Incontro del 25.05.2000

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10 ottobre, 2012 - 18:14

PRESENTAZIONE DEL CASO

Ada è una donna di 36 anni (è nata il 13 dicembre 1964) conosciuta ai servizi psichiatrici territoriali e ospedalieri fin dal 1990. La scelta di questo caso nell'ambito dei seminari organizzati dalla scuola di specialità di psichiatria di Milano si basa sul fatto che la storia di questa paziente è, a mio avviso, molto rappresentativa dell'organizzazione psichiatrica attuale.

Anamnesi

Anamnesi personale. Nata a termine da parto eutocico, normali le tappe dello sviluppo psicomotorio, tonsillectomia a 6 anni, parotite a 11 anni, menarca a 13 anni. Ada non ha mai presentato fino al primo ricovero problemi psichici. Scolarità: diploma di perito turistico. Si è poi iscritta alla facoltà di scienze politiche sostenendo alcuni esami. La frequentazione dell'università si è interrotta nel 1990 per effettuare soggiorni all'estero finalizzati all'apprendimento delle lingue (Germania, Inghilterra, USA). Nel 1989 la paziente ha aderito alla religione buddista.

La famiglia nucleare è costituita dai genitori e da tre figli (la paziente di 36 anni, una sorella di 32 e un fratello di 30). Madre di 58 anni, ex infermiera, vivente, sana. Padre di 58 anni, professore di scuola media superiore, vivente, sano. Si sono separati piuttosto presto dopo il matrimonio e la nascita dei 3 figli. Il padre vive da tempo con una nuova compagna, occupandosi di tanto in tanto dei figli. La madre sta attualmente con un convivente. Dopo la separazione dei genitori, avvenuta nel 1977, i figli vissero con il padre per 4-5 anni, poi furono affidati alla madre. Sia la sorella che il fratello si sono sposati e poi si sono separati dai rispettivi partners.

Primo ricovero dal 27-2-1990 al 6-3-1990

Diagnosi di accoglimento: sindrome depressiva

Il primo contatto con l'ambiente psichiatrico avviene nel febbraio 1990. Ada viene accompagnata in PS dalla madre con il pretesto di farsi misurare la pressione arteriosa, ma emergono fin da subito problemi psichici che orientano per un ricovero in SPDC. La madre riferisce che da circa tre giorni la paziente è completamente insonne. Durante la giornata e la notte deve controllarla per evitare che si faccia del male (di notte si era procurata alcune abrasioni al braccio sinistro con un coltello). Sempre durante la notte avrebbe costretto la madre a "preghiere" purificatorie (la paziente ha aderito da circa un anno alla religione buddista). Il tentativo di evitare che la paziente facesse una doccia fredda ha portato ad un litigio familiare. Stamane, nel tentativo di contenerla, Ada è fuggita dalla finestra (abitano al piano rialzato). La paziente appare sintona, l'ideazione è formalmente corretta. Collega gli agiti autolesivi alla necessità di punirsi (necessità di cui non specifica la causa e che, nonostante i tagli, non viene soddisfatta). Il fatto che costringe la madre alla preghiera viene sentito come obbligo forse motivato da voci interne. Vorrebbe evitare il ricovero anche se, criticamente, sente la necessità di essere aiutata per lenire l'angoscia che sta sperimentando in questi giorni.

Nel corso della degenza Ada parla con diversi psichiatri che si succedono ogni giorno per esigenze di turnazione. In un colloquio afferma di aver provato un intenso odio verso il padre in coincidenza della sua separazione dal fidanzato. È perplessa quando le si fa notare la simmetria fra la sua situazione e quella della madre. Riferisce i gesti autolesivi al tentativo di punirsi per l'odio esagerato verso il padre. Nell'attualità non è presente angoscia, la paziente è in buon contatto con l'interlocutore. Non sono presenti né allucinazioni nè disturbi focali del pensiero. Nei giorni successivi la paziente migliora rapidamente, appare lucida e collaborante, si sente più tranquilla e meno confusa, riprende a dormire. Attribuisce quanto è accaduto alla "compensazione mentale" indotta da un periodo di superlavoro ("avevo studiato troppo"). Non vengono rilevati contenuti deliranti nell'ideazione. Permane l'atteggiamento reattivo verso il padre.

Un esame EEGrafico dà il seguente esito: disfunzione delle regioni temporali di entrambi gli emisferi.

Nel corso della degenza le sono stati somministrati Serenase (6 mg), Tavor (50 gtt) e Halcion 0,25 mg 2 cp se insonne.

Consigli alle dimissioni. Viene dimessa "migliorata" con Serenase 40 gtt e Tavor 2,5 mg. Le viene fissato un appuntamento al CPS entro pochi giorni.

Diagnosi alla dimissione: reazione depressiva.

Dal 1990 al 1993

Ada, dopo la dimissione si è presentata per poche visite ambulatoriali al CPS, sospendendo poi ogni contatto con il servizio. Durante i tre anni successivi, viene riferito progressivo ritiro sociale, perdita delle amicizie, diminuzione degli interessi. La paziente, a parte sporadici e brevi periodi di lavoro, avrebbe essenzialmente solo aiutato la madre nelle faccende domestiche, mostrando di tollerare sempre meno persone estranee alla famiglia. Verso la fine del 1993 viene riferita insorgenza di momenti di irritabilità crescente che si concludono in scariche di verbalizzazioni offensive nei confronti dei famigliari, seguite da esortazioni agli stessi di fare altrettanto nei suoi confronti. Viene quindi di nuovo ricoverata in SPDC.

Secondo ricovero dal 21-11-1993 al 11-12-1993

Diagnosi di accoglimento: sospetta Psicosi

Nel corso della degenza durante un colloquio la paziente lamenta eccessiva sedazione che esprime come sensazione di essere divisa in due parti. Al colloqui mantiene un atteggiamento un po' diffidente nonostante giunge a parlare "di cose così irrazionali che è difficile ed inutile esprimere a parole". Riferisce di non ricordare esattamente il motivo del ricovero di tre anni fa; di fatto comunque non è più uscita dal "tunnel", trovandosi ora "nella fase peggiore, ma forse vicina alla fine". È convinta di essere stata colpita da una "maledizione" per liberarsi dalla quale (da qualche mese) si sente costretta a dire parolacce ed insulti in un certo orario, in una determinata stanza, con una precisa modalità, nei confronti dei familiari. Queste verbalizzazioni verrebbero indotte da una "forza del male" estrema. I vissuti di influenzamento sono ammessi dalla paziente con molta difficoltà e poi negati. La paziente afferma che esiste un fondamento razionale dietro a questa "evidente mancanza di logica": gli insulti sarebbero inflitti a persone che le hanno fatto del male. Una volta pronunciati, la paziente si sente meno tesa e vuole allora che l'insultato le risponda, insultandola a sua volta. La paziente è convinta che tutto avrà termine quando sarà liberata dalla maledizione. Attualmente sente che si sta avvicinando un evento luttuoso ("la morte di qualcuno o di qualcosa: per esempio un amore") e avverte di "avere la morte dentro" quasi fosse mediatrice tra l'entità cattiva e gli altri, cui pensa di fare così del bene. Nel corso di un altro colloquio afferma che una persona o più persone sconosciute le parlano nella testa. Le frasi volgari così sentite devono essere espulse. È necessario che i familiari siano presenti affinché possa avvenire tale espulsione. Successivamente si sente più rilassata, ma prova sensi di colpa nei confronti della madre o del fratello. La paziente lega la possibilità della fine della "maledizione" ad un incontro con il padre che getti le basi per una "migliore intesa". La partecipazione affettiva della paziente sembra riattivarsi quando parla del padre da cui afferma di sentirsi abbandonata. Da lui peraltro sentirebbe di poter ottenere una protezione più forte nei confronti della maledizione. La necessità di dire parolacce sarebbe insorta agli inizi di settembre quando, con l'uscita da casa della sorella, si sarebbe resa conto del bisogno di farsi amici propri.

