QUALI RISPOSTE A QUALI BISOGNI note a margine ad un discorso sugli OPP

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25 ottobre, 2012 - 22:05

"Sembra che nessuno voglia riconoscere che la storia contemporanea ha creato un nuovo genere di esseri umani - quelli che sono stati messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici."
Hanna Arendt

"Che cosa sia inevitabile e cosa non lo sia risulta sempre e soltanto dall'esame di ciò che é stato davvero evitato o meno...dopo seri tentativi"
Hans Jonas.

 

 

"Giudica opportuna la definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici?" A questa domanda posta nell'ambito di una nostra ricerca sulle opinioni riguardo i disturbi mentali e i servizi di assistenza (3), il 48,2% dei medici di medicina generale ha risposto di no (4), se prendiamo in considerazione un campione randomizzato di dipendenti di un'azienda sanitaria tale percentuale passa al 47% (5), salendo al 65,8% fra gli studenti degli ultimi due anni delle superiori (6).

Se ci arrischiamo ad insistere e proviamo a chiedere "Ritiene che le nuove modalità di assistenza previste dalla legge siano vantaggiose o svantaggiose per i pazienti?", possiamo vedere come solo il 51% dei MMG le consideri vantaggiose, percentuali che scendono al 43% nel campione di operatori e al 18,7% fra gli studenti (43,9% i non so).

Comunque il 55,4% dei MMG e degli operatori, il 61,7% degli studenti intervistati sarebbe favorevole ad un ripristino dei ricoveri in OP.

Se accompagniamo tali dati con le scarse informazioni sui disturbi psichici, sulla legislazione vigente e sui servizi che erogano l'assistenza psichiatrica, presenti anche fra i professionisti che operano nel campo della sanità, dobbiamo accompagnare affermazioni come quella di Vittorino Andreoli "Sono felice della morte dei manicomi che fanno parte dell'archeologia del dolore e nessuno può rimpiangerli", a una riflessione sulla relazione dialettica che caratterizza:

  • l’espressione dei bisogni sanitari e sociali da parte del paziente, della sua famiglia e della collettività;
  • i bisogni che vengono percepiti e accolti da parte dei tecnici e degli amministratori;
  • le risposte che vengono proposte e/o imposte.

Nell’area della salute mentale, più che in altri ambiti, è evidente come i bisogni esprimibili, percepibili e accoglibili, come pure la tipologia delle risposte siano influenzati da vari fattori, fra i quali un ruolo preminente è svolto dalla rappresentazione sociale della malattia mentale e dei servizi che se ne occupano; paradigmatico a tal proposito è l’impressione di un "fallimento" della psichiatria di comunità in contrapposizione all’apparente "successo" della psichiatria mediatica con, sullo sfondo, un apparato normativo strutturato che si continua a "fantasticare" (dal giorno dopo la sua approvazione) di modificare / distorcere / cancellare, anziché attuare.

Vorrei di seguito dare alcuni spunti su questi temi.

Rappresentazione sociale della Malattia Mentale

La rappresentazione sociale di una situazione è un’attività "complessa di ristrutturazione completa della realtà, in cui le dimensioni psicologiche, sociali e ideologiche hanno un ruolo determinante" (7) che investe tre aree: il soggetto pensante, l’oggetto della rappresentazione (oggetto pensato) e il contesto sociale in cui si colloca il soggetto e all’interno del quale si instaurano le relazioni soggetto/oggetto.

In altre parole, la rappresentazione dipende da meccanismi cognitivi, dalle caratteristiche individuali del soggetto, dalla realtà sociale; e costituisce la cristallizzazione delle idee, delle norme, e dei valori del gruppo sociale in cui si produce.

Approfondire la rappresentazione sociale della malattia mentale significa quindi aprire una finestra sugli schemi concettuali che condizionano l’espressione dei bisogni da parte delle persone con un disturbo mentale, delle loro famiglie e della comunità in cui vivono; e ne orientano la percezione, la codificazione e la classificazione da parte dei tecnici e degli amministratori. [ nota 1]

Partire da un’analisi della letteratura sulle strategie applicate per la riduzione del pregiudizio . [ nota 2] , potrebbe esserci utile per approfondire i meccanismi che sostengono e alimentano gli stereotipi . [ nota 3] sulla malattia mentale.

La maggior parte degli interventi in quest’area si basa sulla ipotesi del contatto, secondo cui, moltiplicando le occasioni di prossimità con il gruppo caratterizzato da una qualsivoglia diversità e incrementando la diffusione di elementi conoscitivi su di esso, si possono modificare gli stereotipi negativi che sottostanno ai comportamenti discriminatori.

In realtà già Allport nel 1954 segnalava come una riduzione del pregiudizio fosse possibile solo in presenza di determinate condizioni quali: un obiettivo comune da realizzare, un sostegno normativo, l’eguaglianza di potere e di statuto fra i gruppi in contatto.

Ricerche successive hanno evidenziato altri elementi necessari (9, 10) quali: la possibilità di percepire le persone con cui si viene in contatto come prototipi e non come eccezioni; la distinzione fra compresenza e contatto; la necessità che il contatto avvenga in condizioni favorevoli . [ nota 4] .

Si è inoltre osservato come un aumento del contatto intergruppo e un apporto conoscitivo presi isolatamente, possono avere effetti controproducenti; mentre se sono attentamente programmati ed integrati, possono costituire la base per realizzare interventi più approfonditi ed efficaci (11); si è visto inoltre come non necessariamente al pregiudizio si accompagni la discriminazione e come, viceversa, un comportamento obiettivamente discriminatorio possa essere esente da pregiudizi (10, 12).

Da questa relativa assenza di interdipendenza deriva, come conseguenza negativa, che un'eventuale modifica della valutazione cognitiva dell'oggetto del pregiudizio e della correlata disposizione emotiva, non rappresenta una condizione sufficiente per un cambiamento del comportamento, in quanto influenzato da un'adesione conformistica alle norme sociali o culturali del gruppo di appartenenza. . [ nota 5]

Quanto sopra evidenzia come la conoscenza dell’altro e di informazioni acquisite sull’altro, la relativa capacità/possibilità di provare e suscitare emozioni e la cultura del gruppo di appartenenza rappresentino gli elementi che concorrono a mantenere o modificare le rappresentazioni sociali relative ai disturbi mentali che, nelle ipotesi proposta da Scheff (1963), si formerebbero nell’infanzia e verrebbero poi confermate nelle fasi successive della vita.

Ripercorrendo la letteratura possiamo osservare come nel caso delle malattie mentali vi sia una tendenza alla costanza nel tempo delle tipologie di rappresentazioni, "tradizionalmente le variegate esperienze di sofferenza psichica appaiono condensate in topoi ben definiti" (7) quali:

  • la possessione diabolica,
  • l’esperienza di panico,
  • il mistico ("la possessione divina"),
  • le figure del "mondo alla rovescia che si esprime attraverso il linguaggio blasfemo irriverente e paradossale, la centralità della vita materiale e corporale, l’abbassamento e il sovvertimento delle gerarchie. Ne emergono le figure del buffone, della ninfomane, del mendicante, dell’idiota" (7).

