L'UOMO DELLA POSSIBILITÀ, SULLA CURA E SULLA ALTERITA'
1. Aspirine e polli.
Posso misurare il moto dei corpi, non l'umana follia.
Newton
Dice l'etnopsichiatra Piero Coppo, a mo' di apertura per il suo straordinario volume etnografico Negoziare con il male (2007, p. 15), ideale seguito del seminaleGuaritori di follia (1994):
Se, per descrivere la distribuzione e le cause delle malattie presso i diversi popoli e i rimedi da loro più frequentemente utilizzati, si usassero anche le categorie e i sistemi di prevenzione e cura da loro messi a punto, si avrebbero alcune sorprese. Non solo perché il rimedio più diffuso nel mondo, come ama dire Tobie Nathan, sarebbe allora non l'aspirina ma il pollo, visto il numero di questi animali sacrificati ogni giorno su altari per ottenere salute, o utilizzati come ingredienti per protezioni e cure (…). Ma anche perché le cause di gran lunga più frequenti di malattie, infortuni e morti non sarebbero più la malaria o le malattie infettive, bensì le fatture, il malocchio, le stregonerie.
Coppo, da anni impegnato sul campo a studiare il disagio psichico tra i Dogon del Mali, riassume icasticamente, con questa affermazione alquanto paradossale, il problema principe dell'etnopsichiatria (che coincide per alcuni aspetti con quello dell'antropologia medica in generale): comprendere il disagio — fisico, psichico, esistenziale — in culture differenti da quella cosiddetta "occidentale", culture in cui vigono differenti sistemi di valori e differenti schemi interpretativi del male. Uno sforzo che raccoglie la sfida di Newton riportata in epigrafe: quella di riuscire in qualche modo a decifrare, com-misurare (che è diverso, come vedremo, dal comparare), diverse esperienze di dolore psichico, aprendosi a tutta l'umanità nelle sue infinite variazioni. Una missione disperata, che apre abissali problematiche e conduce a sempre nuovi "scandali" epistemologici, e che però si è ormai affermata come un irrinunciabile orizzonte scientifico ed etico.
Il dominio dell'etnopsichiatria è aperto, problematico e inclusivo. Tobie Nathan, grande etnopsichiatra francese, definisce la sua disciplina come una scienza che si rivolge alla comprensione dei sistemi culturalmente specifici di terapia, e quindi ai concetti emici (Pike) di normalità e devianza, e nello stesso tempo mette in discussione questi stessi concetti all'interno della cultura occidentale (e delle discipline "psi" che producono discorsi so questa coppia oppositiva). Etnopsichiatria, dunque, come disciplina "paradossale", che accetta la sfida dell'alternativa e si pone contro la doxa dominante del pensiero unico, del riduzionismo medico e psichiatrico, delle logiche tassonomizzanti dei vari DSM e delle comode terapie farmacologiche che sembrano poter prescindere dalla relazione. Etnopsichiatria come pensiero molecolare, direbbe Deleuze: una scienza dei margini, degli interstizi, della liminarità connaturata alla dimensione dell'incontro e della relazione, con tutti gli imponderabili a cui questa liminarità conduce. Ed è nella relazione, nel far prevalere la dimensione dell'accoglienza e dell'altruismo (Galzigna 2006) sull'arroganza implicita, spesso a prescindere dalla buona fede, del "potere psichiatrico" (Foucault 2004), che si esprime da dirompente portata conoscitiva dell'etnopsichiatria.
Sono a questo punto evidenti i confini disciplinari di questa scienza; confini, tuttavia, quanto mai porosi e sfumati, che si configurano come spazi di circolazione di idee e progetti, piuttosto che come steccati intellettuali: da una parte, c'è l'innegabile connessione con l'antropologia sociale illuminata e (auto)critica che si è sviluppata da Lévi-Strauss in poi (in polemica con i riduzionismi evoluzionista e funzionalista del passato), e con l'antropologia medica nelle sue molteplici declinazioni, debitrici di Gramsci, Foucault e Merleau-Ponty (cfr. Scheper-Hughes 2000, si veda anche l'ottima antologia curata da Ivo Quaranta, 2006).
Dall'altra parte il nesso è con la socio-psichiatria militante e anticoloniale di Frantz Fanon, con l'ambizioso progetto "psico-etno-analitico" di Georges Devereux, con la psichiatria critica di Franco Basaglia e, almeno nella mia opinione, con i settori più avanzati delle scienze "psi" contemporanee: dalla psichiatria fenomenologica di Eugenio Borgna, alla psicologia postmoderna, aperta alla cibernetica e alla "sfida della complessità" (Bocchi, Ceruti 2007, Thompson 1988) di Gregory Bateson, Paul Watzlawick, George Kelly.
Questa schematica tracciatura di confini ideali risente senz'altro delle personali fascinazioni intellettuali di chi scrive. Mi pare, tuttavia, che sia nel DNA della disciplina stessa la tendenza ad accogliere istanze provenienti da campi diversi, ma confinanti: e se è vero che l'etnopsichiatria è nata storicamente in contesto coloniale, dal confronto della psichiatria transculturale con l'antropologia, come dimostra l'accurata ricostruzione storiografica di Roberto Beneduce (2007), è altrettanto vero che, oggi, nuova linfa può giungere tanto dalle scienze etno-sociologiche (l'ermeneutica post-geertziana, le teorie dell'embodiment, l'antropologia medico-critica di Farmer e Fassin, la sociologia delle migrazioni), interlocutrici per così dire "naturali" dell'etnopsichiatria, quanto dal versante più dinamico e anti-riduzionista delle scienze psichiche, dalla psicologia costruttivista alle neuroscienze avanzate (penso ad esempio a Eric Kandel o Arnold Modell, cit. in Galzigna 2006, o al filone di studio aperto dalle ricerche sui neuroni mirror).
Sarebbe forse troppo schematico, infatti, ridurre l'etnopsichiatria a una giustapposizione meccanica di antropologia e psichiatria incubata nell'atmosfera coloniale. Se infatti sin da Franz Boas l'antropologia accarezza l'ambizione — non sempre coronata da pieno successo — di "dire qualcosa" anche sulla mente dell'individuo, sulla personalità dei singoli (Margaret Mead), sulle strutture elementari inconsce (Claude Lévi-Strauss), sul pensiero logico (Lucien Lévi-Bruhl), sulla psiche umana, è vero anche che sin dei suoi esordi anche la psichiatria si è posta la questione dell'"ethnos": il mondo relazionale dell'individuo, il contesto in cui si muove, la cultura di cui è inevitabilmente imbevuto, l'ambiente circostante, la posizione sociale eccetera.