Nel corso della degenza la paziente ha assunto Serenase (5mg), Valium e Dalmadorm. Il Serenase è stato poi sostituito con Impromen (11+11 gtt/die). Per l'insorgenza di fini tremori alle mani, ipertono, rigidità e scialorrea è stato aggiunto in terapia il Disipal (1-1-cpr/die). Una settimana prima delle dimissione è stato praticato Haldol decanoas � fiala im. Quattro giorni prima delle dimissioni l'Impromen è stato sospeso ed è stato introdotto il Prozac (1cpr).

Consigli alle dimissioni. Viene dimessa "migliorata" con la seguente terapia: Prozac 1 cpr, Valium 20+20+20 gtt, Disipal 1 cpr, Dalmadorm 30 mg se insonne. Le viene fissato un appuntamento al CPS entro pochi giorni.

Diagnosi alla dimissione: non rilevata

Dalla fine del 1993 alla fine del 1994

La paziente questa volta viene effettivamente presa in carico dal CPS. È seguita da un medico, peraltro da lei richiesto nel corso del precedente ricovero. Viene vista in sedute individuali in ambulatorio con frequenza variabile anche perché nel corso dell'anno va incontro ad altri brevi ricoveri presso l'SPDC. I comportamenti compulsivi persistono, in particolare il bisogno di scaricare parolacce sui familiari. La ricerca della possibile causa si allontana dalle spiegazioni magiche e dalle "voci interne" che avevano caratterizzato il periodo precedente e si focalizza su spiegazioni "psicologiche" quali ad esempio il carattere "forte" cha ha preso dalla mamma. Tutti i suoi sforzi sono tesi a "controllare" il più possibile tali impulsi con alterni risultati . A metà gennaio del 1994 viene concordata una seduta di consultazione familiare per valutare gli aspetti relazionali degli agiti della paziente, ma viene di nuovo ricoverata dal 28-1-94 al 16-2-94 in SPDC. Questa volta la diagnosi è quella di Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Alle dimissioni la terapia comprende: Anafranil 25 mg (1 cpr x3/die), Tavor 2,5 mg (� +� + 1/die), Dalmadorm 1 cpr se insonne, Haldol decanoas � fiala im al e mese. Anche dopo il ricovero ha continuato a presentare "impulsi" a dire parolacce. Si è recata dai vicini e dai genitori dell'ex fidanzato ad insultarli (al citofono), accompagnata dalla madre perché "spiegasse loro che lo fa in quanto ammalata". Si dice poco motivata a proseguire sia i colloqui individuali sia quelli familiari.

MMPI effettuato il 31-2-94: vedi fotocopia.

Altro ricovero dal 21 al 30 aprile 1994 poi frequentazione del day hospital presso lo stesso SPDC, colloqui individuali, sedute familiari, invariabilità dei comportamenti compulsivi. Ada ripropone in modo ripetitivo il tema della "incomprensibilità dei propri comportamenti". Riferisce anche vissuti di tristezza e ideazione suicidarla che l'hanno portata al ricovero: "ero andata a casa di una zia che abita al quarto piano per buttarmi di sotto, ma mi sono fatta accompagnare al pronto soccorso". Nel frattempo si parla della possibilità di intraprendere un tirocinio lavorativo.

Ricovero dal 7-11-1994 al 5-1-1995

Diagnosi di accoglimento: Disturbo ossessivo-compulsivo

Questo ricovero è dovuto al fatto che, la sera precedente, a domicilio, Ada ha tentato di appiccare il fuoco agli indumenti che indossava chiamando nello stesso tempo la madre, presente in un'altra stanza, che ha spento prontamente il fuoco. Condotta a casa della nonna dove ha trascorso la notte, ci ha riprovato perciò è stata accompagnata al pronto soccorso e ricoverata presso l'SPDC.

Nel corso di questo lungo ricovero Ada ha diversi colloqui con i medici del reparto e presenta acting-out importanti. Inizialmente è molto appartata, tenta di spiegare il comportamento autolesivo con l'esigenza di farsi del male "per tirare fuori tutto il male che ho dentro". Verso la sera del giorno successivo la paziente viene sorpresa dagli infermieri di turno con la parte superiore della tuta che indossa in fiamme. Subito condotta al PS le vengono riscontrate ustioni di 1� e di 2� grado. Ricondotta in reparto riferisce di essersi procurata un accendino da una codegente. Piange, è poco accessibile, si definisce "vuota". Conseguenza di questo atto: da allora in reparto vengono ritirati gli accendini alle persone ricoverate.

Si mettono in atto procedure di sorveglianza particolare. Nei colloqui con gli psichiatri verbalizza vissuti di colpa: "Sono cose che non si fanno� provo vergogna" con scarsa partecipazione emozionale. Riferisce poi di sentirsi soddisfatta per quanto fatto. In un successivo colloquio chiarisce ulteriormente alcune cose: "non volevo morire, ma solo farmi del male", "Bruciarsi è il prezzo da pagare contro la maledizione", "in effetti ora le pulsioni sono minori", "però per essere davvero efficace, devo bruciarmi due volte" (sic!), "Non credo che voi possiate far nulla per aiutarmi". Tutto il colloquio è improntato a grande rigidità emotiva dove pensieri magici prepsicotici emergono dal contesto ossessivo. Viene sottolineata la necessità della sorveglianza continua anche alla luce dei nuovi contenuti della paziente.

Terapia farmacologia. Nel corso della degenza la paziente ha assunto: Serenase, Prozac e Benzodiazepine.

Consigli alle dimissioni. Viene dimessa "migliorata" con la seguente terapia: Prozac 1 cpr, Valium 20+20+20 gtt, Dalmadorm 30 mg se insonne. Le viene fissato un appuntamento al CPS.

Diagnosi alla dimissione: Disturbo ossessivo-compulsivo

 

1995-2000

Vengono riprese le visite ambulatoriali preso il CPS. Tende a rifiutare i farmaci riducendone le dosi. I rituali ossessivi persistono nel tempo modificandosi di poco. Il programma prevede colloqui individuali, incontri con i familiari, frequentazione del day-hospital. Nel corso del tempo i terapeuti individuali cambiano a secondo delle vicissitudini del CPS, gli incontri con i familiari si diradano fino a interrompersi. L'équipe discute del caso nelle riunioni e in alcuni incontri di supervisione in cui vengono sollevati diversi pareri sulla diagnosi, sul tipo di intervento e sull'impasse che si è venuto a creare. I ricoveri si fanno via via sempre più frequenti e prolungati fino a giungere dal 1998 a rimanere praticamente in reparto quasi tutti i giorni dell'anno come se fosse l'unico posto in cui la paziente riuscisse a rimanere per tenere sotto controllo i pensieri e gli impulsi ossessivi, depressivi e suicidari.