Questo "non conosciuto" veniva familiarizzato attraverso attribuzioni di imprevedibilità, di pericolosità e di estraneità, che hanno portato ad individuare quali bisogni di queste persone quelli strettamente legati al soddisfacimento dei bisogni elementari e al controllo sociale, a cui hanno corrisposto risposte custodialistiche di tipo espulsivo ("la nave dei folli" o altre forme con lo stesso significato) o inclusivo (il manicomio).

Attualmente, a 25 anni dalla legge di riforma, vediamo come connotazioni quali la pericolosità, l’imprevedibilità, l’inaffidabilità, l’incapacità a badare a se stessi, costituiscano uno stigma che continua ad accompagnare le persone con disturbi psichici interferendo con la possibilità per loro di una soddisfacente qualità di vita.

Fra gli elementi che possono influire sulle opinioni e gli atteggiamenti delle persone significativa è la possibilità di conoscenza attraverso il contatto con persone con disturbi mentali e l’acquisizione di informazione attraverso i mass media.

Il contatto con persone affette da disturbi psichici, diventato più frequente a seguito dei processi di deistituzionalizzazione, richiede per poter consentire un’effettiva conoscenza dell’altro di avvenire in un contesto favorevole; tale condizione può concretizzarsi se ci sono servizi sanitari presenti, visibili, in grado di incidere sui bisogni di cura e riabilitazione; servizi sociali in grado di rendere possibili condizioni di vita dignitose; amministratori disponibili a creare opportunità di integrazione.

Nell’acquisizione e nel contenuto delle informazioni in epoca di globalizzazione, i media hanno un ruolo fondamentale . [ nota 6] ; una revisione della letteratura sui rapporti fra mass media e malattia mentale mette in evidenza cinque assunti:

 

  1. I media rappresentano attualmente la prima fonte di informazioni sulle malattie mentali;
  2. I media tendono a proporre una rappresentazione dei disturbi psichici negativa;
  3. C’è una connessione fra l’immagine negativa proposta dai media e l’atteggiamento negativo dell’opinione pubblica verso le persone affette da disturbi psichici;
  4. La rappresentazione data dai media ha un’influenza diretta sulle persone ammalate;
  5. C’è una connessione fra rappresentazione data dai media e risposte date dai governi al tema della salute mentale.

Numerose inchieste (15, 16, 17, 18, 20, 21, 36) hanno messo in evidenza come i media, in particolare la televisione nella sua molteplicità di programmazione, siano stati indicati dagli intervistati come la principale fonte di informazione sulle malattie mentali e le persone da queste affette, come si può vedere ad esempio nella tabella che segue tratta dallo studio della National Mental Health Association (USA) del 1997.

 

POPULAR SOURCES OF INFORMATION ABOUT MENTAL ILLNESS

 

TV newsmagazine shows

70%

Newspapers

58%

TV news

51%

News magazines

34%

TV talk shows

31%

Radio news

26%

Other magazines

26%

Internet

25%

Non-fiction books

25%

Talk shows on radio

18%

Women’s magazines

18%

NMHA: "Stigma matters assessing: the media impact on public perception of mental illness (1997); in Hottentot, 2000.

 

 

Alcune ricerche hanno approfondito la relazione fra il tempo trascorso a guardare la televisione e l’atteggiamento verso le persone con disturbi mentali; fra gli intervistati che avevano citato la televisione come principale fonte di informazione si è rilevato come tanto maggiore era il tempo trascorso davanti alla televisione tanto minore era risultata la tolleranza manifestata (34); si è visto inoltre come le persone esposte a ripetute rappresentazioni negative tendano a mantenere un atteggiamento negativo anche dopo esposizioni ripetute a stimoli di carattere opposto (35).

Le modalità attraverso cui vengono veicolate le informazioni sono molteplici, in primo luogo le news che riferiscono su eventi connessi con i temi della salute mentale o fatti di cronaca collegati a ragione o a torto a persone con disturbi psichici, i talk show, film o commedie attraverso sia le trame sia le caratteristiche che connotano i personaggi.

Nella maggior parte delle descrizioni vengono messi in evidenza elementi quali: l’assenza di un ruolo sociale, l’essere soli e frequentemente disoccupati, la possibilità di comportamenti violenti e pericolosi per gli altri e/o se stessi, l’imprevedibilità (22, 25, 30), il costituire un carico per la società in quanto incapaci di contribuire positivamente alla vita della comunità di appartenenza (27); questo punto di vista può influenzare il modo in cui vengono trattati altri temi quali le cause, la diagnosi, i trattamenti e la prognosi delle malattie mentali.

Scorrendo le programmazioni della televisione possiamo trovare personaggi che incarnano: spiriti ribelli, seduttrici violente, narcisisti parassiti, scienziati matti, manipolatori astuti, donne smarrite e depresse (28).

Nella rappresentazione di questi personaggi spesso il disturbo mentale o un comportamento comunemente associato ad un disturbo mentale diventa la principale caratteristica ponendo in secondo piano ogni altro aspetto; in questa descrizione unidimensionale il disturbo "diventa" la persona (29).

Spesso viene persa la distinzione fra disturbi mentali e ritardo mentale con immagine del paziente come sciocco e vulnerabile.

L’approccio dei media al tema di cui ci stiamo occupando non sembra diverso nei programmi per l’infanzia; uno studio (51) che ha monitorato 46 programmi per bambini sotto i 10 anni ha messo in evidenza come in quasi il 50% di questi, in particolare i cartoni animati, fossero presenti riferimenti ai disturbi psichici espressi con connotazioni verbali prevalentemente negative collegate ad una perdita di controllo.

L’uso di parole come matto, pazzo, insensato, svitato . [ nota 7] danno l’idea ai bambini che questi termini sono accettati e/o divertenti. Questi modelli comportamentali contribuiscono ad insegnare al bambino come separare, allontanare o mettere sotto gli altri attraverso angherie, intimidazioni e molestie verbali.

I personaggi proposti possono essere oggetto di divertimento, di derisione o di paura, la genericità dei disturbi rappresentati favorisce la generalizzazione di questa descrizione negativa a tutte le persone con disturbi psichici.

Non sempre, verrebbe da dire raramente, i media riescono a conciliare la funzione di fornire una corretta e responsabile informazione con le logiche di mercato; questo avviene con frequenza nel campo della salute mentale . [ nota 8] , dove spesso vengono utilizzati eventi che coinvolgono persone con disturbi psichici per risvegliare paura nei lettori e vendere copie. Si da l’impressione di comprendere quelle preoccupazioni che si è contribuito ad alimentare, cercando di trasmettere l’idea di essere impegnati a fianco dei lettori nella costruzione di una comunità locale migliore.

In questa logica la metà della copertura informativa sulla malattia mentale ne propone l’associazione con la violenza o con altri reati (24, 25, 26). L’enfasi su crimini compiuti da veri o presunti pazienti psichiatrici rinforza la percezione pubblica che le persone con problemi psichici sono violente e costituiscono un pubblico pericolo.