È insomma corretto, ma non del tutto sufficiente, derivare l'etnopsichiatria dalla psichiatria transculturale colonialista. Lo stesso Beneduce, nella sua ricostruzione storiografica ed epistemologica della disciplina, sottolinea come quest'ultima fosse imbevuta dell'ideologia razzista, talvolta aggressivamente esplicita, talaltra mascherata da una patina di vigliacco paternalismo, tipica degli imperialisti e dei "civilizzatori" euro-americani. Risulta così poco leggibile il passaggio per cui da una scienza etnocentrica, ottusa, asservita alle più bieche dinamiche di dominazione e persino scientificamente sterile nel suo rigido comparativismo post-evoluzionista (la psichiatria transculturale) si sarebbe giunti oggi a un approccio mutevole, fluido, consapevole e autocritico, insomma una pratica scientifica notevolmente sensibile alla dimensione esistenziale del singolo e con forti implicazioni di critica sociale (la moderna etnopsichiatria).
L'opera di Fanon — figura meravigliosa, feroce critico della pratica "etnopsichiatrica" coloniale — forse è più rilevante per il suo contributo a una lotta politica che non a un progetto scientifico ben definito, e comunque non basta a spiegare una metamorfosi così radicale. Lo stesso può dirsi di Devereux: fu certamente grande teorico le cui intuizioni metodologiche hanno tuttora un peso non irrilevante e in parte inesplorato, ma dal punto di vista scientifico oggi il suo progetto rivela tutti i limiti di un'impostazione freudiana ormai in gran parte superata. Tuttavia, la trasformazione della psichiatria coloniale in etnopsichiatria non è avvenuta per miracolo.
Certo, un peso determinante nello sviluppo dell'etnopsichiatria contemporanea lo hanno avuto le stesse pratiche di cura attuate in contesti culturali "altri", pratiche lungimiranti e innovative di cui Beneduce porta numerosi esempi africani. In queste declinazioni pratiche della relazione terapeutica, ha potuto maturare e imporsi un approccio presente in nuce già all'interno del discorso psichiatrico sin dai suoi inizi.
Per meglio illuminare gli sviluppi dell'etnopsichiatria contemporanea può essere utile, perciò, ricostruire (e riscoprire) il portato di alcune grandi intuizioni teoriche e metodologiche che appartengono agli albori delle discipline psichiche. Questi nuclei tematici hanno costituito un importante motivo sottotraccia delle scienze umane che, a lungo relegato in secondo piano dall'ubriacatura positivista, è riemerso in modo dirompente con il fragoroso crollo delle "grandi narrative", con il mutare dello scenario socioeconomico e culturale globale a partire dal secondo dopoguerra.
Quali sono questi nuclei teorico-metodologici, e in cosa consiste la loro sorprendente lungimiranza? È indispensabile, a questo punto, fare riferimento all'opera del grande alienista francese Jean-Étienne Esquirol, in particolare il suo trattato del 1805, Delle passioni. In uno straordinario passaggio programmatico (1982, p. 56), Esquirol afferma che
Non solo i climi, le stagioni, l'età, il sesso, il temperamento, il regime, la maniera di vivere, influiscono sulla frequenza, il carattere, la durata, la crisi, la conclusione, il trattamento fisico e morale della malattia; ma questa è anche influenzata dallo stato delle facoltà intellettuali, dal progresso della civilizzazione, dalle passioni, dai costumi, dagli usci, dalle leggi, dalla situazione di ogni popolo.
Un approccio — se considerato all'interno della temperie ottocentesca, e prescindendo dai retaggi galeniani che inevitabilmente influenzano la primissima alienistica — straordinariamente moderno e antiriduzionista, che riplasmando i portati più produttivi del vitalismo medico-biologico settecentesco (erede di Galeno), rivela schiettamente i germi di uno sguardo olistico. Si ravvisano qui i prodromi di quella cosmoanalisi che riassume in sé tanto l'esigenza di un'analisi contestuale (sociale, ambientale, relazionale, culturale) del soggetto che vive un'esperienza di disagio, quanto quella di un'analisi storico-genealogica dell'individuo (o magari "dividuo"), della sua biografia, degli attriti che ha vissuto, delle dinamiche che l'hanno condizionato, delle resistenze che egli ha — creativamente, problematicamente — performato, delle vicissitudini per cui si è sviluppato un certo tipo di vulnerabilità.
Nella nascente alienistica di Esquirol e del suo maestro Philippe Pinel, è già implicito uno sguardo "etno-antropologico" ante litteram, un'attitudine che sembra — sorprendentemente — anticipare di un secolo e mezzo alcune intuizioni degli antropologi medici sul rapporto tra malattia e realtà sociale. Ma, senza voler forzare troppo l'anacronismo, è comunque chiaro che all'interno dello sguardo psichiatrico è da sempre presente un'attenzione all'individuo incorporato (embedded) in un contesto socio-culturale e ambientale, e che questa attitudine ha saputo resistere alle derive scientistico-autoritarie coloniali e riemergere aprendo un nuovo orizzonte teorico proprio attraverso l'incontro con l'altro, e la sfida che ogni alterità reca con sé.
2. Protopsichiatria ed etnopsichiatria: somiglianze di famiglia.
I folli, più o meno, ragionano tutti.
Esquirol
È opportuno, a questo punto, affrontare brevemente il tema dell'alienistica del primo Ottocento, descrivendo le sfide che questa giovane disciplina aveva di fronte a sé, i problemi di ordine teorico e pratico che doveva fronteggiare, e analizzando, in prospettiva, l'eredità delle istanze elaborate durante questa stagione sulla psichiatria clinica e l'etnopsichiatria contemporanee.
Ho accennato nel paragrafo precedente alla dimensione olistica della protopsichiatria pineliana ed esquiroliana. Vi è un ulteriore tassello da aggiungere, ancora una volta un'intuizione sorprendentemente moderna: il concetto di "mania senza delirio", l'idea cioè che i folli ragionino, che non siano affatto irrimediabilmente distaccati dall'orizzonte di senso della "normalità", relegati in un'irriducibile alterità (psichica ma anche esistenziale, "ontologica", disumanizzante). Spetta ai padri della psichiatria clinica il primato di aver riconosciuto l'asse normalità/devianza come un continuum, uno spettro di sfumature e variazioni, caratterizzato da interpretazioni e negoziazioni e percorso da rapporti di potere. La malattia mentale, insomma, si costituisce sin dall'inizio come qualcosa di almeno parzialmente "costruito", e che mai potrà rimuovere del tutto la ragione del sofferente, la sua umanità, la sua capacità empatica.
