddisfazione rispetto a diversi distretti corporei;

-Autosvalutazione relativa all'immagine corporea;

-Notevole attenzione rivolta al proprio aspetto e presenza di frequenti azioni atte a modificarlo;

-Peggioramento della qualita' della vita e del funzionamento in varie aree in conseguenza all'aspetto fisico.

-Tentativo di correggere il proprio difetto con manovre anche chirurgiche, che tuttavia non e' quasi mai risolutivo, in quanto il soggetto ne resta insoddisfatto, o comunque sposta l'attenzione su un altro difetto.

La terapia prevede interventi farmacologici, con SSRI ad alte dosi come farmaci di prima scelta (ancora discusso l'uso degli antipsicotici contro i sintomi deliranti), e psicoterapici, con l'uso della Cognitive Behaviour Therapy, finalizzata alla rieducazione percettiva della propria immagine.

Manca tuttavia ancora un protocollo terapico specifico per il BDD.

L'IMMAGINE CORPOREA NELL'OBESITA' - M. Cuzzolaro, Docente di Psichiatria, Psicologia e Psicologia Clinica dell'Università "La Sapienza" di Roma

L'obesita' e' una condizione definita sulla base di caratteristiche fisiche: elevato peso corporeo per elevata percentuale di massa grassa.

In tale ambito, l'atteggiamento psicologico rispetto all'immagine corporea non dipende dal livello intellettivo, ne'dal BMI in senso stretto, e l'alterazione della percezione, qualora presente, e' correlata ad un aspetto affettivo piu' che percettivo o cognitivo: la propria condizione di obesita' e' avvertita, infatti, proprio come una deformita'. Ne' il DSM-IV ne' l'ICD 10 includono comunque l'Obesita' tra le patologie psichiatriche: potremmo infatti considerarla a meta' strada tra i Disturbi della Condotta Alimentare e il disagio da deformita' oggettiva.

Va sottolineato che la 'guarigione' dall'obesita'', intesa come perdita di peso, non comporta, spesso, una diminuzione di questo disagio, ne' una variazione nell'atteggiamento alterato verso la propria immagine (residua un 'vestigial effect' anche nel normopeso), in quanto esse non dipendono direttamente dal BMI, ma da una seria complessa di fattori. Cio' risulta d'altra parte evidente anche dal fatto che tali disturbi non riguardano tutti i soggetti obesi, e, comunque, non proporzionalmente al grado di obesita'.

Tra i fattori di rischio per lo sviluppo di un disturbo nella percezione della propria immagine possono essere evidenziati:

- il genere (femminile);

- l'eta' (giovane);

- l'eta' d'esordio (infanzia e adolescenza, probabilmente per vissuti di derisione);

- la concomitante presenza di un Disturbo della Condotta Alimentare (in particolare il Binje Eating Disorder).

REPORT A CURA DI VERONICA AIELLO

LINK DI APPRONDIMENTO:

http://portale.unitn.it/ateneo/persone/francesco.pavani

 

http://www.weillcornell.or g/kahalmi/

 

http://www.psych.org/MainM enu/Research/DSMIV/DSMV/MeettheTaskForce/KatharineAPhillipsMD.aspx

 

LA RICERCA DI BIOMARCATORI IN PSICHIATRIA

Coordinatore: M. Popoli (Milano)

Biomarcatori per la depressione tramite approcci di profilo proteomici e di RNA in campioni da coorti di pazienti psichiatrici e da trial clinici (E. Domenici, Verona)