I creatori di programmi che riproducono questi stereotipi non sembrano consapevoli dei riflessi che questo ha, producendo un danno (23) sia sulla popolazione generale a livello di opinioni ed atteggiamenti, sia direttamente sulle persone ammalate che si confrontano con questi prodotti (49).

A tal proposito ricordiamo come, in una ricerca effettuata da Mind su 515 persone affette da disturbi psichici, la metà del campione abbia risposto che le notizie di cronaca come sono presentate dai media avevano effetti negativi sulla loro salute mentale, un 34% vi attribuiva un aumento dei livelli di ansia e depressione; un altro 22% riteneva che tale immagine negativa contribuisse ad accrescere la tendenza a chiudersi in se stesso e ad isolarsi (30).

Un’area al centro dell’interesse è l’influenza dei media sui comportamenti suicidari, dove sono emerse evidenze relative a meccanismi di imitazione indotti da descrizioni accurate delle modalità con cui è stato attuato l’atto o dalla notorietà dei personaggi (53); ma anche la possibilità di incidere sulla frequenza dei gesti autolesivi modificando le modalità di diffusione delle informazioni.

Uno studio di qualche anno fa (54) sui suicidi e tentati suicidi nella metropolitana di Vienna ha evidenziato una riduzione della loro frequenza dopo l’adozione da parte degli organi di stampa di linee guida su come dovevano essere date le notizie che prevedevano fra l’altro la pubblicazione solo di articoli brevi, privi di toni sensazionalistici, evitando se possibile la prima pagina.

Wahl in un’intervista su Psychiatric Times ricordava come le persone con disturbi psichici siano anch’esse lettori e spettatori di queste immagini negative, e di come provino vergogna e imbarazzo per queste rappresentazioni.

Di come inoltre siano consapevoli che c’è una considerazione negativa di loro e di come questo danneggi la loro autostima e la sicurezza in se stessi; questo stigma che accompagna le persone con disturbi mentali, inoltre, aumenta la probabilità che queste e i loro familiari tengano nascoste le proprie sofferenze e di conseguenza non si rivolgano ai servizi per chiedere aiuto.

D’altro canto anche i professionisti della salute mentale sono esposti agli stessi messaggi della popolazione generale, di cui spesso condividono i pregiudizi (33); e questo può portare ad una presa in carico permeata della stessa connotazione negativa proposta dai media che influenza sia la percezione dei bisogni che la tipologia di risposte che vengono attivate.

Analogamente le rappresentazioni sociali diffuse nella popolazione hanno un impatto sulle decisioni degli amministratori, se ad esempio il pubblico considera le persone affette da disturbi psichici come violente e/o incapaci di badare a loro stesse, le politiche dei governi e le legislazioni conseguenti guarderanno più verso il controllo dei pazienti che verso il recupero e il rientro nella vita della comunità.

Se la percezione collettiva della malattia mentale è alimentata da immagini negative e distorte mantenute dai media, c’è il pericolo che le risposte dei governi alle persone e alle strutture nel campo della salute mentale siano basate su queste false realtà piuttosto che sui veri bisogni e problemi delle persone che soffrono di disturbi psichici (18, 19).

Commento:

Il superamento dello stigma che accompagna la malattia mentale viene considerato dal WHO una priorità in quanto gli atteggiamenti e i comportamenti che conseguono ad una rappresentazione sociale negativa sono in grado di influire sull'accessibilità dei servizi, sulla diffusione dei trattamenti efficaci, sull'adesione agli stessi, sulla qualità della vita delle persone con disturbi psichici e dei loro familiari.

Diventa allora evidente come sia necessario promuovere un'operazione culturale in grado di incidere sia sui determinanti cognitivi sia sugli aspetti emotivi che sostengono i pregiudizi.

In questi ultimi anni sono state avviate numerose iniziative che hanno coinvolto contesti diversi sia a livello di popolazione generale sia specifici quali la scuola, i medici di medicina generale, gli ambienti di lavoro.

Da questo punto di vista emergono bisogni e risposte quali:

  • Un’Informazione corretta sulla malattia mentale e i servizi di assistenza, a cui consegue la necessità che ogni DSM utilizzi sia i canali tradizionali (guide, incontri), che le opportunità peculiari che i territori offrono per diffondere informazioni in forme comprensibili per "chi sta dall'altra parte". Fondamentale inoltre è avviare un rapporto con i media che prima di essere critico, dovrebbe essere autocritico, dato l'uso che gli stessi psichiatri fanno dei mezzi di informazione. A tal proposito potrebbe essere utile il decalogo che Byrne propone per rendere proficuo il rapporto fra operatori della salute mentale e operatori dei media.
  • Una maggior conoscenza di persone che vivono situazioni di disagio mentale che, abbiamo visto, può avere risvolti positivi se il contatto avviene in situazioni in cui la persona comune possa, nell'incontro, fare l'esperienza di ritrovare "elementi di umanità" nelle persona con un disturbo mentale e non solo "una concomitanza di sintomi".
  • Un aumento della consapevolezza individuale e collettiva delle ricadute che atteggiamenti e comportamenti hanno sul mantenimento dello stigma che accompagna la malattia mentale. Diventa necessario allora promuovere opportunità di riflessione e confronto sia utilizzando iniziative formali sia inserendosi in quelle manifestazioni che sono espressione della cultura locale. Un capitolo a parte meritano i professionisti coinvolti nell'assistenza psichiatrica relativamente al loro ruolo nel contribuire a determinare e mantenere lo stigma, varrebbe la pena soffermarci su aspetti critici quali (55, 56):
  • l’accuratezza dei processi diagnostici;
  • l’utilizzo della diagnosi come etichetta;
  • la selezione delle patologie che vengono prese in carico;
  • l’attenzione anche per le patologie organiche concomitanti ai disturbi mentali che sono responsabili di una minor aspettativa di vita di queste persone;
  • l'attenzione alle modalità con cui vengono effettuati interventi quali i TSO;
  • l'attenzione agli effetti collaterali dei neurolettici che possono rendere immediatamente visibile come diverso un paziente, interferendo con la possibilità di rapporti interpersonali.

 

Psichiatria di comunità e Psichiatria mediatica

Passando alla quotidianità dei servizi e dei loro utilizzatori reali e/o potenziali, si coglie un malcontento generale, una crisi strisciante della psichiatria (37) che si declina da un lato nella percezione collettiva di un fallimento dell’approccio di comunità, dall’altra, fra gli operatori, in una "fuga" attraverso l’adesione a modelli teorici apparentemente forti come alternativa ad una riflessione sulla malattia mentale, il ruolo della psichiatria e dei professionisti "della salute mentale" all'interno della società.

Su questo registro si colloca l’immagine che emerge dalla nostra ricerca sull’opinione che diverse tipologie di persone hanno dei servizi (3, 4, 5, 6): una riforma dell’assistenza psichiatrica non attuata (MMG: 43,4%, operatori sanitari: 40,2%), da cui discende una non chiara opinione riguardo la positività o meno per i pazienti di un trattamento nel territorio; la percezione di un carico eccessivo per le famiglie (MMG: 83,1%, operatori sanitari: 82,2%, studenti 52,2%); l’opportunità di ripristinare la possibilità di ricovero in ospedale psichiatrico (MMG: 55,4%, operatori sanitari: 55,4%, studenti 61,7%).