Tra il normale e il folle esiste insomma, sullo sfondo di una differenza quasi sempre percepibile, una strana e sotterranea continuità, che sembrò scandalosa a molti — medici, magistrati, moralisti — durante il primo Ottocento, ma che oggi viene riconosciuta, da più parti, come condizione di possibilità di comprensione della cura (Galzigna 2006, p. 99).
Non è un caso che in Pinel ed Esquirol non sia presente alcuna nozione di cronicità, che acquisterà invece sempre maggiore peso con l'imporsi di una pratica psichiatrica positivista, basata su una progressiva massificazione del trattamento morale (e — il che forse non è troppo casuale — su uno sfruttamento economico della docile forza-lavoro dei malati incurabili). Esquirol identifica nelle passioni mal governate la causa morale della malattia psichica (impossibile per il lettore contemporaneo non aprire un immediato link con gli affective disorders): le passioni, una componente comune a ciascun essere umano, e che solo su un piano quantitativo — non qualitativo — separano il sano dal malato. È per questo, dice il clinico di Tolosa, che
i folli, più o meno, ragionano tutti; ci appaiono deliranti solo per la nostra difficoltà a conoscere l'idea prima alla quale si riallacciano tutti i loro pensieri, tutti i loro ragionamenti. Se fosse facile mettersi in armonia con questa idea-madre, non ho dubbio che si potrebbe guarire un più gran numero di alienati (cit. in Galzigna 2008).
È straordinario il relativismo espresso dall'affermazione per cui i folli "ci appaiono" tali, senza esserlo di per sé, e questo perché vi è uno scarto tra il "nostro" mondo di significati e il "loro": la malattia è concepita come vera e propria crisi di senso, incapacità di condurre il proprio disagiato sentire a una felice ricomposizione con il "mondo esterno". Ma se l'analista, relativizzando i propri stessi parametri, riesce a mettersi in armonia con il mondo del paziente, attraverso un prendersi cura che è prima di tutto apertura alla relazione, allora può iniziare un processo di terapia che potrà ricondurre il malato a una condizione di benessere.
Vi sono in questo passaggio esquiroliano almeno due implicazioni su cui vale la pena soffermarsi.
La prima è il riferimento al "mettersi in armonia", espressione che apre da una parte un intero ventaglio di connessioni ai concetti di Einfuhlung, intuizione eidetica, com-prensione empatica (contrapposta a spiegazione — Verstehen contro Erklären, Gozzetti 1999, p. 115) cari a Husserl e alla psichiatria fenomenologica (Galzigna 2006, pp. 111-125). Sull'altro versante, il nesso inevitabile è con la nozione di "risonanza" (keneh) nell'"experience-near ethnography" di Unni Wikan (2009) e con l'empatia etnografica di Renato Rosaldo (2002). Il concetto di empatia è attualmente al centro delle riflessioni antropologiche sull'incontro con l'Altro, particolarmente in riferimento alla possibilità dell'uso delle emozioni come risorsa conoscitiva all'interno di un'impresa scientifica: questione che riporta al centro il problema, già affrontato da Devereux, della soggettività del ricercatore, particolarmente scottante nelle scienze dell'uomo. Ma l'esperienza sul campo degli etnologi, così come l'esperienza "sul campo" degli psichiatri clinici a orientamento fenomenologico (Borgna 1999, Gozzetti 1999) mostrano sempre di più che è possibile, e anzi auspicabile, fare ricerca "con le emozioni", che sono parte integrante dell'essere umano.
La seconda implicazione, connessa con la prima, è che nel riconoscere la ragione nella follia, come fa Esquirol, inevitabilmente si apre il problema della realtà: che cosa è vero, reale, e che cosa non lo è? Come l'analista deve rapportarsi alla "verità" espressa del malato psichico? Non è questa la sede per una difficile riflessione filosofica sullo statuto ontologico della cosiddetta "realtà"; è opportuno però rilevare che la questione della verità era ben presente nella protopsichiatria ottocentesca, e in forme sorprendenti, ancora una volta, per l'avanzato grado di relativismo manifestato. È il Michel Foucault de Il potere psichiatrico (cit. in Galzigna 2008, pp. 47-50) a scandagliare analiticamente i termini della questione: la realtà, di fronte a un vissuto delirante, può essere imposta al paziente dall'analista, oppure può venire ridiscussa, negoziata, riplasmata sul delirio, facendo un uso relativista e illuminato della "ruse".
È impressionante a questo proposito la "somiglianza di famiglia" tra le manipolazioni della realtà messe in atto a scopo terapeutico da Mason Cox nei primi anni dell'Ottocento positivista e quelle descritte da Roberto Beneduce nella pratica della contemporanea etnopsichiatria clinica della migrazione, laddove l'analista si confronta con vissuti di disagio espressi, ad esempio, con il lessico della stregoneria o della persecuzione magica. Se la psichiatria coloniale etnocentrica imponeva sulle formi locali di illness narrative le proprie categorie eziologiche e diagnostiche, l'etnopsichiatria illuminata ridiscute queste categorie e le riplasma sui portati culturali dei pazienti stranieri, portatori di repertori simbolici differenti. Ravvisiamo ancora una "connessione sotterranea" significativa tra il mondo di Cox e Pinel e quello, apparentemente così distante, di Tobie Nathan: una connessione che denuncia i legami profondi (ancorché non sempre pienamente espressi) tra psichiatria clinica ed etnopsichiatria.
In La disciplina e la cura (Galzigna 2008) viene approfondita la questione del problematico rapporto tra queste due forme di postura terapeutica, "imposizione di verità" contro "gioco di realtà". Tematica affrontata già da Foucault, che in merito aveva evidenziato il progressivo imporsi del primo approccio sul secondo, e il trionfo della concezione dello psichiatra come "signore — assoluto — del reale" sul protorelativismo terapeutico di Cox, del primo Pinel e del giovane Esquirol. Ma il passaggio non è stato automatico, netto e irreversibile: come dimostra, tra l'altro, il rifiorire di approcci relativisti (costruttivismo, etnopsichiatria) in seguito all'erosione del gigante d'argilla positivista; e come dimostra anche la pluralità di posizioni emersa nel dibattito dell'epoca, all'interno del quale non sono mancati i casi di ripensamenti e salti di paradigma, parallelamente all'imporsi di un determinato modello economico-produttivo. Come afferma l'autore del saggio (cioè tu, Prof, che sei l'unico che leggerà questo mio scritto), per comprendere a fondo questo slittamento verso l'"imposizione di verità" è dunque opportuno collocarlo all'interno dell'intero travagliato percorso che portò nel corso del XIX secolo dal trattamento morale alla pratica del trattamento asilare dei grandi numeri, basata sull'aliené travailleur. La "verità della follia" è infatti del tutto incompatibile con la disciplina asilare di massa.