Dal punto di vista della diagnosi psichiatrica viene sempre più, da parte di alcuni membri dell'équipe, a prendere corpo l'ipotesi di trovarsi di fronte a un Disturbo Borderline di Personalità con la possibilità di scompensi francamente psicotici. Non raramente la paziente esprime minacce suicidarie che rappresentano per l'équipe degli eventi possibili, ma anche la più potente arma di ricatto nei confronti dei tentativi di dimetterla o quantomeno di provocare in lei qualsiasi forma di cambiamento. Nella relazione di presentazione viene sottolineato che la paziente: "Ha sempre avanzato resistenze nello stabilire non solo un'alleanza terapeutica, ma persino un normale rapporto medico-paziente sia da ricoverata sia come paziente del CPS, ricercando nella struttura fisica del reparto e non nei rapporti umani con le figure professionali un ambito di sicurezza. L'individuazione del rapporto con uno specifico terapeuta rimane a tutt'oggi difficoltoso perché poco accettato dalla paziente che continua ad avere una pessima compliance al trattamento e nello stesso tempo a richiedere quasi costantemente il ricovero in reparto, in un reiterato meccanismo di richiesta-rifiuto che paralizza qualsiasi evoluzione terapeutica. Per quanto esposto, si ritiene necessario un inserimento della paziente in una comunità terapeutica. Una residenzialità strutturata sul lungo periodo come quella comunitaria permetterebbe alla paziente di articolare una richiesta di aiuto più "matura" non centrata sull'utilizzo del rapporto con il terapeuta in termini estemporanei per sedare l'ansia, ma su una relazione con l'altro che diventi strutturante per la paziente".

Io ho conosciuto Ada in questa fase della sua patografia. La sintomatologia è tuttora caratterizzata da: idee fisse e ricorrenti di autoaccusa, di autosvalutazione, di indegnità e di colpa: "sarei fuori di qui se avessi utilizzato la mia intelligenza, se non avessi paura degli altri, se non mi lasciassi sottomettere dagli altri, se avessi fiducia in me stessa�" I rituali compulsavi vengono ancora spiegati dalla stessa paziente come il tentativo riuscito di tirare fuori il suo malessere interiore: impulso a denudarsi, impulso a prendere per il collo altre persone, impulso a dire parolacce� Il suo racconto è sempre dissociato dall'affettività che appare fredda e staccata dai contenuti espressi nonché dai desideri che appaiono delle mete irraggiungibili. Il periodo di ricovero è interrotto solo da brevi rientri a domicilio durante il week-end. In pratica Ada vive il reparto psichiatrico come se fosse una comunità terapeutica, solo che le regole le fissa lei, infatti va a casa solo se lei se la sente. In qualche rara occasione i familiari si oppongono al rientro a domicilio di Ada, ma in genere si dimostrano collaboranti. L'atteggiamento di Ada è sempre più ambivalente e regressivo. Dimostra di adattarsi benissimo alla vita passivizzante e deresponsabilizzante del reparto. In fondo, stando in SPDC e connotandosi come malata, la paziente evita gli impegni lavorativi e il confronto prolungato con i familiari o con altre figure. Ogni tanto, specialmente verso sera, chiede la somministrazione di tranquillanti per aiutarla a combattere l'angoscia che la disturba oppure per controllare con la sedazione le compulsioni sempre in agguato. Tuttavia in reparto stabilisce relazioni affettive specialmente con gli altri pazienti e con il personale infermieristico mentre con i medici mantiene un atteggiamento piuttosto difensivo, passivo e svalorizzante. Per quanto riguarda il progetto di inserimento comunitario, nonostante la sua decisa opposizione a qualsiasi cambiamento, si è tentato nel corso del 1999 di inserirla in un CRT di un'unità operativa vicina. Per vincere la sua resistenza è stata accompagnata da un medico più volte a visitare il Centro con lo scopo di conoscere gli operatori e l'ambiente cercando di sfruttare la minima disponibilità da lei promessa in alcune rare occasioni. Niente da fare. Nel corso di alcune visite che duravano qualche ora, bisognava sorvegliare la paziente a vista poiché metteva in atto i soliti impulsi compulsivi, minacciava di suicidarsi o si chiudeva in un mutismo sconcertante. Rientrava in reparto con il volto cupo e molto contrariata chiedendo una fiala di En e tranquillizzandosi quasi subito. Decisa a far valere con le parole o con i fatti le sue rigide posizioni sosteneva che il progetto CRT non poteva essere utile per lei in quanto aveva avuto la sensazione che in quel nuovo ambiente, con operatori che non conosceva, non avrebbe potuto sicuramente "agire" liberamente i suoi impulsi per cui sarebbe stata rifiutata. Inoltre non si sarebbe sentita "protetta" come nell'ambiente più rigido del reparto che ritiene più adatto a contenere le sue angosce, la depressione, le minacce suicidarie e gli atti impulsivi. Nel corso di alcuni colloqui informali avuti con me nel corso dei quali abbiamo affrontato irrealisticamente eventuali progetti futuri, convenendo con me circa la loro necessità o opportunità, sono emersi in modo alquanto ambivalente desideri di intraprendere il lavoro di operatrice turistica (che non ha mai svolto), i viaggi all'estero per "rinfrescare" la conoscenza delle lingue oppure di diventare "infermiera psichiatrica". Sogna spesso di essere su mezzi di trasporto (treno, tram, aereo) che quasi regolarmente esitano in incidenti anche se "alla fine non succede mai niente". Alcune sue frasi, espresse tra l'altro in modo molto distaccato, lasciano decisamente sconcertati: "Dormire non serve a niente perché chi dorme non piglia pesci" oppure "Sto bene solo quando riesco a sfogarmi". Recentemente la madre si è rifiutata di accoglierla in casa per il week-end perché Ada avrebbe intrapreso una relazione con il compagno di un'altra codegente dalla quale si sta separando. Il fatto tra l'altro può essere verosimile, ma dimostra sempre di più come la paziente viva il reparto come una vera e propria struttura comunitaria. Alcuni pazienti "revolving door" sostengono che sarebbe un'ingiustizia non ricoverarli dato che Ada non viene mai dimessa. La paziente è diventata così l'emblema della nuova cronicità non solo per gli operatori, ma anche per gli stessi pazienti!

 

DISCUSSIONE SUL CASO

RIVOLTA:

La scelta di questo caso non è casuale in quanto è significativa in parte dell'organizzazione psichiatrica attuale e in parte ci permette di riflettere in un certo modo sul tema dei questo seminario dal titolo "Dove va la salute mentale".

VIGANÒ:

A questo proposito devo confessare che noi abbiamo un po' "frustrato" il collega chiedendogli di togliere una serie di considerazioni del tipo di quelle che ha accennato adesso in conclusione non perché non vogliamo che le dica, ma vorremmo farle emergere dalla discussione. Certamente sembra un po' un destino che i casi che presentiamo qui siano sempre così, come dire, "problematici" o, per certi aspetti, concludenti sull'insufficienza, la "difettosità" della struttura curante. Noi vorremmo evitare però di (anche per questo abbiamo trattenuto il collega almeno in una prima istanza) di precipitarci sulle evidenti manchevolezze dell'équipe curante nell'arco di questa storia che dura esattamente 10 anni dal febbraio 1990 al maggio 2000. Alcune considerazioni sulla linea psicopatologica del caso, non tanto sul trattamento.

Nelle ultime battute del "discorso informale" con il nuovo medico (il dr Rivolta) emergono con una forma certamente ormai un po' meno incisiva, ma esattamente, i temi del febbraio 1990 cioè del primo impatto con la psichiatrizzazione. I viaggi all'estero per imparare le lingue, l'operatrice turistica, l'interruzione dell'università. Non c'è più il tema religioso del buddismo, ma c'è da chiedersi "che cosa" in questi 10 anni questo soggetto abbia elaborato per poter strutturare una supplenza (quella che il nostro cognitivismo spontaneo chiama critica o esame di realta') un po' più realistica della sua progettualità umana e sociale. Questo era il problema allora, e rimane il problema oggi, con l'aggiunta di un "derealismo", la distanza dalla realtà è nettamente aumentata. Questi 10 anni non hanno, in un'ottica psicodinamica, aiutato il soggetto ad elaborare qualcosa in termini realistici della propria posizione soggettiva. Il godimento per il soggetto si e' fissato sugli atti compulsivi e, ancor di piu', sul potere che questi le conferiscono anche senza compierli (enunciato ed enunciazione sono venuti a coincidere). I temi permangono, la cornice resta tale da rendere il quadro di un'eventuale elaborazione molto più evanescente. Questa è la prima osservazione.