A fronte di ciò la maggior parte delle persone ritiene che la legge 180 vada modificata (MMG: 67,5%, operatori sanitari: 64,1%, studenti 45,6%).

Leff in un’editoriale del 2001 ha provato ad approfondire se questa percezione corrispondesse ad un fallimento reale di un modello assistenziale o invece ad una sensazione, favorita da molteplici cause, cui corrispondono progetti di riforme più restrittive da parte dei governi, com’è accaduto in Gran Bretagna con la proposta del nuovo Mental Health Act o in Italia con le proposte di revisione della Legge 180/78.

Fra le cause che possono contribuire a questa sensazione di fallimento vengono segnalate:

  • La "scarsa visibilità" di un servizio territoriale contrapposta alla "visibilità" dell’ospedale psichiatrico: "un buon servizio psichiatrico territoriale —scrive Leff- è virtualmente invisibile: le residenze per i pazienti sono volutamente indistinguibili dalle case dei vicini, secondo la filosofia della normalizzazione … gli operatori psichiatrici non indossano la divisa …i reparti psichiatrici spesso sono parte integrante dell’ospedale generale". E conclude rilevando come "la drammatica presenza architettonica dei manicomi è stata sostituita da un’apparente assenza".
  • La complessità organizzativa delle reti assistenziali a fronte della semplicità del recinto del manicomio. Di fatto, è un dato assodato come in psichiatria, più che in altri ambiti della sanità, sia difficile far arrivare informazioni, sia alla gente che alle altre figure sanitarie, su come e dove ricevere assistenza in presenza di una situazione di sofferenza mentale. D’altro canto credo faccia parte dell’esperienza comune come a seguito di iniziative di informazione/formazione almeno per un certo periodo aumenti l’afflusso di utenti. Questa complessità si complica spesso, con la difficoltà delle equipe di produrre un modello assistenziale condiviso a sostegno di un progetto organizzativo.
  • "La vita sulla strada": un dato evidente è l’aumento dei senzatetto che vivono sulla strada, molti dei quali sono persone che presentano disturbi psichici. Il fenomeno dei "senza fissa dimora" in Italia coinvolge tra 60 e 80 mila persone, ed è legato alla molteplicità delle storie personali: malattia mentale, alcolismo, tossicodipendenze, disoccupazione, sfratti e crisi familiari. Tra i senza tetto - per tre quarti maschi - la componente al di sotto dei 35 anni, sfiora il 40% del totale, contro 45,6% della fascia tra i 35 e i 54 anni, l’11,3% di quella compresa tra i 55 e i 64 e il 5,7% degli ultra sessantaquattrenni. Il 48,2% non intende avvalersi dei "servizi sanitari", mentre la restante parte o non sa come accedervi o trova l’accesso difficile o, nel 25% dei casi, vi ricorre solo nei casi d’urgenza (38). La malattia mentale è ritenuta genericamente una delle cause della condizione di "senza fissa dimora", in realtà sembra al terzo posto, come fattore causale, dopo i motivi economici e relazionali. Si stima che il 30 % dei soggetti "senza fissa dimora" abbia esperienza di ricoveri in manicomio, o in altre strutture psichiatriche di lunga degenza. Se i disturbi psichici sono una possibile causa per una condizione di homeless, questa a sua volta è un fattore di rischio per il paziente di diventare vittima di soprusi e violenze (40). Per quanto attiene ai rapporti fra i servizi psichiatrici e questo target di popolazione, vi è una difficoltà di presa in carico, che può arrivare allo "scarico", poiché tali soggetti manifestano incapacità nel rispetto delle regole interne alla struttura e quindi diventa difficile mantenere nel tempo una continuità nella cura: i "barboni" si presentano tardi alle visite, dimenticano gli appuntamenti presi a distanza di mesi e dimostrano una scarsa attenzione alle proprie condizioni di salute, da cui la scarsa partecipazione alle cure.
  • I comportamenti violenti delle persone con disturbi mentali sono notevolmente enfatizzati dai mezzi di comunicazione tanto da occupare gran parte dello spazio dedicato alle malattie mentali; i contenuti più spesso proposti sono comportamenti violenti verso se o gli altri (48% degli articoli sulla stampa nazionale, 75% nei tabloid (24). Questo a fronte dei dati provenienti dai diversi studi da cui emerge come la frequenza dei comportamenti violenti nelle persone con disturbi psichici maggiori sia superiore a quella degli altri soggetti, ma attribuibile ad un piccolo sottogruppo in cui giocano un ruolo fondamentale la comorbilità con l’abuso di sostanze, la presenza di una diagnosi di disturbo di personalità (41, 42, 43, 50) e l’assenza o la non adesione ai trattamenti. La proporzione dei reati violenti commessi da questo sottogruppo è tuttavia bassa rispetto alla globalità e con un trend in riduzione negli ultimi decenni (48).

Parallelamente alla psichiatria "della quotidianità" in difficoltà nella ricerca costante di una posizione fra polarità quali cura/custodia, modello biologico/psicologico/sociologico e modello bio-psico-sociale vi è un’altra psichiatria, che sembra godere di buona salute, quella dei talk show in cui ogni tema diventa un possibile campo di applicazione di teorie psicologiche e/o criminologiche.

I media, in particolare la televisione, sembrano occuparsi delle malattie mentali proponendo un’immagine stigmatizzata delle persone con disturbi psichici e scarsa incisività dei servizi come abbiamo visto in precedenza e, parallelamente coinvolgendo psichiatri e/o psicologi nei vari programmi ad ogni piè sospinto, a proposito di situazioni riconducibili fondamentalmente a due aree:

  1. il fatto di cronaca generalmente violento: aggressioni, delitti in famiglia.. rispetto ai quali allo psichiatra viene chiesto di interpretare un caso o una situazione non conoscendoli, dimenticando che il nostro è un mestiere che si fa con il malato davanti. In questi contesti sembra che importante non sia tanto quello che viene detto o la comprensione dell’evento, quanto la funzione di rassicurare la ragione della gente comune collocando il comportamento in un campo altro, quello della s-ragione e delle aberrazioni mentali.
  2. l’evento esistenziale vissuto come problema di cui viene delegata la comprensione e la soluzione allo psichiatra, "di fatto stigmatizzandolo come anomalo e patologico anche quando si tratta solo di accadimenti e comportamenti diversi dal passato, ma contestuali alle modalità di vita che sono dominate da valori in cui prevalgono l’individualismo, l’intolleranza verso i socialmente deboli, le paure del meticciato antropologico determinato dai flussi migratori" (44).

 

Commento

La percezione di fallimento dell’attuale organizzazione dell’assistenza psichiatrica, che si correla con una scarsa visibilità della funzione curante, ha profonde ricadute sia sull’accessibilità e sull’appetibilità dei servizi da parte dei potenziali utilizzatori, sia sui criteri di distribuzione dei finanziamenti da parte degli amministratori, soprattutto in questa fase di contingentamento delle risorse.