3. Il trattamento morale tra contenzione e contenimento.
Il faut qu'un médecin prudent sache s'attirer la confiance du malade,
qu'il entre dans son idée, qu'il s'accomode a son délire […].
Encyclopédie
Dunque, prima dell'imporsi del modello massificato di pratica manicomiale (preludio alla psichiatria ghettizzante scardinata da Basaglia), non erano mancate intuizioni straordinarie. È il caso del succitato Mason Cox, ad esempio, e soprattutto del nostro J.-E. Esquirol, con la sua proposta "scandalosa" di continuità fra malattia e salute mentale, e la sua nozione di unità psicofisica dell'uomo, in grado di far uscire il disagio psichico dal campo della medicina organicista settecentesca e dall'anatomia neuro-patologica — ossessionata dalle cause "fisiche", encefaliche, del disagio mentale. Il porre l'accento sulle passioni come "cause" ma anche come "mezzi curativi dell'alienazione mentale" ridefinisce completamente i termini dell'azione terapeutica. Infatti, il traitement moral (dove "moral" è l'opposto di "physique", ma possiede anche importanti sfumature sociali e culturali — notevole in un contesto ampiamente pre-etnografico) si basa su due piani di intervento:
1) da un lato, l'inevitabile aspetto del contenimento/contenzione e del disciplinamento degli internati;
2) dall'altro, l'elemento rivoluzionario dell'accoglienza empatica ("se-mettre en harmonie"), dell'ascolto, della relazione emozionale tra medico e paziente.
Questa relazione può essere eventualmente mediata da attori intermedi, preposti programmaticamente a gestire il "dominio dell'emozionalità": è il caso della moglie dell'alienista, figura con un ruolo centrale nei piccoli stabilimenti a conduzione familiare concepiti dal primo Esquirol e da clinici come Brierre de Boismont (la cui stessa moglie è un buon esempio di controparte strategica del consorte nell'ambiente asilare).
Entrambi gli aspetti, apparato di forza e relazione empatica, sono centrali in questa fase della pratica psichiatrica. Tanto la contenzione (magari anche solo attraverso la mera esibizione di un apparato coercitivo, allo scopo di intimidire senza offendere) quanto il contenimento (l'arginare un vissuto di disagio, il saper accogliere in un contesto di relazioni positive) del malato mentale contribuiscono a definire i confini e le linee programmatiche di questo approccio pionieristico. Sulla relazione tra contenzione e contenimento riflette Gemma Brandi, in un saggio dedicato alla figura del "delinquente" e al sistema carcerario, saggio che offre interessanti stimoli problematici anche sul tema della follia:
è utile ricordare che, mentre nel latino tardo recludere significa rinchiudere, nel latino classico la parola ha il senso opposto: schiudere. […] Può l'ospitalità dei reclusori essere liberatoria? Paradossalmente sì. Se trasgredire ha il senso di andare oltre e se un andare oltre creativo è apparso precluso all'individuo, non è escluso che andare oltre gli sia sembrata l'unica via di fuga da un destino altrimenti di morte. Con dei battistrada, ecco con chi abbiamo a che fare (Brandi in Galzigna 2001, p. 72).
È allora compito dello scienziato-psi illuminato "piegare" l'apparato disciplinare carcerario in una incubatrice di alternative per il soggetto considerato "deviante". Al di là di ogni retorica buonista sulla "devianza creativa" (laddove nella devianza criminale e più ancora nella follia è presente una ineliminabile componente di disagio, esclusione e sofferenza) è importante secondo Brandi impostare un percorso di ricerca di senso a questo "andare oltre", riportando la trasgressione a forme che non pregiudichino il benessere sociale (e/o psichico) dell'individuo. Un simile percorso non può attuarsi senza uno sguardo empatico, comprendente, contenitivo da parte dell'analista.
Dolcezza e disciplina, dunque, tornando al trattamento morale di matrice esquiroliana. L'una componente non può essere considerata senza l'altra; un'ambivalenza che però molti critici della protopsichiatria hanno trascurato: se Foucault (coerentemente con le sue priorità teoriche) si è soffermato prevalentemente sulla componente disciplinare, l'antipsichiatria militante basagliana non ha esitato a denunciare la veloce degenerazione in senso autoritario e brutalmente repressivo della prima alienistica. I critici a orientamento neoliberale, invece, hanno trascurato l'appareil de force per esaltare il trattamento morale come diretto ispiratore della psicoterapia.
Nessuna critica in sé è sbagliata, tutte sono certamente incomplete. Nel restituire pienamente la complessità (contenzione e contenimento) del trattamento morale esquiroliano all'interno della storia della psichiatria si producono almeno due vantaggi di ordine intellettuale: il primo (non trascurabile) è quello di una ricostruzione laica, a-ideologica, onesta dal punto di vista storiografico ed epistemologico. Il secondo vantaggio è che, smontando miti e narrazioni (anche in buona fede) tendenziose, si rivela la "doppia faccia" di un sistema terapeutico, mostrandone punti di forza e "vizi occulti". Dietro il "system of soothing" familiare e contenitivo ecco comparire l'apparato disciplinare preposto alla contenzione: lezione quanto mai importante per le scienze psichiche contemporanee, che non possono perdere di vista i meccanismi di potere che sono imprescindibili dal setting psichiatrico-terapeutico.
L'empatia dei fenomenologi e il relativismo dei postmodernisti non possono quindi essere degli "alibi" intellettuali con cui nascondere le dinamiche di potere imbricate (inevitabilmente?) nelle pratiche terapeutiche. Essere consapevoli del potere che si esercita è senza dubbio più utile, ai fini di una efficace presa in carico del paziente, che negarlo a priori, magari in nome di un indistinto e sterile umanitarismo.
Solo poche righe rimangono per ripercorrere la vicenda storica del trattamento morale, focalizzando l'attenzione su due versanti: quello dell'organizzazione asilare, e quello della pratica terapeutica. Dal punto di vista dell'organizzazione delle maison de santé, dopo il successo nei primissimi anni dell'Ottocento dell'asilo di piccole dimensioni, spesso a conduzione familiare, in cui vige un rapporto asimmetrico sì, ma aperto a mediazioni e negoziazioni, "giochi di verità" tra medico e paziente (la soluzione teorizzata dai primi Pinel ed Esquirol, da Mason Cox, da Alexandre Brierre de Boismont, da Esprit Blanche), si impone con il passare dei decenni un modello massificato di trattamento morale. Questa trasformazione si deve al progressivo consolidarsi di una cornice di riferimento teorica, pratica e istituzionale del sapere psichiatrico alternativa: quella della conservazione della salute pubblica.