C'è poi da chiedersi se questo è un puro portato della psicopatologia: un soggetto che si allontana così clamorosamente dalla realtà è semplicemente la prova della diagnosi di una personalità schizoide? Quindi dobbiamo prenderlo come un dato puramente psicopatologico o possiamo fare qualche osservazione sulla dinamica interna a questo decennio? Io farei altre due osservazioni sulla dinamica di questo decennio che possano da una parte mostrare come forse la diagnosi, che a questo punto si impone, poteva essere anticipata con il vantaggio di potere agganciarsi al transfert. Quindi, seconda questione, quale era il punto transferale di una possibile elaborazione in questi anni.

Due osservazioni importanti.

  1. La prima osservazione sulla diagnosi anticipata. Mi sembra che sia da valutare questo elemento rispetto alla diagnosi: come mai in tutti questi anni sia stata data un'importanza diagnostica decisiva a quella che appare più come una formazione reattiva difensiva, cioè i rituali che chiamerei non "ossessivi" nel senso della nevrosi ossessiva, ma anancastici-compulsivi. Non mi sembra che in nessun momento appaia che il tratto ossessivo sia in relazione a una difesa dall'angoscia di castrazione, sembra piuttosto una ritualità finalizzata (lo dice la paziente stessa) a svuotare il male, la maledizione interna, potendola esteriorizzare. Noi potremmo tradurre questo con "fissare simbolicamente" un'angoscia primaria, quindi un nucleo potenziale di scatenamento psicotico. Tutta questa sintomatologia anancastica è stata presa per "la malattia" e non come "la difesa dalla malattia" con il risultato di potenziarla al massimo. Il soggetto stesso è indotto epistemologicamente a "modellizzare" l'idea del proprio male come "centrata" sul rituale anancastico. Anziché "poter elaborare la maledizione su questo male interno" e le sue articolazioni possibili se non causali, ha incentivato la protezione dalla maledizione rimasta intoccata nella sua inattingibilità, almeno nelle relazioni terapeutiche transferali. Il transfert così si è ridotto e questa linea psicodinamica di valorizzare la difesa anancastica, di non toccare l'angoscia psicotica che promuove la difesa, ha portato il soggetto ad identificarsi con questo sintomo e il tranfert ad andare giustamente sull'istituzione e non su delle relazioni affettive. Infatti il transfert adeguato all'anancasmo� e' quello sulle mura del reparto al quale il soggetto è attaccato. C'è un legame transferale rispetto alla protezione "logistica" dell'ospedale. Inoltre non è stato dato peso a una dichiarazione fondamentale del 1994: "non credo che possiate fare nulla per aiutarmi" cioè l'elaborazione del male non è possibile metterla in gioco almeno con gli psichiatri, per aiutarla a livello della "male-dizione" dalla quale avrebbe potuto salvarla solo suo padre. Era un'indicazione, solo un transfert paterno avrebbe potuto portarla a dire-bene l'angoscia psicotica, con tutto quanto di delirante poteva comportare questo tipo di elaborazione. Invece si e' optato per spostare il transfert sulle mura difensive. Sarebbe piu' preciso che questa fu la via "normale", burocratica, in assenza di chi si potesse prendere il rischio di attuare un'opzione piu' originale. La scelta dell'apparato delle cure rispetto al transfert della paziente ha valorizzato le misure difensive a scapito dell'elaborazione psicodinamica.

  2. A che livello la paziente ha potuto sviluppare comunque una dinamica affettiva, non potendola legare alla medicalità, alla terapeuticità?. L'ha sviluppata trasversalmente con gli altri degenti ed eventualmente forse con il personale, infermieri etc� dove ha riportato la dinamica fondamentale sua e della sua famiglia, che io sintetizzerei con la ripetitivita' che nella sua storia caratterizza il ricorrere del tema "separazione". I primi quattro ricoveri sono legati ad episodi separativi. La causa della maledizione è riportata dalla stessa paziente alla separazione dei genitori e quindi la riparazione della maledizione e' vista come legata al ritorno del padre. Questo nella costruzione della teoria soggettiva di Ada.


Il primo ricovero è in relazione alla separazione dal cosiddetto fidanzato. Quindi separazioni reali e non sopportate, a cui la paziente reagisce con passaggi all'atto.

Il ricovero avvenuto tre anni dopo è in relazione alla separazione dalla sorella che esce da casa per sposarsi. Quindi proprio un altro abbandono.

Direi che il tema dell'impossibilità di separarsi culmina con il terzo episodio psichiatrico quando l'ambito familiare non è più sufficiente per questa operazione di svuotamento del male (gli insulti ricevuti devono essere scaricati sui familiari), allora prende la madre a testimone, esce dalla cerchia familiare e va dall'ex-fidanzato e dai vicini a citofonare tutto il suo male, i suoi insulti, con vicino la madre che la garantisca socialmente come per dire "faccio questo perché è una mia misura terapeutica, io devo svuotarmi, ho bisogno di voi, vi dico tutte le maledizioni, mia madre garantisce che è una cosa dovuta alla mia malattia" poi se ne torna a casa. È molto bella questa uscita dal "confine familiare" quindi questa messa nel sociale della sua dinamica. È a questo punto che nasce l'affidamento della sua cura al luogo ospedale, al reparto di psichiatria. Anche qui un tentativo di separazione dalla famiglia per poter giocare nel sociale la lotta contro la maledizione non viene valorizzato e questo porta alla recrudescenza della necessità di autolesionismo: deve bruciare due volte se stessa per purificarsi dal male.

A partire da questo momento inizia il dramma, a questo punto più psichiatrico che non del soggetto, il dramma della cronicità. Il soggetto è stabilizzato in questa modalità di affidamento alla struttura protettiva del reparto e l'équipe comincia a stare male e a dire "Non si può cambiare niente, non c'è più niente da fare". L'ipotesi della comunità è brutalmente rifiutata dalla paziente; insomma il manico del coltello del potere è passato al paziente. Il paziente ha un potere ricattatorio invincibile perché ha queste pulsioni che sono in grado di spaventare chiunque e mettere nell'impotenza elaborativa chiunque perché non si può rischiare o i servizi non sono in grado di rischiare un passaggio all'atto nel momento attuale.

Questa è la "vittoria di Pirro" della psicopatologia di questi 10 anni. La paziente è guarita nel senso che ha acquisito potere sociale, ma a scapito di una de-soggettivazione, sua e dell'équipe terapeutica.

(una specializzanda, Dr Cusin):

La prima perplessità che ho è di ordine terapeutico perché, se è stata formulata in passato una diagnosi di DOC, perché non è seguita una terapia farmacologia e comportamentale specifica per il DOC? La seconda è che io vedo nella permanenza attuale in reparto della paziente un enorme vantaggio secondario. La mia impressione è che lei soggiorni allegramente o quasi , si faccia portare in giro a vedere la comunità e poi rifiuta, intrecci relazioni affettive con il compagno di una codegente, ma tutto sommato non le venga imposto nessuna regola, nessuna richiesta, in uno stato di infantilismo perenne che noi stiamo qui a guardare: "se vuoi qualcosa, dacci un segno" però "chiedi le terapie tu, non imponiamo niente, non ci sono regole, non c'è un setting, non c'è niente". Lei� va avanti� Ecco, queste sono le mie due problematiche che mi chiedo come vengano affrontate e perché si è arrivati a questo punto.