Accanto alle ragioni "esterne" individuate da Leff vanno presi in considerazioni alcuni aspetti intrinseci al DSM, fra questi la considerazione che le domande di cura e le relative risposte sono espressamente esercitate in funzione dei modelli di salute e di malattia dominanti nel corpo sociale e nelle equipe curanti.

I DSM sono tradizionalmente organizzati per accogliere come domanda di cura prioritaria quella relativa alla malattia grave, invalidante rispetto alla quale obiettivi importanti sono la remissione o la stabilizzazione dei sintomi più invasivi, l’aumento della tolleranza e la diminuzione della criticità familiare, la possibilità di reintegrare il cittadino malato in un contesto abitativo e lavorativo normale. In difficoltà invece appaiono quando viene richiesto di modificare la loro organizzazione per esserci quando vecchi bisogni di cura si declinano con modalità di espressione o tempistiche diverse da quelle previste tradizionalmente nei servizi (le dipendenze, i disturbi del comportamento alimentare, le depressioni …) o davanti a bisogni di cura nuovi (le reazioni depressive a gravi malattie in passato mortali, che ora vengono stabilizzate, i disturbi mentali nelle carceri …); o infine i bisogni di cura nuovi che non riescono ad esprimersi secondo una fenomenologia comprensibile (44).

S’impone quindi una riflessione sulle prassi operative delle equipe.

Partirei da una definizione di presa in carico (45), vista come l’insieme delle operazioni complesse che un’equipe multiprofessionale mette in atto quando una persona, che sta attraversando un episodio di malattia mentale grave si rivolge direttamente o tramite terzi al CSM per chiedere aiuto; per Ballerini (1994) quello è "il momento attraverso il quale un gruppo di lavoro opera una selezione rispetto all’utenza e, al tempo stesso, consolida le proprie attività" e, inoltre, attua "un’assunzione di responsabilità nei confronti di un’utenza territoriale definita" (61).

Vorrei sottolineare in queste definizioni gli aspetti di "selezione rispetto all’utenza", di "consolidamento della propria attività" e di "responsabilità nei confronti di un’utenza territorialmente definita"; questi tre elementi trovano una diversa articolazione ed un diverso significato in rapporto con l’impatto che le diverse teorie hanno sul contesto di riferimento; le quali attuando differenti modalità di percezione e lettura dei bisogni, generano diversi modelli organizzativi.

Da questi discendono pratiche diverse che caratterizzano i modi, i tempi e i luoghi in cui la presa in carico si articola nei diversi momenti della storia clinica di una persona, cioè nei trattamenti.

Queste teorie più o meno esplicite, più o meno consapevoli riflettono ciò che i componenti dell’organizzazione pensano riguardo:

 

  • se stessi e il proprio ruolo nell’organizzazione
  • le funzioni del gruppo di appartenenza
  • l’uomo
  • la malattia
  • il "sociale"
  • influenzando le modalità con cui viene interpretato il mandato istituzionale.

 

Alla luce dei vincoli legislativi vigenti (Dlvo 229/99, Dlvo LEA) diventa evidente come ogni DSM a fronte delle risorse che riceve dovrebbe sviluppare un’organizzazione in grado di produrre un profilo di attività essenziali omogeneo rispetto al quale, poi particolari competenze o interessi del singolo professionista o del gruppo costituiscono un valore aggiunto che si sostanzia in "servizi aggiuntivi" che possono conferire ai diversi DSM una particolare fisionomia.

La questione che si pone diventa quindi, quali condizioni possono consentire di conciliare gli interessi/bisogni/motivazioni del singolo operatore con gli interessi/bisogni/motivazioni degli altri operatori e le attese dell’utente collegate al suo contratto con il Sistema Sanitario Nazionale.

Correale parla dello sviluppo della capacità di autorappresentazione del gruppo di lavoro, che comprende sia aspetti emotivi che aspetti cognitivi della relazione, tradizionalmente la supervisione ha lavorato sugli aspetti emotivi che possono intralciare il funzionamento istituzionale mentre meno spazio è stato dato agli aspetti cognitivi che hanno a che fare con la propria formazione, la propria professionalità e con quella degli altri membri del gruppo.

La ridefinizione degli ambiti territoriali che ha fatto seguito al Dlvo 502 e le riorganizzazioni distrettuali, accentuando quello che è il fisiologico cambiamento dei componenti e della organizzazione delle equipe, hanno reso più pregnante la necessità di mettere il gruppo di lavoro nella condizione di sviluppare:

  • la consapevolezza degli scopi e degli obiettivi generali dell’organizzazione e i valori a cui si ispira nel perseguirli (la cosiddetta mission);
  • un linguaggio condiviso;
  • la conoscenza e il rispetto dei ruoli e delle funzioni delle altre componenti dell’equipe;

che faccia emergere una capacità di autorappresentazione del gruppo sul piano cognitivo, funzionale al mandato istituzionale.

Una autorappresentazione che rifletta un sistema di valori, dei comportamenti codificati, delle regole condivise e rinforzate dall’uso prolungato nel tempo; l’impressione tratta dalla quotidianità è che l’implementazione di questo livello sia fondamentale per proporre all’esterno un progetto organizzativo visibile, coerente, in grado di esprimere una funzione curante e di interfacciarsi con le altre agenzie presenti nel territorio.

 

Strumenti legislativi

Abbiamo visto sopra come le rappresentazioni sociali della malattia mentale abbiano il valore di "forme di pensiero collettivo, di schemi concettuali, di blocchi di conoscenze che orientano la percezione, la codificazione, le classificazioni" (7) e, in quanto tali, siano in grado di influenzare in primo luogo la percezione della domanda-bisogno e successivamente le risposte.

Se distinguiamo la presa in carico intesa come "il prendersi cura in modo continuativo di una persona (o di una situazione)" dal trattamento, che riassume "modi, tempi e luoghi in cui la presa in carico si articola nei diversi momenti della storia clinica del soggetto"(45), possiamo avere due riferimenti su cui leggere l’evoluzione dell’assistenza psichiatrica in Italia.

Alla concezione organicistica della malattia mentale che caratterizzava gli inizi del secolo scorso corrispondeva un corpus teorico che ha trovato espressione coerente nella Legge n. 36 del 1904, istitutiva degli ospedali psichiatrici provinciali, e nel relativo regolamento applicativo del 1909.

Partendo dall’assunto che i progressi della frenologia avrebbero portato all’individuazione di una causa definita della patologia mentale, il bisogno-domanda coglibile poteva essere solo quello della "protezione del malato da se stesso" e degli altri da lui, attraverso una modalità custodialistica di presa in carico che si realizzava attraverso il ricovero in ospedale psichiatrico.