Gli psichiatri riformatori, fautori del modello familiare di trattamento morale, operano soprattutto a livello privato: in realtà, il loro modello non si attaglia alle direttrici socio-politiche di una forma di stato che di "sociale" ha ben poco, e pertanto non riesce a consolidarsi. Nella dimensione pubblica "il trattamento morale individualizzato […] viene ben presto negato come prospettiva terapeutica esemplare: ufficialmente riconosciuto […] verrà in realtà considerato, intorno alla metà del XIX secolo, un'operazione difficilmente realizzabile" (Galzigna 2008, p. 69). Accadeva nella Francia ottocentesca, ma la riflessione è quanto mai allarmante se si considerano le odierne politiche di smantellamento del welfare messe in atto su scala globale, anche nei paesi occidentali: politiche che rischiano di accantonare, ancora una volta, gli approcci terapeutici più avanzati, o lasciarli nel meno peggiore dei casi all'intraprendenza isolata di coraggiosi privati. Il trattamento morale individuale, insomma, non conviene economicamente, e oltretutto neppure si armonizza con le ambizioni generaliste del positivismo medico statalizzato, interessato più alla logica dei grandi numeri, alla salute pubblica — oggi i paladini del neo-autoritarismo "soft" di stampo forzaleghista direbbero: alla "sicurezza" — che non alle biografie dei singoli pazienti.
È il trionfo della psichiatria positivista, che ha radici tanto economiche quanto culturali, politiche e sociali. Nel manicomio pubblico di massa, teorizzato da Parchappe, non è neppure necessario considerare separatamente gli "incurabili" (disabili mentali) e i curabili (i folli): l'orizzonte della terapia viene messo tra parentesi, a tutto vantaggio di un altro orizzonte, quello dell'ortopedia medica del lavoro, rispetto al quale la distinzione curabile/incurabile è superflua e persino controproducente. È in questa temperie, non a caso, che si sviluppa la comoda nozione di cronicità.
Sul versante della cura, è del tutto evidente che la logica dei grandi numeri è incompatibile con l'empatia clinica proposta dal primo Esquirol, e che la boria epistemologica positivista si disinteressa completamente alle "verità alternative" del delirio: chi delira semplicemente sbaglia, e qualunque giochetto di negoziazione della realtà alla Mason Cox è semplicemente inaccettabile per lo psichiatra-padrone, "signore della verità". Il malato insomma non ha bisogno di essere ascoltato: va semplicemente recluso, e — se ci si riesce — rieducato alla competenza sociale attraverso il salutare esercizio del lavoro fisico. Che, oltretutto, fa girare l'economia. Verità, salute, sicurezza, economia: ogni tessera al suo posto, rassicurante.
4. Disagio mentale e alterità culturale.
Come potrà lo psicopatologo comprendere i suoi malati
senza una presa di coscienza sistematica della norma culturale e della sua storia?
De Martino
Il precedente del trattamento morale non è, rispetto alla psichiatria clinica fenomenologica, alla psicoterapia postmoderna e all'etnopsichiatria, una semplice, fortunata casualità. Il rapporto, benché sotterraneo, è diretto: con il crollo del paradigma positivista, la scienze psichiche hanno potuto riaprire un fronte problematico inaugurato quasi due secoli prima, ponendosi le stesse domande che i loro stessi fondatori avevano già cominciato a porsi, giungendo a risposte estremamente moderne. Penso ai casi precedentemente discussi della fraus terapeutica e del concetto di armonia: già in questi approcci il sintomo non viene combattuto, negato, respinto (l'impostazione di Charpentier, pienamente recepita dal positivismo), ma assecondato, accolto in quanto portato centrale dell'esperienza del sofferente e parte del suo mondo interno. La paradossia del vissuto delirante viene accettata e messa al centro della relazione di cura. Penso allora ai lavori sul sintomo della psicoterapia che si rifà a Gorge Kelly e Paul Watzlawick, terapia che entra nel mondo del sofferente per manipolarne i contenuti, riconfigurarli, "spostarli" ("cambiare l'immagine del mondo che produce dolore", Watzlawick 2007), permettendo però allo stesso malato di scoprire in sé le risorse per dare un senso al sintomo, riconciliarsi con esso, non necessariamente sradicandolo (penso al caso del famoso schizofrenico scozzese Ron Coleman).
Questo "approccio biografico" al sintomo è lo stesso che Beneduce descrive in relazione alla etnopsichiatria della migrazione, ma è anche assimilabile al programma di antropologia medica della scuola di Harvard, la ricostruzione del senso dell'esperienza di disagio attraverso le illness narratives: vale a dire, un esercizio di narrazione del disagio che giunge ad avere in sé valore terapeutico, nella misura in cui consente al malato di riorganizzare positivamente il suo "mondo interiore" problematico (cfr. il classico di Byron Good Narrare la Malattia, 1999).
La illness si configura come una "sindrome dell'esperienza", e il suo racconto è considerato come una modalità d'inquadramento dell'esperienza in un intreccio testuale, in una "trama". Le narrazioni diventano quindi gli strumenti culturali che puntano a ricomporre le esperienze irregolari di malessere in un ordine di significato. […] La malattia, infatti, determina sempre nel soggetto una forte richiesta di senso (Pizza 2008, p. 86, corsivo mio) .
L'esperienza della malattia come crisi di senso: si pensi a Ernesto De Martino, in particolare quello de La fine del mondo (2002), un testo straordinario, imprescindibile per chiunque si occupi di scienze dell'uomo, e in particolare dello "scandalo" della malattia mentale. Se la malattia è "crisi di senso", allora la terapia si gioca sul piano della possibilità di ritrovare il senso perduto o di ricostruirlo ex novo, permettendo al malato di ricostruire un assetto relazionale soddisfacente con il suo "fuori".
La questione del sistema di significati del malato conduce direttamente a un altro, gigantesco, problema: quello della cultura di cui egli è portatore, e degli attriti che possono esistere tra il sistema di significati del terapeuta e quello del paziente. È questo il problema principe con cui si è confrontata e si confronta l'etnopsichiatria. Questa disciplina, radicata nella tradizione degli studi etnologici, si basa sul concetto antropologico (post-tyloriano) di cultura come insieme complesso di modelli interpretativi e performativi che orientano l'uomo nel suo agire sociale. Non è possibile soffermarsi in questa sede sull'infinito e meraviglioso dibattito che ha gravitato intorno a questo concetto, ampiamente criticato e decostruito, ma ancora indispensabile: semplificando moltissimo, si può dire che tradizionalmente lo sguardo antropologico ha teso a ravvisare connessioni tra "cultura" (ossia mondo simbolico, ideale, valoriale) e gruppo sociale (individuato su base etnica, censitaria, ambientale-geografica, linguistica, eccetera).