FRENI:

Io dagli specializzandi mi aspetterei qualcosa di più forte perché li avevo avvertiti che sarebbe finita così.

VIGANÒ:

Ma queste due domande sono forti e precise!

FRENI:

Io voglio dire questo: io non sono sicuro che si tratti di un disturbo ossessivo-compulsivo. Come abbiamo visto anche la volta scorsa, ormai sono numerosi i casi in cui assistiamo a questo rapporto tra sistemi e rituali difensivi di tipo ossessivo sia all'ingresso che all'uscita di una condizione psicotica, e questa è una cosa ben documentata in letteratura che vi ho sempre raccomandato di studiare. Certamente qui la situazione è aggravata dal fatto che nella prima diagnosi (che forse fa intuire che è una diagnosi un po' di comodo) "reazione depressiva" era associata a una terapia neurolettica, quindi vuol dire che lo psichiatra già intuiva o comunque pensava di trovarsi di fronte a una condizione psicotica. Il problema è che non c'è stata una serie di passi terapeutici e diagnostici coerenti con questa prima impressione e credo che lei abbia ragione a dire che è un po' come se l'onnipotenza della paziente; e poi (una cosa che è stata tolta nella relazione e che forse valeva la pena di dire) la complicazione della famiglia e del padre in particolare con i suoi intrecci burocratico-amministrativi aveva creato questa sorta di soggezione nel team curante per cui in pratica, è vero, questa paziente onnipotentemente determina gli altri spaventandoli soprattutto con questa pesante minaccia di suicidio addirittura incendiandosi che è una modalità suicidiaria molto grave, molto impressionante. E penso che questo è un destino molto comune a decine e decine di casi che abbiamo visto anche presentati da voi. Per esempio il caso presentato da lui, qualora lui l'avesse lasciato come pensava di fare, fra 10 anni forse sarebbe stato un caso simile, speriamo che l'abbia ripreso.

RIVOLTA:

Per quanto riguarda la scelta della terapia, io non ho fatto nient'altro che rilevare quello che ho letto sulle cartelle cliniche, allora non lavoravo dove sto lavorando adesso. Però volevo fare una considerazione più generale. Io credo che sicuramente i farmaci sono molto importanti, ma di fronte a un caso del genere ritengo che� anche dare del Serenase o non darlo, pensare di dare o di non dare farmaci non è che cambia molto. Occorrerebbe pensare al caso e alla sua storia in una prospettiva complessa dove sono importanti sia la farmacologia, ma soprattutto la psicoterapia, l'intervento sul gruppo familiare e, rispondo poi anche alla seconda domanda, io sono profondamente convinto che casi del genere è assurdo che possano restare a lungo in un reparto psichiatrico. Lo diceva già Arieti in un suo libro anni fa, libro (Manuale di Psichiatria) che adesso è dimenticato, ma secondo me è molto più interessante leggere che cos'è la sindrome borderline sull'Arieti che sul DSM-IV, lo diceva già lui: che in reparto è meglio non mandarle queste persone perché la psichiatria non può essere ridotta a una semplice degenza che non solo non risolve i problemi, ma in molti casi li annulla, non ce li fa capire perché questa persona aveva bisogno di ben altro che ridurre, come diceva il Dr Vigano, i sintomi compulsivi. "Altre cose" che sicuramente non puoi dargliele sopprimendo il sintomo con il farmaco che sì, ha uno scopo sociale sicuramente, però credo che l'intervento debba avvenire su piani diversi. Questo non vuol dire non dare farmaci, ma inserirli in un intervento molto più complesso. Può essere difficile all'inizio agire in termini più elaborati perchè non si conosce il paziente. La diagnosi stessa non è proprio così facile: Il DSM IV ci impone una diagnosi descrittiva come una macchina forografica, invece la diagnosi in psichiatria è diacronica, può variare nel tempo, non possiamo usare metodiche diagnostiche come avviene in altre branche della medicina. La mia risposta è che questa paziente, secondo me, non deve stare in reparto.

VIGANÒ:

Allora dato che ci sono alcuni che chiedono� "deve restare fuori dal reparto" dobbiamo dire come si fa, qual è la forza che la può tenere fuori, perché nessuno l'ha spinta dentro al reparto questa paziente; semplicemente non si sono trovati i modi per creare, lei diceva, un setting terapeutico differente. Quindi spero che adesso gli interventi che si preannunciano parlino un po' di questo.

(uno specializzando, Dr Audisio):

Io mi chiamo Audisio, sono uno specializzando anch'io in psichiatria. Mi colpiva durante la lettura del caso quando a un certo punto si dice che la paziente "non ha potuto continuare le relazioni terapeutiche", si è sempre posta in una posizione di impossibilità a continuare una relazione; infatti mentre lei parlava e leggeva questa cosa non riuscivo a capire chi la curava. Io ho portato un caso un po' di tempo fa e mi hanno fatto notare che sembrava che tutti facessero qualche cosa, in realtà facevano solo rumore e mi chiedevo, volevo sapere da lei se c'è stato un referente, se ci sono stati dei referenti, proprio in quest'ottica nel senso di privilegiare comunque una relazione.

(Dr Castaldi):

Sono Giovanni Castaldi. Io volevo solo chiederti questo: qual è il progetto terapeutico rispetto a questa paziente perché la costruzione che ha fatto Vigano a livello psicodinamico è molto precisa: noi abbiamo un bel pacchetto confezionato però non si evince assolutamente qual è il progetto. L'unica cosa certa in questi 10 anni è che questa paziente ha trovato un luogo che è l'SPDC, la psichiatria vuole mandarla via e lei ha trovato un luogo in cui, in qualche modo, ha trovato una certa stabilità. Se puoi dire qualcosa rispetto proprio alla prospettiva terapeutica e se effettivamente questa paziente in qualche modo è in cura con l'intera équipe, con questa collettività molto evanescente oppure se c'è qualcuno che si prende una responsabilità riguardo a questo caso e funzioni in qualche modo come referente con tutta anche la negatività transferale di questo prendersi in carico la paziente a livello dell'individualità.

(Dr Cozzi):

Io volevo intervenire su un punto: il fatto di avergli dato il Serenase, si poteva anche non darglielo, non sarebbe cambiato niente. Forse sì, posso anche condividerla dal punto di vista del paziente, però dal punto di vista di chi l'ha prescritto qualcosa cambiava, perché il fatto di dare quel farmaco invece che dare solo gli antidepressivi probabilmente c'era un'intuizione della gravità della situazione o comunque di una diagnosi differente rispetto a quella con cui veniva dimessa. Credo che questo aspetto sia stato poco ripreso tant'è che poi la diagnosi successiva "borderline" diventa un po' un modo di sottrarsi alla diagnosi. È vero che il DSM IV ci chiede di fare la diagnosi in termini descrittivi, però è anche vero che tutto sommato può essere un primo passo rispetto spesso, almeno a quel che vedo io, ad una sorta di assenza di diagnosi per cui mi sembra a volte che anche far la diagnosi di "borderline" sia come un modo per sottrarsi. E� Credo che in gran parte il tutto sia partito da lì, del destino di questa paziente perché mi sembra che quella prescrizione del serenase sia stata fatta più per contenerla socialmente. Allora è andato tutto nella direzione del contenimento. Vede� lei prima diceva: si poteva fare un intervento con la famiglia, si poteva fare questo, si poteva fare quello� è vero.. se facciamo una diagnosi di psicosi dobbiamo rivolgerci verso "l'altro sociale", però questa paziente il primo "altro sociale" che ha incontrato è stata l'équipe curante, tutto sommato, nel momento della crisi. Allora l'aver ridotto all'impotenza l'équipe che la curava ha portato poi ad impedire altri interventi possibili perché anche lì, lei parlava della famiglia, però di fatto questa famiglia un po' se la prende, un po' non se la prende, non si capisce bene com'è collocata ma perché davvero, a mio parere, la prima collocazione che è mancata è quella del "primo altro" che se l'era presa in cura, che era quella dell'équipe curante. E credo che un problema che è un po' diffuso in tutti gli ambiti istituzionali, soprattutto quando c'è una degenza a tempo pieno. Anche perché� giustamente, rifiuta di andare in una comunità, cioè che cosa cambierebbe per lei tra l'andare in una comunità e rimanere lì? Perché in una comunità? Allora rimane lì. Oppure, anche la proposta di andare in un CRT tutto sommato si inserisce sempre in una sorta di separazione quasi che il muro che è stato elevato per contenerla socialmente venga mantenuto. Allora� torno alla diagnosi iniziale: secondo me, quell'intervento volto al contenimento ha marcato proprio col segno della paura rispetto al paziente tutto quello che è stato il percorso successivo. Il singolare è che, nonostante i mutamenti che credo siano intervenuti nella composizione dell'équipe, perché in tutte le strutture pubbliche c'è un po' un via vai sia di psichiatri che di infermieri e tutto� questa paura si sia mantenuta. Ecco, quasi che, quel punto, non fosse più stato più possibile riprenderlo.