Alcuni aspetti intrinseci al modello assistenziale hanno, di fatto, impedito che esperienze diverse di presa in carico, pur presenti, avessero una ricaduta concreta nella psichiatria istituzionale del tempo:

  • "l’assistenza per i disturbi mentali più gravi rimane separata rispetto al sistema sanitario ed assistenziale generale, pertanto la relazione di cura con la persona malata non necessita di ridefinirsi come una relazione di cura caratteristica del mondo sanitario;
  • tutti gli aspetti correlati alla relazione di cura e quindi ad una possibile "presa in carico" sono localizzati in ambienti strutturalmente inadatti al recupero e alla riabilitazione dei malati stessi, spesso costretti a vivere in condizioni ambientali ed assistenziali poverissime, senza poter usufruire di interventi terapeutici e riabilitativi minimamente efficaci;
  • le esigenze di controllo e di custodia prevalgono sulle esigenze di empatia, di ascolto e supporto psicologico continuativo. Ciò determina una totale mancanza di intimità, una spersonalizzazione del malato, che rimane per anni in balia di una sorta di "intrusività istituzionale", agita da coloro che avrebbero più degli altri avuto il compito di permettere ai malati di mantenere l’identità personale e il ruolo personale e sociale;
  • i bisogni espressi dalle persone affette da disturbi mentali vengono interpretati soltanto come bisogni "tradizionali"definiti dal parere degli esperti, e cioè come bisogni di tipo clinico e come bisogni rispetto al rapporto con i servizi e lo staff curante." (46).

Il trattamento costituito dall’internamento rappresentava una risposta ‘coerente’:

  1. ai bisogni di protezione del malato, attraverso una presa in carico che aveva una risposta per tutto; nei tempi e modi dell’istituzione venivano garantiti cibo, alloggio, protezione sociale, lavoro, tutela fisica e psichica;
  2. ai bisogni del mercato del lavoro locale;
  3. alle necessità della ricerca scientifica sui disturbi mentali;
  4. ai bisogni di ordine pubblico e di sicurezza sociale.

Gli anni ’60 e ’70 hanno visto cambiamenti culturali e sociali che hanno aperto la strada, assieme ai progressi della farmacologia, alla sperimentazione di modelli di assistenza psichiatrica caratterizzati dallo sforzo di spostare il focus dell’intervento dal "prendersi cura" attraverso la custodia alla cura, come restituzione di identità e senso, per poter ritornare parte del contesto sociale.

Un passo ineludibile in questa direzione è stata la possibilità di sperimentare forme di assistenza di "coloro che, pur essendo affetti da gravi disturbi mentali, manifestano consapevolezza e partecipazione al trattamento" attraverso il ricovero volontario e l’istituzione dei Centri di Igiene Mentale con la legge Mariotti (1968).

Il consolidamento di esperienze di gestione territoriale delle persone dimesse dagli ospedali psichiatrici e l’attuazione di modelli di assistenza extraospedaliera della sofferenza psichica hanno consentito di spostare l’attenzione dalla malattia e dal controllo sociale (Legge n. 36/1904) alle risposte istituzionali alla sofferenza psichica nelle sue forme e ragioni, avviando una riflessione sulla libertà da una duplice prospettiva:

  1. In che misura siamo davvero liberi quando siamo in preda della malattia
  2. Quanta libertà ci può concedere la società quando siamo malati

Il cambiamento culturale prodotto in alcuni gruppi di professionisti e strati della popolazione ha consentito l’approvazione della legge di riforma dell’assistenza psichiatrica successivamente recepita dalla L. 833/78, istitutiva del servizio sanitario nazionale.

La nuova normativa fissa:

  • Il mandato istituzionale: la prevenzione, la cura e la riabilitazione;
  • Il divieto di costruzione di nuovi ospedali psichiatrici;
  • Il divieto di nuove ammissioni di utenti e di riammissioni dopo il 31 dicembre 1980;
  • Il carattere di norma volontario del ricovero;
  • La focalizzazione sulla tutela della salute dell’individuo come interesse della collettività, come motivazione di un ricovero obbligatorio (presenza di una malattia psichica che richiede trattamenti, rifiuto degli stessi, assenza di condizioni che ne consentano la gestione in ambiente extraospedaliero);
  • La definizione di tre livelli di garanzia per il paziente:
  1. La certificazione da parte di 2 medici;
  2. L’ordinanza del Sindaco;
  3. La convalida del Giudice Tutelare.
  • La centralità del territorio come luogo in cui garantire l’assistenza con la possibilità di effettuare ricoveri in appositi servizi in ospedale generale;

I punti critici strettamente connessi con le caratteristiche del provvedimento, che si configura più come un atto generale di indirizzo che come un documento di programmazione, apparirono presto evidenti nell’assenza di una previsione di finanziamento adeguato e di vincoli attuativi.

La logica conseguenza era pertanto una prospettiva, come poi si è verificato, contrassegnata da una grossa discrezionalità dei tecnici, degli amministratori e dei politici; condizionata da logiche culturali ed economiche, che hanno influenzato la tipologia e l’organizzazione dei servizi attivati nei diversi contesti e la definizione delle priorità nell’ambito dell’assistenza psichiatrica (47).

E stato necessario attendere fino al 1994 (DPR 7 aprile 1994 "Progetto Obiettivo Tutela Salute Mentale 1994-1996) per arrivare ad una formale individuazione della tipologia e delle caratteristiche delle strutture di cui deve essere dotato un Dipartimento di Salute Mentale per poter perseguire la sua mission istituzionale:

  1. Centro di Salute Mentale (CSM)
  2. Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura
  3. Day Hospital
  4. Centro Diurno
  5. Comunità terapeutiche residenziali protette
  6. Comunità alloggio

ll Centro di Salute Mentale (CSM)
Il CSM è la sede organizzativa dell'equipe multiprofessionale che garantisce il coordinamento degli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale nel territorio di competenza, con un rapporto di integrazione funzionale con i distretti.

Il CSM svolge:

  • attività di valutazione delle richieste che giungono da utenti, familiari, servizi sociali e medici di medicina generale;
  • attività di filtro e prevenzione dei ricoveri psichiatrici;
  • assistenza ambulatoriale e domiciliare attraverso le diverse figure che costituiscono l’equipe (psichiatra, psicologo, assistente sociale, infermiere e educatore);
  • attività riabilitative e risocializzanti;
  • interventi socio-assistenziali per gli utenti in carico;

Nella maggioranza dei casi il centro di salute mentale è aperto al pubblico nei giorni feriali per 8-12 ore.

In qualche situazione esso dispone di posti letto per situazioni di crisi o attività extraospedaliere di risposta all'emergenza, con orari di apertura più ampi.

Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC)
E’ un servizio di degenza all’interno dell’ospedale generale dove vengono attuati ricoveri sia in forma volontaria sia in regime di Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO). Il numero complessivo dei posti letto è individuato tendenzialmente nella misura di uno ogni 10.000 abitanti. Ciascun SPDC contiene un numero di posti letto non superiore a 16.

Il Day Hospital
Rappresenta uno spazio di assistenza semiresidenziale per prestazioni diagnostiche e terapeutico-riabilitative a breve termine. Può permettere di ridurre la durata del ricovero e/o garantire l'effettuazione coordinata di accertamenti diagnostici, nonché di avviare e monitorare interventi farmacologici, psicoterapeutici e riabilitativi. Può avere sede in ospedale generale in collegamento con SPDC o territoriale in collegamento con il CSM.