Laddove, dunque, lo sguardo "psi" è puntato sul singolo, quello "socio-antro-etno" è rivolto soprattutto al collettivo, sovraindividuale, spesso con connotazioni etniche. Il punto è, naturalmente, che le differenze culturali non si ravvisano soltanto a livello di gruppi sociali, ma anche dell'interazione tra singoli. La stessa antropologia ha finito per riconoscere che esistono tante "culture" quanti sono gli esseri umani che agiscono culturalmente, e che anche all'interno del gruppo più omogeneo esistono infinite variazioni, negoziazioni, trasformazioni culturali. Il problema del riconoscimento della diversità culturale esiste, insomma, anche nelle relazioni uno a uno, e anche all'interno della stessa società: pertanto, riguarda anche le scienze psichiche non tradizionalmente "etno- ". Non è un caso allora che già Esquirol, dimostrandosi fine teorico, ne tenesse conto nella sua thèse del 1805.
Sarà certamente interessante per l'etnopsichiatria confrontarsi con le varie risposte alla "sfida dell'Altro" che differenti settori delle scienze psichiche vanno elaborando (penso, in particolare, a costruttivismo, costruzionismo sociale, cibernetica, fenomenologia), anche andando al di là — senza per questo negarlo, ma aprendo percorsi nuovi — del problema pur interessantissimo della migrazione e del riconoscimento politico-sociale dello straniero, un problema su cui la disciplina mi pare si concentri prevalentemente in questo periodo, almeno sul versante clinico (penso agli esempi del Centre Devereux di Tobie Nathan e al Centro Frantz Fanon di Beneduce).
I campi di interesse dell'etnopsichiatria,in realtà, sono estremamente ampi e plurali: è una scienza fissile, onnivora e pluralista, aperta "costituzionalmente" alla multidisciplinarietà, una forma di sapere naturalmente indotta a "riformulare i problemi iniziali, a rivalutare le questioni iniziali della psichiatria e dell'antropologia". Ecco una definizione delle macro-aree di riflessione della disciplina etnopsichiatrica nelle parole di un suo grande protagonista, Tobie Nathan:
chiamerò dunque etnopsichiatria una disciplina che ha per oggetto l'analisi di tutti i sistemi terapeutici senza esclusività né gerarchia che si rivendicano come "sapienti" o che si presentano come specifici di una comunità etnica, religiosa o sociale. L'etnopsichiatria si propone di descriverli, di tirare fuori da essi la razionalità che li caratterizza e, soprattutto, di valorizzare il loro carattere necessario (p. 33).
Aggiunge più oltre Nathan, citando testualmente Devereux, che queste premesse
ci portano a considerare il problema della normalità e dell'anormalità all'interno del concetto chiave dell'antropologia, quello di Cultura, e del problema chiave della psichiatria, che è quello della frontiera tra il normale e l'anormale (p. 39).
I problemi però non si fermano qui. L'etnopsichiatria è anche
una disciplina che si propone di verificare i concetti della psichiatria, della psicanalisi e della psicologia alla luce delle teorie dei gruppi di cui studia i dispositivi terapeutici. Essa non prende parte alla querelle che vede da un lato i sostenitori della validità universale dei concetti psicanalitici, delle entità nosografiche della psichiatria, dei concetti emersi dalle ricerche di psicologia cognitiva e, dall'altro, i sostenitori di un relativismo culturale. Essa si contenta di elaborare dei metodi destinati a mettere alla prova queste teorie alla prova delle realtà culturali e cliniche che osserva (pp. 33-34).
Dunque, una pratica di pensiero riflessivo, volta alla critica costruttiva, non ideologica, delle grandi narrative che hanno caratterizzato le scienze psichiche in Occidente. Sino a che punto i grandi paradigmi della psichiatria e della psicoanalisi sono il prodotto di una specifica vicenda storico-culturale? E sino a che punto è vero l'inverso, ossia quanto questi possenti meccanismi di pensiero hanno "costruito" la realtà sociale della malattia in Occidente?
Alcuni esempi: Piero Coppo, in Galzigna 1999, dimostra dettagliatamente come l'esperienza di sofferenza classificata come "depressione" sia una sindrome "prodotta dalla cultura". È altresì noto che l'isteria ha conosciuto un boom durante l'età d'oro della psicoanalisi freudiana, e oggi è una malattia inesistente, mentre sono entrati all'interno della sfera "psi" altre forme di disagio (disturbi dell'alimentazione). Dai manuali statistico-diagnostici e dagli articoli specialistici sono sparite voci vergognose come "omosessualità" e "lipemania" mentre sono stati fatti sforzi, generalmente poco riusciti, di far entrare nel sistema tassonomico realtà problematiche come le culture-bound syndromes. Risulta insomma chiaro che l'articolazione interna delle scienze psichiche, lungi dall'aver mai raggiunto la pretesa stabilita "scientifica" o "oggettiva", ha sempre pagato un forte dazio al divenire della realtà sociale.
D'altra parte, sulla scorta di questa consapevolezza, ci si può anche chiedere quanto discorsi e simboli potenti come il concetto di "conflitto edipico", "inconscio" o "rimozione" siano effettivamente entrati a far parte del sistema di costrutti che costituisce la vita psichica degli individui in Occidente.
Se la psicoanalisi è una mitologia, insomma, va riconosciuto che è una mitologia condivisa, che "funziona", e che ha aiutato molte persone. Certo, gli etnografi hanno dimostrato quanto sia difficile e infruttuoso, ad esempio, applicare il concetto di complesso edipico a realtà sociali con strutture di parentela diverse dalla nostra: tuttavia, è altrettanto vero che Edipo è ancora un grande "mito d'oggi", è presente nell'immaginario collettivo, e pertanto costituisce un lessico condiviso fra molti pazienti e molti terapeuti, garantendo così un terreno comune su cui innestare il discorso terapeutico, un orizzonte simbolico condiviso che lega sofferente e guaritore, non diversamente che nelle cure sciamaniche delle società cosiddette "tradizionali". Si tratta della nozione di efficacia simbolica (Lévi-Strauss 1998): tale strumento concettuale è, mi pare, tuttora carico di potenzialità analitico-operative; va però rifiutato qualunque tipo di discorso etnocentrico che assegni un primato di verità "oggettiva" ai sistemi di cura occidentali, relegando quelli tradizionali al campo della suggestione o dell'effetto placebo. I sistemi culturali, infatti, sono antropologicamente equivalenti e reciprocamente irriducibili, quantunque mai "chiusi". Lo studio della psicoanalisi, della psichiatria e delle altre scienze psichiche occidentali come sistemi culturali specifici, e all'interno di sistemi culturali più ampi (nonché nel rapporto con altri sistemi di cura, inseriti a loro volta in più ampi sistemi culturali), è dunque uno degli scopi precipui della scienza etnopsichiatrica.