(uno specializzando, Dr Cerveri):

Io sono Cerveri, sono uno specializzando. Volevo fare due brevissime domande. La prima a proposito di quello che ha detto la mia collega, la dottoressa Cusin. L'impressione che ho avuto io dalla terapia, al di là se servisse o meno il serenase, che non ci fosse un'ipotesi dietro, cioè a un certo punto� non so se ho capito male io o se era espressa così, ma mi sembrava che a un certo punto ci fosse in terapia il Disipal senza nessun neurolettico� Però mi sembrava alla fine che non ci fosse un'ipotesi su che cosa fare con questi farmaci, ma che fossero dati in qualche modo così� a tentativi. E il secondo aspetto che mi ha colpito molto è il concetto del suicidio. In fondo la paziente mi sembra che sia rimasta un anno intero o più in reparto perché terrorizzava tutti con l'idea del suicidio. Spessissimo ho sentito parlare male degli oncologi perché trattano male il tema della morte. Noi psichiatri dovremmo in qualche modo, prima di parlare male così degli oncologi, dovremmo sapere noi che cos'è la morte cioè imparare a convivere con questa idea della morte, quindi non farci magari bloccare. A un certo punto quello che ho pensato: la paziente tenta di darsi fuoco, le si tolgono gli accendini� e poi cosa si fa? Le si legano le mani? E poi la si congela? La si tiene in reparto per sempre in modo da evitare che lei si uccida? Forse dobbiamo pensare all'ipotesi che il suicidio possa diventare un evento possibile, non possiamo fare niente� che quindi dobbiamo accettare l'ipotesi della morte di questa paziente. È un po' provocatorio, però mi sembra importante.

VIGANÒ:

Non siamo in un luogo di spettacolo, ma io applaudirei a quest'ultima cosa che ha detto il collega� è veramente fondamentale dal punto di vista dell'etica e della clinica perché è alla base� e, già che ho la parola, sottolineo solo una questione rispetto alla terapia� lei giustamente ci ha dato una chiave etica, lei parlava di setting terapeutico. La terapia non è tanto solo "serenase sì serenase no", ci sono anche i nuovi neurolettici, magari andavano anche meglio. Il problema è come sono stati usati, cioè quello che diceva Cozzi. Fin che la paziente era lì, bisognava contenerla. Uscita dal reparto, lei per tre anni il serenase non sapeva neanche che esistesse� cioè non si è instaurato nessun tipo di transfert su questa terapia. È stata una terapia addirittura che non si è nemmeno tentato di fare in modo tale che la paziente la assumesse transferalmente perché quel buonismo che porta a fare una diagnosi non psicotica e poi gli si dà il serenasse da continuare a casa, è assolutamente destinata strutturalmente a non essere eseguita. Da quando in qua io ti dico "tu non sei malato, però continua a fare questa cura precauzionalmente"? Quello torna a casa, tutti sanno che non è malato nel senso della psicosi, cioè di quella cosa che spaventa, che bisogna curare anche da parte dei parenti etc� È un doppio messaggio questa diagnosi con questa terapia. Su questo punto non si è costruito un transfert positivo durante il ricovero né da parte della paziente né da parte dei familiari. Quindi sono d'accordo che lì c'è un po' in nuce il destino della terapia futura e� progetti, referenti etc� poi sono da vedersi come applicazioni di questo atteggiamento criticabile (e per questo mi sono inserito) secondo me innanzitutto da un punto di vista etico. Un'équipe, un referente, un clinico che fa una dimissione di questo genere fa un atto� "quasi delinquenziale", diciamo così, perché se ne misuriamo poi le conseguenze a distanza, non fa un atto di pietà umana verso il soggetto per non spaventarlo� e ancora qui il riferimento all'oncologia viene bene: come dimettere uno che ha un tumore dicendo: "ah, ha una febbriciattola� però prendi gli antiblastici, ma comunque non è niente di grave" cioè� chi facesse una roba del genere, va in galera� perché non fa la diagnosi corretta, perché impedisce al soggetto di curarsi di una malattia grave, solo che con la psicosi non va in galera nessuno, perché sono meno facili le prove "oggettive" del comportamento clinico "inadeguato". Questo buonismo è un modo di riprendere in una maniera secondo me scorretta l'antipsichiatria, l'opera di Basaglia etc, etc� Basaglia non diceva mica di fare queste robe qua! Di dire agli ammalati che non hanno niente, torna a casa con questa poi vaga indicazione di neurolettico! Diceva che bisognava costruire un tessuto transferale e sociale per seguire questa persona anche con lo psicofarmaco� Mi sono inserito su questo particolare� però do' la parola a Rivolta che ha delle altre cose da dire.

RIVOLTA:

Volevo semplicemente dire che non è l'unico caso di una nuova patologia psichiatrica. Io credo che ci troviamo di fronte a una situazione che la psichiatria tradizionale non ha ancora ben compreso, capito e anche dato delle indicazioni in termini farmacologici e anche progettuali. Penso che ci troviamo di fronte al "vuoto". Più che alla produttività sintomatologica, a vissuti autistici, nuovi mondi, stranezze particolari, ci troviamo di fronte al "vuoto"� e i sintomi sono delle armi di ricatto che la paziente mette in atto� Quando io le parlavo, l'ho rassicurata dicendole, proprio in uno degli ultimi colloqui, che non avevo l'intenzione di mandarla al CRT, di interferire su quello che lei stava facendo cioè la sua attività principale, quella di restare in reparto� e lei è uscita dicendo: "Sì, sì� perché lei mi dice questo, io mi suicido". Io capisco che è difficile che se uno non ha mai lavorato in un reparto conosca certe cose, ma quando sei a lavorare in un reparto di psichiatria le cose più importanti sono di tipo legale più che il paziente. Se la paziente esprime desideri suicidiari, anche se questa espressione può anche non essere seguita da un agito, comunque non si può far finta di niente, occorre mettere in atto i meccanismi protettivi possibili. 
Per quanto riguarda il progetto, in effetti "un progetto" non esiste perché "il progetto" lo fa lei. Allora mi domando come si può uscire da questo circolo vizioso? A quale altro tipo di progetto pensare, sicuramente non è certamente il reparto, probabilmente, secondo me, lo è una struttura residenziale, stando così le cose come sono organizzate.