Il Centro Diurno
E’ una struttura semiresidenziale con funzione terapeutico-riabilitativa aperta almeno 8 ore al giorno per 6 giorni alla settimana. I suoi compiti sono volti a consentire lo sviluppo, nell'ambito di progetti terapeutico-riabilitativi incentrati sulle abilità personali, nella cura di sé e nelle attività quotidiane che si fondano sulle relazioni interpersonali.

Le strutture residenziali
Le SR sono strutture extraospedaliere in cui si svolge una parte del programma terapeutico-riabilitativo e socio-riabilitativo con lo scopo di offrire una rete di rapporti e di opportunità emancipative, all'interno di specifiche attività riabilitative. La struttura residenziale, pertanto, non va intesa come soluzione abitativa in senso stretto, mentre le diverse tipologie saranno differenziate in base all'intensità di assistenza sanitaria (24 ore, 12 ore, fasce orarie) e non dovranno avere più di 20 posti. Lo standard tendenziale di dotazione viene individuato in un posto letto ogni 10.000 abitanti.

Nel 1999 il D.lvo 229 "Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario a nazionale" contribuisce ad una maggior definizione del DSM attraverso un chiarimento dei rapporti con i Distretti ("Trovano collocazione funzionale nel distretto le articolazioni organizzative del dipartimento di salute mentale e del dipartimento di prevenzione"), sottolineandone il carattere trasversale fra ospedale e territorio.

Il 229 inoltre sottolinea la filosofia dell’integrazione sociosanitaria preparando il terreno alla Legge 328/2000 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato d'interventi e servizi sociali), individuando come prestazioni sociosanitarie tutte le attività atte a soddisfare i bisogni di salute della persona che richiedono sia prestazioni sanitarie sia azioni di protezione sociale garantendo attraverso percorsi assistenziali integrati, la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione.

Nell’ambito delle prestazioni sociosanitarie vengono individuate:

a) Le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, cioè le attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite;

b) Le prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute.

Nello stesso anno viene licenziato il Progetto obiettivo "Tutela Salute Mentale 1998-2000" . [ nota 10] che attribuisce ad ogni DSM i seguenti obiettivi:

a) la promozione della salute mentale nell'intero ciclo di vita;

b) la prevenzione primaria e secondaria dei disturbi mentali;

c) la prevenzione terziaria ovvero riduzione delle conseguenze disabilitanti attraverso la ricostruzione del tessuto affettivo, relazionale e sociale delle persone affette da disturbi mentali, tramite interventi volti all'attivazione delle risorse (quantunque residuali) degli individui e del contesto di appartenenza;

d) il sostegno ai nuclei familiari dei pazienti;

e) la riduzione dei suicidi e dei tentativi di suicidio nella popolazione a rischio.

Inoltre, cosa fondamentale, afferma con forza come per perseguire gli obiettivi assegnati, accanto alle strutture sia necessaria una definita organizzazione; viene cosi individuata una Direzione di DSM nella quale attraverso il consiglio di dipartimento viene data voce ai "laici" (famiglie, amministratori, associazioni di volontariato).

Viene inoltre posta attenzione alla qualità dei processi organizzativi e assistenziale attraverso l’istituzione di un nucleo di valutazione e miglioramento di qualità che promuove e implementa progetti di miglioramento continuo della qualità (MCQ) relativi alla qualità manageriale, alla qualità professionale e alla qualità percepita.

Alla direzione del dipartimento viene attribuita la funzione di garante della attuazione:

  • del sistema informativo
  • di procedure di consenso professionale e linee guida per una buona pratica clinica
  • della formazione e aggiornamento degli operatori attraverso un piano che deve soddisfare il bisogno formativo specifico delle varie figure professionali, e nello stesso tempo favorire la capacità di lavoro in equipe, in una prospettiva progettuale ampia, aperta al collettivo e al sociale
  • della carta dei servizi del DSM che deve contenere come minimo:
  1. la descrizione delle strutture presenti, con modalità di accesso e orari;
  2. la descrizione delle priorità del DSM e delle principali attività svolte; l'indicazione dei responsabili;
  3. le modalità di segnalazione dei reclami e l'impegno a dare loro risposta;
  4. l'indicazione dei tempi di attesa prevedibili; i costi per gli utenti;
  5. l'impegno dei DSM a stabilire rapporti di collaborazione con le associazioni dei familiari, degli utenti e di volontariato.

Commento

Quanto esposto mette in evidenza come vi sia un impianto legislativo che delinea un progetto assistenziale teoricamente in grado di far fronte alla domanda di cura proveniente dal territorio di competenza, dico teoricamente in quanto a questa programmazione doveva corrispondere un vincolo di finanziamento pari al 5% del Fondo Sanitario a fronte del quale invece è stato applicato il blocco del turn over previsto dalle varie finanziarie, dimenticando come i dati del WHO nella valutazione del Global Burden of Disease attribuiscano ai disturbi psichici la responsabilità nel 2000 del 12% dei DALY . [ nota 11] e del 30,8% degli anni vissuti in condizione di disabilità (YDL) . [ nota 12] riferiti a tutte le patologie.

Parallelamente un altro punto critico è l’attuale crisi del welfare che riduce gli spazi di sostegno sociale, ne deriva la difficoltà di mantenere il DSM area ad alta integrazione sanitaria e sociale sotto le pressioni di garantire accanto a prestazioni sanitarie anche risposte sociali su un modello manicomiale.

Se la psichiatria pre 180 era connotata dalla prevalenza della cura e della custodia e quella post riforma dal trattamento e dalla riabilitazione, il merito dei progetti obiettivi nazionali è stato tra l’altro di avviare un confronto sulla promozione della salute mentale all’interno di un approccio preventivo che prevede (62):

  • Interventi universali di promozione della salute mentale:
  1. Primari: educazione, politica, casa, lavoro, scuola, rete sociale.
  2. Secondari: gruppi a rischio (povertà, isolamento, immigrazione, disoccupazione).
  3. Terziari: promozione della salute in pazienti stabilizzati.
  • Interventi selettivi su gruppi a rischio: Interventi in età evolutiva, Diade madre-bambino, Famiglie deprivanti, Figli di pazienti psichiatrici, Abuso, Drop-out scolastico, Ambiente deprivante, Caregivers.
  • Interventi specifici finalizzati al riconoscimento precoce degli stati a rischio:
  1. Primari: riduzione dell’incidenza
  2. Secondari: ritardare l’esordio, ridurre il "ritardo" e la prevalenza
  3. Terziari: ridurre la durata dei sintomi, la gravità, la morbidità

Conclusioni

Possiamo chiudere questo percorso mettendo in evidenza che le persone con disturbi psichici, come tutti gli altri, presentino bisogni riconducibili sommariamente alla piramide di Maslow . [ nota 13] , la cui espressione é la risultante fra la libertà di percezione/espressione che la malattia concede e la libertà di espressione che viene permessa alla persona malata dal contesto culturale e sociale in cui é inserita.