Nathan non trascura però il versante clinico-applicativo: la terza specificità della disciplina è infatti l'integrazione, nel proprio apparato di saperi e strumenti terapeutici, di "soluzioni tecniche" derivanti dalla pratica riflessiva e relativizzante descritta sopra. Tali soluzioni scaturiranno sia dal progredire della riflessione (auto)critica sugli apparati della psichiatria occidentale, che dall'indagine altrettanto critica sui sistemi di cura delle persone e dei gruppi non-occidentali. Tradotto in termini operativi, ciò implica che la presa in carico di un individuo da parte dell'etnopsichiatra richieda un'opera di bricolage tra i metodi di cura del sapere scientifico occidentale e quelli del sistema culturale di cui il paziente è portatore. I capitoli finali del volume Etnopsichiatria di Beneduce, dedicati alla discussione di casi clinici, portano una serie di esempi pratici di questa tecnica.
5. La cura: alla ricerca del senso perduto.
Eia, mater, fons amoris,
me sentíre vim doloris
fac, ut tecum lugeam.
Stabat Mater
All'inizio del precedente paragrafo, citando la scuola di Harvard e De Martino, ponevo in primo piano la questione del "senso perduto" nella malattia mentale. Naturalmente è qualunque malattia, l'esperienza del male in generale, a produrre sempre una dolorosa crisi dei significati: l'esperienza intrinsecamente incomunicabile del dolore, il confronto spesso alienante con i dispositivi biomedici (Cappelletto, in Cappelletto 2009), la forzata accettazione di un ruolo sociale ambiguo e liminale come quello del "malato" (Cozzi 2003), sono tutti aspetti che contribuiscono ad allontanare il malato dalla sua quotidianità, a frantumare i suoi modelli esistenziali, ad estirparlo dal suo tessuto sociale e relazionale.
La malattia mentale, tuttavia, radicalizza massimamente questa frattura fra il sofferente e il mondo: più di altre forme di patologie, essa è irriducibile al biologicismo, e appare oscura, incontrollabile e inquietante. Con la sua sola presenza, essa ribadisce scandalosamente ciò che tutte le tassonomie psichiatriche e i riduzionismi medici si sforzano affannosamente di nascondere: che la frontiera tra normalità e anormalità è porosa, fragile. Che la "normalità" non è ontologicamente data, bensì è frutto di convenzioni, pratiche e rapporti di potere, e che come tutte le facciate, anch'essa ha il suo retro, le sue zone d'ombra.
La malattia, e credo che questo valga in particolare per quella psichica, come icasticamente afferma Nancy Scheper-Hughes, non è qualcosa che "semplicemente capita" alle persone: è piuttosto un'epifania, è lo svelarsi, il per-formarsi del negativo sul corpo del malato e sul corpo sociale. È la manifestazione, più o meno travolgente, del rapporto disagiato e conflittuale tra il "sé" del sofferente e il "mondo". E questa epifania suscita istintivo raccapriccio e timore, perché smaschera la fragilità e la convenzionalità del "normale", affermando con violenza l'inadeguatezza del "mondo" rispetto a un sé che soffre.
Gli assetti teorici forti del razionalismo e del positivismo hanno persistentemente tentato di neutralizzare la carica destabilizzante di questa epifania: non può essere il "mondo" (razionale e positivo) che è sbagliato; semplicemente, sbagliato è chi soffre. Il malato è deviante, e come tale deve essere inglobato in dispositivi istituzionali che abbiano mura (reali o metaforiche) sufficientemente spesse da isolare questa "antimateria socioculturale" dal corpo collettivo: un'operazione di chemioterapia sociale titanica, ambiziosa, persino grandiosa — nonostante le drammatiche implicazioni etico-politiche e morali — che ben rappresenta le utopie e le angosce dell'uomo della modernità. Naturalmente questo tentativo, seppur condotto con gran dispendio di forza muscolare, non ha conseguito risultati definitivi. Come ci insegna il secondo Foucault, infatti, il potere non potrà mai ridurre e annichilire totalmente il contro-potere degli individui. Per quanto sia possente il Golia dell'apparato teorico e tecnologico dispiegato, non sarà mai soppressa del tutto la voce del piccolo David che urla il suo dolore e la sua estraneità. E questo dolore è scandaloso perché rivela le falle del meccanismo, le crepe sulla facciata "scientifica e positiva".
Con questo naturalmente non voglio indulgere in un modello banale e idealistico di malattia mentale come momento di rivolta, aperta critica sociale, coraggioso movimento di rottura o gioiosa rivendicazione del singolo nei confronti della società matrigna. La malattia è tutt'altro che aperta, gioiosa e creativa, anzi è un momento di dolore e annichilimento: il malato non si diverte, non sventola bandiere nelle piazze e non scrive pamphlet, ma sta chiuso in una stanza, un ospedale o un istituto. La sua solitudine è doppia: egli è solo perché abbandonato, privato di una soddisfacente rete di rapporti interpersonali, ed è solo perché circondato dal muro di incomunicabilità simbolica che la follia erige, ossia la discrepanza tra il mondo che lui esperisce e quello che viene classificato dai "normali" come "realtà" (si pensi ad esempio ai vissuti deliranti). A ciò si unisce l'isolamento cui la condizione di malato frequentemente conduce.
Tuttavia, non può essere taciuta la straordinaria componente di resistenza e di denuncia che il corpo/mente sofferente del malato esprime. È un "denunciare" nel senso più ampio del termine, che è anche e-nunciare e an-nunciare: attraverso il disagio, il malato (suo malgrado) incorpora e manifesta ad un tempo le tensioni e le contraddizioni che attraversano la sua realtà, mettendole a nudo, de-nunciandole e demistificando così gli assunti del senso comune che naturalizzano e occultano queste tensioni e contraddizioni.
È un'esperienza certamente dolorosissima, atroce, ma straordinariamente ricca dal punto di vista antropologico. Il folle non "sbaglia" semplicemente l'analisi di realtà. Suo malgrado, egli smonta la datità del reale mostrandone la malleabilità e la convenzionalità: la realtà, attraverso la follia, si rivela come un fatto meramente statistico. È comprensibile che il pensiero moderno abbia categorizzato quest'esperienza come un "errare", ma va ricordato che in molte civiltà extraeuropee (ed europee non-egemoniche) il folle è tenuto in alta considerazione, e anziché "uno che sbaglia" è rappresentato come il detentore di una verità privilegiata (il "toccato da Dio").