I biomarcatori sono parametri biologici non soggettivi di patologia, complementari alla diagnosi clinica o alla valutazione dei soggetti effettuata tramite scale psicopatologiche. In primo luogo tali markers dovrebbero ovviamente distinguere i casi dai controlli, ovvero essere associati al disturbo mentale. In secondo luogo, idealmente, dovrebbero distinguere sottotipi di malattie, stratificando meglio i pazienti in base a diagnosi piu' specifiche al fine di guidare una terapia piu' personalizzata. In terzo luogo potrebbero predire la prognosi, attraverso l'individuazione di valori soglia pre-trattamento che siano correlati a specifici andamenti oppure a risposte piu' o meno favorevoli ai diversi tipi di farmaci. In quarto luogo potrebbero individuare in fase pre-clinica la suscettibilita' a sviluppare specifiche patologie, al fine di instaurare interventi precoci o preventivi. Infine e' auspicabile che tali marcatori possano aiutare ad individuare la disfunzione di specifici circuiti neurali correlati con la fisiopatologia dei disturbi mentali. In pratica i biomarcatori sarebbero centrali nel riportare i disturbi psichiatrici all'interno del resto della medicina, integrandoli nell'unita' della fisiopatologia umana. La ricerca di biomarcatori avviene a diversi livelli: nel DNA (genomica), RNA (trascrittomica) e proteine (proteomica), cosi come a livello neuropsicologico (ad esempio working memory e memoria verbale), di neuroimaging (ad esempio il grado di attivazione della corteccia prefrontale e dell'ippocampo) o periferico (ad esempio i livelli ematici di ormoni, citochine e fattori di crescita). Nonostante numerosi sforzi, allo stato attuale i dati ottenuti sui biomarkers sono scarsi, contrastanti o inconcludenti. Questo forse risente della disomogeneita' dei campioni di studio, da mettere probabilmente in relazione all'approccio categoriale della diagnosi psichiatrica, della relativa ristrettezza dei campioni studiati e della scelta dei parametri sulla base di ipotesi meccanicistiche. Tuttavia la strada sembra comunque promettente, e alcuni risultati si sono dimostrati incoraggianti. E' possibile si possano aggirare almeno in parte alcuni ostacoli utilizzando patterns di biomarcatori, piuttosto che singoli markers, che potrebbero meglio correlare con la complessita' dei disturbi psichiatrici. In particolare i nuovi sviluppi negli approcci genomici e proteomici stanno generando occasioni senza precedenti per lo studio di biomarcatori senza ipotesi "a priori". A tale riguardo sono stati presentati alcuni studi sulla ricerca di markers periferici della depressione, utilizzando lo studio di profili proteomici (circa 80 analiti) o di RNA su campioni provenienti da circa 500 soggetti (250 casi e 250 controlli circa). Ad esempio in un'alta percentuale di pazienti depressi e' stato rilevato un innalzamento dei livelli ematici di insulina e una riduzione di quelli di BDNF. Altre variazioni molecolari individuate riguardano il FKBP5 (che lega i glucocorticoidi, da mettere in relazione ad una iperfunzione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrenal

ico) e la citochina IL10 (il movimento delle citochine nei disturbi mentali e' indicativo della connessione funzionale neuro-endocrino-immunologi

ca). Eseguendo delle analisi multivariate si e' potuto individuare alcuni patterns di biomarcatori periferici relativamente specifici di alcune malattie psichiatriche. Questi risultati promettenti potrebbero contribuire all'obiettivo futuro di una medicina personalizzata.

Psychiatric disorder biomarker discovery. From differential expression to isoforms to pathways (C. Turck, Germany)

Modelli animali riproducibili e validati che rappresentino caratteristiche distinte del fenotipo dei disturbi mentali costituiscono un approccio importante nella ricerca di biomarcatori candidati per i disturbi psichiatrici. A loro volta tali markers possono guidare gli studi nell'individuazione delle disfunzioni di singoli circuiti neurali. Infine, l'integrazione di questi dati nella fisiopatologia permette ipoteticamente di traslare le conoscenze acquisite nella pratica clinica, al fine di guidare diagnosi e terapia nel singolo paziente. Un esempio di questo approccio viene riportato in relazione al modello animale dei disturbi d'ansia. Un modello murino validato in questo ambito e' l'"elevated plus maze", dove viene valutato il tempo speso dall'animale nel braccio aperto della gabbia come misura quantitativa correlata al comportamento ansioso. Attraverso studi di genomica, proteomica e metabolomica, in associazione ad analisi condotte con la spettrometria di massa, sono stati individuati diversi markers candidati per il tratto ansioso, come l'enolasi fosfatasi (EP). Nei topi ricombinanti per la EP la diversa concentrazione di due isoforme dell'enzima (una a maggiore attivita' e una a minore attivita') correlano con il tempo speso dall'animale nel braccio aperto della gabbia. Questi enzimi sono coinvolti in diverse vie metaboliche, ad esempio nella via di salvataggio della metionina e nella via delle poliamine, implicata a sua volta nella modulazione dei recettori NMDA e nel blocco dei recettori per la serotonina. Ulteriori studi clinici e preclinici saranno necessari per traslare in futuro tali risultati nella pratica clinica.

Analisi proteomica di biomarcatori sinaptici in modelli animali di depressione (M. Popoli, Milano)