VIGANÒ:

Non è "quale altro progetto?" è "quale legame del paziente con un progetto, qualunque?". Le domande riguardavano la forza attrattiva e la capacità di formulare i progetti, non che questo non andava bene e se ne dovesse fare un altro.

RIVOLTA:

Che cosa vuol dire però "Progetto?" Vuol dire "cambiamento?", vuol dire "prospettare autonomia, lavoro?" La paziente è già seguita da un operatore, lei una volta alla settimana va a parlare con un medico. L'operatore che la sta seguendo ha proposto l'inserimento comunitario vista l'impossibilità di creare qualsiasi aspetto relazione.

VIGANÒ:

È questa impossibilità di creare qualsiasi relazione che noi stiamo mettendo in discussione, che non vogliamo dare per scontata perché il transfert non è risolto dal fatto che le dici: "venga una volta alla settimana" e lei non viene. Il transfert si instaura se si dà una risposta adeguata quando lei dice: "Sono divisa in due": questi due devono trovare una risposta che a lei dia soddisfazione. Se il medico fa finta di niente e fa una diagnosi di reazione depressiva, la reazione si è esaurita e la manda a casa con il serenase, il transfert non si stabilisce perché lei non è "motivata" ad andare agli appuntamenti settimanali che pure le sono stati così prescritti. Però metterei un attimo in sospeso adesso questa questione del progetto e del transfert perché c'erano quegli interventi sull'aspetto medico-legale della minaccia di suicidio che mi interessa sentire.

(uno specializzando):

Registrazione non udibile.

(una specializzanda):

Io sono assolutamente con la mia collega. Prima di tutto un tantino offesa: "per chi non sta in reparto è difficile capire l'ideazione suicidarla", allora� la maggior parte di noi fa guardie, pronto soccorso, notti, reparto e ambulatorio etc etc� a dosaggi abbastanza congrui... per cui il problema è che io non posso sinceramente ricoverare tutti quelli che mi dicono "ho un'ideazione suicidarla, mi taglio le vene, mi butto" perché molto spesso è proprio "funzionale" la minaccia di suicidio; questo� un punto. Un'altra cosa è che sicuramente è dimostrato che un intervento farmacologico ha un certo tipo di effetto fosse anche uno sintomatico, d'accordo� gli faccio passare il sintomo, gli dò la possibilità di fare qualcos'altro, cioè di provare a vedere un livello diverso. Due: gli imposto una terpia o gli impongo una terapia, se la paziente rifiuta in qualche modo la terapia vuol dire che lei ha la necessità del sintomo, ma questo è tutto un altro discorso, cioè non lo subisce più, ma lo sfrutta per ottenere un vantaggio, quindi questo mi cambia completamente la prospettiva. Sono due approcci diversi che però passano attraverso un intervento farmacologico sensato, mirato, a dosaggio pieno, con un certa ipotesi in testa cioè� ho l'ipotesi che sia psicotica, le dò un neurolettico a dosaggio serio, in tempo congruo e vedo la differenza� ho l'ipotesi che sia ossessiva, antidepressivo adeguato ad alto dosaggio, eventualmente in vena, però con una certa previsione� in questo senso il progetto terapeutico va fatto, cioè io pigio un pulsante e mi aspetto un risultato. Se il risultato è diverso, ho sbagliato ipotesi� però se non c'è questo� almeno ha me hanno insegnato che prima si fa l'ipotesi e poi si verifica, se non funziona così non faccio più il medico.

(Dr.ssa Giovanna Di Giovanni):

(iniziale registrazione non udibile)� molto interessante fatta dal Dr Vigano, è venuta fuori dal caso, si è passati al problema degli psichiatri e dell'équipe psichiatrica� spostato dalla paziente, il problema, adesso, è stato detto, e credo che sia vero, è degli psichiatri, della psichiatria, di dove va la salute mentale� tanto è vero che la paziente ha trovato una sua stabilizzazione. Si dà il caso che quella non vada bene agli psichiatri, al nostro sistema di salute mentale. Quindi c'è una sorta di "gap" fra queste due cose. A me ha colpito anche un'altra questione: chiamare "ricatto" quello che dice la paziente. Mi stupisce un po' perché, certo, un aspetto di ricatto ci può essere sempre nelle affermazioni non solo dei pazienti, ma di tutti gli esseri umani, però evidentemente la paziente ha trovato lì la sua stabilizzazione se in un altro modo minaccia o vuole tentare il suicidio e arrivo qui al punto che mi ha molto colpito: la questione della morte. La questione della morte non è facile ed è accuratamente evitata da tutti i medici, tanto più dagli psichiatri, forse è una delle motivazioni fondamentali per cui si fa il medico, dicono. In ogni caso a me nella psichiatria ha sempre colpito il fatto che si parla molto del suicidio e della morte fisica, ma si minimizza anche noi il fatto che, in fondo, la psicosi non è una gran vita e una sorta di morte, a mio parere, esiste nella psicosi. Che poi vogliamo convincerci che si può vivere benissimo nelle strutture residenziali o fuori, può essere condiviso oppure no. Personalmente non lo condivido. E personalmente credo che sia molto difficile trovare una vita vivibile per tutti i diversi, ma a cominciare dagli psicotici. E qui arrivo al punto. Si è parlato di équipe psichiatrica. Io credo che una solitudine come quella implicata dall'idea della morte, che sia la morte fisica o la morte psichica, da soli non si possa gestire. Capisco benissimo che si faccia una diagnosi di disturbo ossessivo e si dia l'Haldol o, di nascosto, qualsiasi altra cosa perché da soli non si regge. Non lo si regge neanche nell'infanzia quando si vedono i bambini psicotici perché ci sono e non si sa come dirlo, e come farlo accettare ai genitori. Allora io credo che questa solitudine della morte, da accettarsi sul medico, implichi che vada condivisa. A me ha colpito che si è parlato di équipe, ma in verità io non ho avuto la minima idea dell'équipe al di là dei cambiamenti, giusti, necessari e burocratici, ma un'équipe qualsiasi, fatta da due persone che condividano questa paura, questa costruzione per esempio, per arrivare, e qui finisco, alla famosa maledizione. Maledizione di cui la paziente stessa indica il padre come unico possibile punto di intervento, anzi agente di intervento, come ha detto giustamente Viganò. Benissimo, il padre sarà una persona potente, il padre non si potrà toccare, ma chi si è posto il problema? Doveva porselo solo il medico che faceva diagnosi di nascosto di psicosi e apparentemente di ossessività oppure l'ha divisa con qualcuno? Ci sono questioni insomma che non si possono affrontare da soli, è questo che voglio dire. Allora, o si accetta questo e ci si accorge umilmente che la cosa più difficile della psichiatria è la condivisione delle questioni di fondo oppure alla fin fine fare una diagnosi o un'altra, sì, si potrà anche sbagliare e farne di nascosto, ma non è lì il nocciolo della difficoltà, io credo, è nella condivisione di queste questioni di fondo che vanno giustamente dalla questione della morte psichica prima che fisica, e di che cosa farne nella vita di questi aspetti di morte e come mai non si sia potuto condividerli a nessun livello in questo caso, secondo me. Tant'è vero che anche tu hai parlato da solo, ora, mi sembra, se non ho capito male.

(uno specializzando):

Registrazione udibile in modo frammentario.