Non credo sia improprio richiamare, e applicare un po' proditoriamente al campo della follia, un concetto a me molto caro, quello di "senso della possibilità"; concetto meravigliosamente descritto da Robert Musil nel suo L'uomo senza qualità:
[...] se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev'essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità.
Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com'è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è [...] (Musil 1997, p. 13) .
Il folle è radicalmente, a modo suo, un "uomo della possibilità". Certo, vi sono innumerevoli modi di vivere il senso della possibilità, e la follia è chiaramente il modo più estremo, vertiginoso e devastante: non si tratta di farne un elogio, ma di considerare la "malattia" mentale anche nel suo essere un "percorso eccentrico", la realizzazione di un'alternativa esistenziale, e non una semplice devianza. Sarebbe interessante verificare l'applicabilità a questo specifico campo della nozione foucaultiana di parrhesia, pratica della verità. Il folle nel suo presunto "errare" dice una grande verità, una verità enorme, esplosiva: che la "realtà reale" non esiste, è un prodotto costruito socialmente, ed è quindi sempre possibile trovare da qualche parte qualcuno che non è d'accordo con gli assetti che la maggioranza ha naturalizzato.
Questo non significa naturalmente che la follia sia un'alternativa percorribile, auspicabile o generalizzabile. In effetti, non lo è affatto: se la follia conduce all'isolamento, è proprio perché si configura come un'alternativa non condivisibile, eccentrica rispetto all'orizzonte comune di operabilità mondana, come lo definirebbe De Martino.
Ma le scienze umane non possono esimersi dal venire a patti con la portata antropologica della devianza mentale. Il positivismo non tollerava le alternative, non riusciva neppure a concepirle, classificandole come ripugnanti aberrazioni. Le scienze psichiche e sociali oggi non possono più ricadere in un simile mix di arroganza e ingenuità: il rispetto che dobbiamo avere di fronte alla follia non è un rispetto meramente umanitario, ma primariamente un rispetto metodologico, epistemologico e filosofico.
Penso che la lezione husserliana sull'epochè sia preziosa in questo senso: lo studioso-terapeuta deve tentare di sospendere le sue categorie e venire a patti con quelle del malato mentale, inevitabilmente differenti, ed è solo da questo attrito categoriale che può scaturire la com-prensione che è premessa indispensabile della relazione terapeutica. La presa in carico del sofferente implica un confronto positivo con il suo orizzonte esistenziale, al fine di co-costruire una nuova alternativa, un orizzonte di significati che tenga conto tanto della biografia della persona quanto dei codici di accettabilità sociale.
Conclusione.
L'alternativa della follia è un vicolo cieco, ma se un'unica strada maestra (la "realtà oggettiva" della verità scientifica) non esiste, allora lo scopo del terapeuta è quello di aiutare il sofferente ad uscire dal vicolo cieco ed aprirsi un nuovo sentiero più soddisfacente, riscoprendo la propria creatività, autonomia e responsabilità. Non a caso, oggi la psichiatria e la psicoterapia illuminate non cercano di "riportare alla normalità" il paziente (perché non c'è una verità ontologica assoluta), ma piuttosto di ridurne la sofferenza, e farlo uscire dall'isolamento, ricostruendo intorno alla persona e con la persona una rete di significati e relazioni efficaci e soddisfacenti. Bisogna "negoziare con il male", come afferma Coppo e come faceva Mason Cox, non combattere il demone del sintomo con la spada (spuntata) della razionalità positiva.
Per fare questo è indispensabile riporre l'arma dello scientismo e sfoderare quelle dell'empatia e dell'umiltà scientifica. Il terapeuta, senza imporre le proprie strutture di verità sul sofferente, può così innescare un percorso di soluzione del disagio basato sulla relazionalità empatica.
La follia produce isolamento, e si basa sull'isolamento: alle radici della malattia mentale vi è un rapporto conflittuale fra il paziente e la sua "realtà", una frattura che tanto più si allarga quanto più la malattia allontana il sofferente dal suo nucleo relazionale. Portatore di un'"alienità", una diversità percepita spesso come radicale, il folle si ritrova da solo anche socialmente, incapace al lavoro (alla "produttività sociale"), disinteressato al consumo, abbandonato dagli amici e i conoscenti e magari anche da parenti e familiari stretti. L'alienato è così due volte tale: alienato dalla "realtà statistica", e alienato da un mondo relazionale soddisfacente.
Si ripensi in questo senso all'efficacia, ampiamente comprovata dalla ricerca sul campo etnografica ed etnopsichiatrica, delle modalità "tradizionali" di cura basate sulla mobilitazione attiva di un intero tessuto sociale (familiare, di villaggio) intorno al soggetto sofferente. Dagli arcinoti studi demartiniani sul tarantismo pugliese ai casi di cura collettiva documentati in contesto africano, la letteratura offre una quantità di spunti ormai classici in questa direzione (cfr. la pratica congolese della "confessione diabolica" collettiva come presa in carico di gruppo, ritualizzata, di un disagio esistenziale individuale, riportata in Beneduce 2007, pp. 194-195). L'etnopsichiatria in Africa, per esempio, ha agito attraverso la creazione di specifici contesti di cura, i "villaggi terapeutici", entro i quali riattivare attorno ai malati un sistema di relazioni affettivamente dense, un flusso empatico stabile, onde aiutare queste persone a ricostruire un equilibrio emozionale soddisfacente: ma, tolta l'inevitabile (ingannevole) patina di esotismo, salta all'occhio la similitudine di queste esperienze con la dimensione affettiva dell'asilo a conduzione familiare proposta quasi due secoli prima da Brierre de Boismont.
Tuttavia, lo scopo di questa riflessione non vuole essere tanto, o solamente, quello di rintracciare connessioni (pur significative) tra differenti fasi del cammino delle scienze umane, quanto quello di trarre da queste esperienze vicine o remote nel tempo qualche insegnamento sulle sfide teoriche e pratiche della contemporaneità. E in questi tempi di crescente mercificazione e atomizzazione dell'individuo, e soprattutto — secondo me — dell'individuo-in-società, sotto i colpi di una surmodernità aggressiva, credo sia particolarmente importante riconsiderare la centralità del valore della persona: in tutte le sue dimensioni, e inserita in un contesto socio-relazionale appagante. Anche e soprattutto quando è costretta a indossare il ruolo di malato.
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