Parallelamente l'atteggiamento verso i bisogni da parte dei tecnici e degli amministratori, e le conseguenti risposte, é influenzato dal modello di malattia a cui aderiscono, dalla possibilità di sintonizzare le opinioni e gli atteggiamenti della popolazione sul modello di malattia adottato attraverso un'operazione culturale che, partendo dalla organizzazione di servizi, riflette la filosofia delle equipe.

A sua volta la struttura delle organizzazioni condiziona le tipologie delle risposte e quindi la possibilità di una presenza visibile e in grado di incidere sui bisogni di cura e riabilitazione delle persone, di sostegno ai familiari in questo percorso, di promozione della salute mentale nella popolazione generale che si accompagna alla diffusione di una cultura della tolleranza e dell'integrazione.

 

NOTE

[1] La rappresentazione sociale "investe i livelli più profondi della conoscenza, rivela la struttura intrinseca dei concetti, le mappe di base, gli orizzonti generali entro cui si esprimono i diversi modelli culturali. Le rappresentazioni sociali hanno quindi il valore di forme di pensiero collettivo, di schemi concettuali, di blocchi di conoscenze che orientano la percezione, la codificazione, le classificazioni." Fiorino V., 2002, p. 180.

[2] Per pregiudizio si intende l’opinione preconcetta concepita non per conoscenza diretta di un fatto, di una persona o di un gruppo sociale, quanto piuttosto in base alle opinioni comuni o alle voci. G.W. Allport (1954) sostiene che un concetto errato si trasforma in pregiudizio quanto rimane irreversibile anche di fronte a nuovi dati conoscitivi.

[3] Il termine stereotipo è stato introdotto da Walter Lippmann, nel suo Pubblic Opinion del 1922. Gli stereotipi sono raffigurazioni di gruppi, largamente condivise, schematiche, che nascono da relazioni di intergruppo e guidano conoscenze e comportamenti sociali delle persone; lo stereotipo a)

necessita di un bersaglio, identificato da un’etichetta linguistica; b) attorno al bersaglio vengono organizzate un insieme di caratteristiche; c) viene costruito a partire da un ordine gerarchico che tassonomizza alcuni tratti come più tipici di altri e quindi più adatti per descrivere il bersaglio.

Lo stereotipo è il nucleo cognitivo del pregiudizio.

[4] Nel nostro caso tutta la questione dell’effetto sulla popolazione dei processi di deistituzionalizzazione in relazione alla presenza e all’organizzazione dei servizi di assistenza psichiatrica e sociale.

[5] Questo rende ragione degli scarsi risultati delle strategie di prevenzione basate sulla sola diffusione di informazioni o dei programmi di formazione per i professionisti limitati a lezioni frontali.

[6] Tre processi secondo Elizabeth Noelle-Neumann (1973) caratterizzano il sistema delle comunicazioni di massa ed il suo concreto operare:

a) UBIQUITÀ

La presenza sempre più pervasiva (häufig) dei media, e in particolare della televisione, nella vita quotidiana del pubblico.

b) CONSONANZA

L’accentuarsi della loro funzione di dispensatori (Verteiler) di conoscenze e informazioni sostanzialmente omogenee su ciascun problema e su ciascun evento, trattati allo stesso modo nei diversi mezzi. Ovvero la crescente omogeneità dei contenuti trasmessi dai vari media.

c) CUMULAZIONE

La ripetitività, ovvero la trattazione reiterata (wiederholt) di determinati problemi, eventi e personaggi, collocati costantemente in primo piano e imposti all’attenzione del pubblico.

[7] "crazy, mad, nuts, twisted, wacko or looney" (51)

[8] Questo ha portato alla produzione di "guide" dirette ai professionisti della comunicazione come:

Rikihana D Huia Publishers, Wellington, New Zealand.
Scottish National Union of Journalists (NUJ) 'Mental Health in the Media. A Good Practice Guide for Journalists and Broadcasters
Achieving the Balance: A Resource Kit for Australian Media Professionals for the Reporting and Portrayal of Suicide and Mental Illnesses, published by the Mental Health Branch Department of Health and Aged Care, Commonwealth Australia
Mindout guide Open-Minded Coverage of Mental Health. UK Government, http://mindout.net
o allo sviluppo di movimenti che intervengono sui prodotti dei media: es. SANE Australia StigmaWatch, http//www.sane.org/,

[9] E.F. Shaw: "il pubblico sa o ignora, considera o trascura, enfatizza (betont) o neglige (vernachlässigt) elementi specifici della vita pubblica. Le persone tendono a includere o escludere ciò che i media includono o escludono dai propri contenuti, e ad attribuire agli eventi, ai problemi e ai personaggi proposti dai media un’importanza che corrisponde al modo in cui sono trattati in essi."

I media descrivono in un altro modo la realtà. Non propongono opinioni, ma impongono i temi su cui avere un’opinione. Possono distorcere la realtà, attribuendo particolare rilevanza a certi eventi, problemi e personaggi.

[10] Altri dispositivi significativi per l’assistenza psichiatrica sono la Legge 8 novembre 2000, n. 328: "Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali", la Legge 9 gennaio 2004 n. 6 all'istituzione dell'amministrazione di sostegno e modifica degli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 426, 427 e 429 del codice civile in materia di interdizioni e di inabilitazione.

[11] DALY: Disability Adjusted Life Years, un DALY può definirsi come un anno in buona salute perduto.

[12] YLD: Years lost due to disability (anni perduti per cause di disabilità).

[13] Il modello di Maslow è costituisce un tentativo di stabilire una gerarchia di bisogni e di motivazioni di carattere sia biologico che sociale. Il modello comprende cinque categorie di bisogni organizzati gerarchicamente:

bisogni fisiologici (bisogni elementari come: nutrirsi, ripararsi, guadagnare per sopravvivere);
bisogni di sicurezza (sia fisica che economica, come la stabilità dell'impiego, la garanzia del mantenimento del potere d'acquisto della retribuzione, la possibilità di vivere in un ambiente accettante, la definizione chiara dei compiti, dei diritti e dei doveri);
bisogni sociali (desiderio di appartenenza a un gruppo sociale, sentirsi quindi amati e stimati. La loro soddisfazione è di vitale importanza per la formazione di una personalità matura e adatta a vivere e ad operare in una organizzazione sociale);
bisogni di affermazione (di stima e di autostima, quindi di prestigio e di status, cioè di essere riconosciuti nella propria identità e di essere apprezzati per le proprie competenze);
bisogni di autorealizzazione (consistono nel desiderio di diventare ciò che si vuole essere, nel bisogno di realizzare tutte le proprie potenzialità). Il senso di orgoglio professionale può derivare dalla propria attività anche se essa non consente di conseguire prestigio e potere.
In questo modello piramidale i bisogni ai livelli più alti si reggono sulla soddisfazione dei livelli precedenti: se il bisogno si fissa ad un livello inferiore tutta la costruzione crolla fino al livello che non è stato soddisfatto.

 

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