In questo studio, inserito nel progetto EU-FP6 GENDEP, sono state applicate tecniche di proteomica globale a due modelli animali di depressione: ratti Flinders Sensitive Line (FSL) vs controlli (Flinders Resistant Line, FRL) e ratti Learned Helplessness (LH) vs controlli (non-LH). Il primo e' un modello genetico di depressione, nel quale, per riprodurre l'interazione tra vulnerabilita' genetica e fattori avversi ambientali, i ratti FSL/FRL sono stati sottoposti a stress precoce nelle prime due settimane di vita con un paradigma standard di separazione dalla madre (180 min/die, gg. 2-14) e successivamente, in eta' adulta, sono stati trattati cronicamente con escitalopram. Il secondo e' un modello comportamentale di depressione, ottenuto con un paradigma standard di stress, dove i ratti LH/non-LH sono stati invece trattati con nortriptilina. Da tutti gli animali sono stati preparati terminali sinaptici purificati (o sinaptosomi, costituiti dal terminale sinaptico piu' la componente post-sinaptica) isolati dalla corteccia prefrontale e dall'ippocampo, sui quali e' stata effettuata la 2D-elettroforesi. Da tutti i gel sono state ottenute immagini digitalizzate e le proteine analizzate con software PDQuest. In tutti i confronti le proteine up-regolate o down-regolate in modo differenziale sono state identificate mediante single spot cutting e spettrometria di massa, in comparazione con i database SwissProt e NCBI. Infine i networks di proteine sono stati elaborati con Ingenuity Pathway Analysis software. Applicando questo metodo sono stati individuati diversi patterns di proteine correlati con i modelli animali di depressione, coinvolti principalmente nel metabolismo energetico, funzioni mitocondriali, citoscheletro e plasticita' cellulare. Alcune di queste proteine (aconitato idratasi, subunita' ? della ATP sintasi, fosfoglicerato kinasi, piruvato deidrogenasi E1, NSF, diidropirimidinase-like 2, statmina) venivano up- o down-regolate in maniera opposta da stress e trattamento farmacologico. I dati ricavati suggeriscono un coinvolgimento dei sistemi del metabolismo energetico e della plasticita' cellulare nella patologia depressiva, e alcuni di questi patterns proteomici potrebbero essere utilizzati in futuro come biomarcatori dello stress e della risposta farmacologica.

Complessita' e prospettive dei biomarkers genetici in psichiatria (A. Serretti, Bologna)

Allo stato attuale non e' ancora possibile utilizzare marcatori genetici nella pratica clinica, nonostante oltre 20 anni di ricerche intensive siano state portate avanti in questo campo. Se da un lato e' possibile che a cio' contribuisca la gia' menzionata disomogeneita' dei campioni di pazienti basata sulla diagnosi categoriale non dimensionale troppo grossolana per un'analisi di associazione genetica che porti a risultati significativi, dall'altro bisogna tenere presente che il cervello e' forse l'organo piu' plastico dell'organismo umano e che, in quanto tale, risenta in maniera determinante dell'esperienza. Tuttavia e' indubbio che una componente genetica sia importante nella suscettibilita' a sviluppare le patologie psichiatriche, come dimostrato dal fatto che, ad esempio, sono stati individuati circa 50 loci genetici associati al disturbo bipolare, ma tali associazioni non hanno ancora un ruolo chiaro. Le alterazioni a livello del DNA, sia di struttura che di espressione, quindi, non determinano la malattia psichiatrica in sé, ma contribuiscono a modificare il profilo proteico e quindi metabolico dei circuiti neuronali, che, a loro volta, rispondono in maniera plastica agli stimoli ambientali. Tali networks neuronali, configurandosi come la risultante di sistemi di polimorfismi genici, variazioni epigenetiche e plasticita' neuronale, condizionano la modalita' di risposta adattativa dell'organismo all'ambiente e gli endofenotipi correlati. Questa complessa interazione multifattoriale comporta da un lato capacita' adattative specifiche dell'organismo in determinati ambienti favorevoli, dall'altro specifiche modalita' di presentazione delle dimensioni psicopatologiche in fase di scompenso in determinati ambienti sfavorevoli. Paradigma di tale teoria e' il polimorfismo del promotore del gene codificante per il trasportatore della serotonina. Sono state individuate due varianti di tale gene, il polimorfismo short (S) e il polimorfismo long (L). La variante S (presente nel 20% della popolazione) e' meno efficace nel produrre la proteina, comportando cosi' una minore densita' del trasportatore a livello cerebrale e, conseguentemente, una maggiore rigidita' e minore adattabilita' fine del sistema serotoninergico. Tali caratteristiche influiscono sulla struttura neuroanatomica e sulla modulazione neurofunzionale di diversi circuiti neuronali, ad esempio determinando variazioni strutturali dell'ippocampo e dell'amigdala, che diviene iperreattiva (in quanto la serotonina ha una funzione inibitoria su questo nucleo). Ne risulta che i portatori S presentano un temperamento ansioso-depressivo. Tuttavia in ambienti favorevoli tali soggetti sono favoriti e piu' efficienti, presentando migliori prestazioni della working memory e di altre funzioni esecutive, fino ad avere un migliore adattamento sociale, familiare e scolastico, come dimostrato dal maggior tasso di scolarita' dei portatori S che non hanno subito life events nell'infanzia rispetto ai controlli L nella stesse condizioni ambientali. Quando pero' i portatori S sono sottoposti a stress ambientali significativi, piu' facilmente sviluppano sintomi ansiosi e depressivi, fino a disturbi conclamati d'ansia e dell'umore. In questi soggetti il sistema serotoninergico piu' rigido riesce a modulare meno finemente il tono glutammatergico indotto dallo stress, cosa che esita piu' facilmente nelle eccitotossicita' su alcune strutture, tra cui l'ippocampo, che va in atrofia (anomalia evidenziata spesso con tecniche di neuroimaging in pazienti depressi). Concludendo l'approccio integrato neurogenetico-neurobiologi

co pone le basi forse per rivoluzionare in futuro la pratica clinica della psichiatria.

Report a cura di Matteo Martino

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