�a me interessava ancora l'aspetto medico-legale che ha sollevato nella sua replica�Qui, a un piano di distanza, abbiamo avuto una paziente che per otto mesi è rimasta ricoverata nella stessa identica situazione� io credo che, da un parte, in pronto soccorso si va incontro a un'omissione di soccorso se si lascia andar via un paziente che minaccia il suicidio. Con una persona invece che è rimasta ricoverata per lungo tempo in reparto, se si propone un progetto valido che vuol dire una comunità, che vuol dire andare a fare delle visite domiciliari con una certa regolarità� Poi ad un certo punto dobbiamo confrontarci con i nostri limiti, nostri e delle strutture, nel senso che non possiamo accudirla in modo totale perché abbiamo paura che si suicidi.. mi sembra che alla fine siamo noi paralizzati, ma anche lei�

FRENI:

A me pare che si stiano sollevando dei problemi molto complessi che aggravano un po' la gravità del caso. In realtà casi come questi ne abbiamo visti tantissimi, esistono in tutti i servizi, diventano emblematici di uno scacco dell'équipe e hanno dei risvolti molto complessi dove poi il fantasma medico-legale diventa paralizzante per tutti, perché esiste, è una realtà, è grave, cioè la psichiatria è chiamata istituzionalmente ad agire più per scopi di contenimento e di difesa. Stiamo bene attenti: ancora, malgrado la legge 180, il ruolo della psichiatria sostanzialmente è quello di contenere e proteggere la società dalla pazzia, non dimentichiamolo. Quindi, finchè non ci sarà un'evoluzione nella mentalità, nella società, nella legislazione, abbiamo avuto un esempio qualche mese fa quando è venuto il pubblico ministero a dirci che "tu, medico, nell'esercizio della tua funzione pubblica, allorché vieni a sapere di un soggetto che ha subito un trauma sessuale, sei obbligato a denunciare� quando noi sappiamo che nei disturbi dissociativi, nei disturbi borderline, l'eziologia traumatica da abuso sessuale è altamente incidente� e allora qui si crea veramente un'incongruenza grave: come fai tu ad andare a denunciare il paziente che in una situazione di fiducia ti viene a dire queste cose? Quindi siamo nella follia della società questa volta. Premesso questo, la metafora della morte in oncologia, in psichiatria, è molto efficace e fa sempre impressione, però noi ci occupiamo di morti psichiche. È il suicidio la morte della psichiatria. Però confinare il suicidio soltanto nell'ambito della psichiatria secondo me è riduttivo perché è una problematica più antropologica. In questo senso è vero che il paziente che minaccia il suicidio crea una situazione grave, di forte impasse in un gruppo perché scatena appunto la preoccupazione, la responsabilità e credo che le risposte, spesso anche delinquenziali che si mettono in atto hanno lo scopo di difendersi da questo. Si crea veramenteuna situazione collusiva grave che ha lo scopo di difendersi da una condizione ritenuta ad alto rischio espositivo. Se io dimetto un paziente che poi si suicida sul serio e incappo in un padre paranoico come questo, anche se qui non esce fuori la figura del padre, questo può dare il via ad un'azione giudiziaria anche con successo, mettendo veramente in grossi guai un'intera équipe, poi magari una o due persone a cui viene rovinata la vita. Quindi esistono queste preoccupazioni. Io personalmente non me la sento di rimproverare quei colleghi che a scopo cautelativo, come spesso è successo anche quassù, finiscono col tenere i pazienti anche tre anni, in un'epoca in cui si dice che dopo una settimana, quindici giorni al massimo, bisogna cacciarli via. Ecco, quindi sono questioni molto complesse che toccano anche la concezione sociale e giuridica della malattia, toccano la questione della responsabilità, rispetto a cui l'etica è un fatto dell'individuo, a mio avviso. Noi qui stiamo ipotizzando un terapeuta eroico che sfida e, dall'alto della sua concezione tragica dell'etica, dice: "dimettiamo.. facciamo� ma è solo nella misura in cui ha deciso di mettersi� e noi stessi abbiamo cercato un po' di invitarlo a rintuzzare i suoi "comizi politici antipsichiatrici", ma anche oggi gli è scappata, insomma, perché? Perché uno ha la sensazione che gli altri non capiscono niente, che gli altri sono dei codardi, che gli altri non si assumono le responsabilità.. beh, è successo anche a me un centinaio di volte. Il problema è: come si fa a condividere in un gruppo la responsabilità? Un gruppo che dice: bene, allora noi siamo d'accordo che ci assumiamo il rischio che questa si suicidi e diamo luogo a questo programma terapeutico, e lo sosteniamo fino in fondo, uniti e compatti anche di fronte al giudice. Ma dove stanno queste persone così? Ecco� la parola al relatore.

RIVOLTA:

Innanzitutto mi fa piacere che è venuto fuori un dibattito abbastanza vivace e argomentato. Sicuramente il caso non è un caso semplice. In fondo mi sono un attimino "tirato la zappa sopra i piedi" presentando un caso difficile. Altri casi invece sono più lineari, più facili, più abbordabili sia dal punto di vista farmacologico che della degenza ospedaliera. Però ho scelto di proposito questa caso perché ritengo che le strutture psichiatriche attuali dovrebbero tener conto che sono in aumento casi del genere che si presentano più che come una struttura di malattia, come disturbi di personalità o comunque con sintomatologie che possiamo ritrovare in qualsiasi disturbo psichiatrico, come è descritto nel DSM IV. Per quanto riguarda i farmaci non è che io ho potuto star qui a scrivere tutto. La prima volta che ho presentato il caso, nella riunione preliminare, erano un paio di pagine in più, le ho ridotte, avevo dettagliato anche in modo un po' più approfondito sia la scelta dei farmaci che prende tuttora sia il dosaggio dei farmaci. Io però rimango convinto che tenere in reparto persone così non è terapeutico, per me van benissimo i farmaci, ma dati nell'ambiente giusto. Un farmaco agisce anche i relazione a quello che è la circostanza ambientale in cui vive il soggetto, qualsiasi farmaco, tanto più gli psicofarmaci. A mio parere occorre cambiare la struttura ospedaliera con una struttura riabilitativa. Attualmente sono obbligato a somministrare il farmaco perché lei produce ogni tanto dei sintomi, chiede lei stessa i farmaci. Quando rientrava dalla visita al CRT , chiedeva una fiala di En perchè evidentemente poi non è così in equilibrio neppure lei, a volte anche lei va in crisi. Forse ho detto delle cose che possono anche essere fonte di discussione� giustamente� però concludo dicendo che questa persona ha bisogno di andare in una struttura che ha tempi, modalità e soprattutto dà la possibilità di vivere lo spazio fisico e il rapporto con gli altri in modo diverso da quello che è il reparto.

FRENI:

Chiedo scusa se approfitto ancora, su questa specifica questione del farmaco io mi ricordo che c'era una stranezza, per cui quando la paziente era ricoverata nell'SPDC riceveva una farmacoterapia non particolarmente contenitiva, quando venne mandata per un certo periodo al CRT ricevette l'Haldol decanoato�

RIVOLTA:

No, non è mai stata al CRT

FRENI:

Però, la cosa che vale sempre, che ci fa tornare al discorso del progetto terapeutico, che�" farmaco sì, farmaco no", di nuovo si pone la questione della diagnosi, si pone la questione dell'obbiettivo per cui decido di dare un farmaco piuttosto che un altro e così via� e quindi decidere dentro o fuori, senza un preciso progetto a mio avviso non è che cambia moltissimo.

(uno specializzando):

Registrazione non udibile.

Ricordo comunque che l'intervento era piuttosto polemico nei confronti degli psichiatri che non possiedono un linguaggio comune, condiviso, e che non sanno poi utilizzare al meglio gli psicofarmaci.

FRENI:

Ma, caro giovane collega, io ti voglio ricordare che tu stai parlando male di psichiatri che danno i farmaci che tu e molti di noi qui stiamo ritenendo impropria stamattina e quindi, "dove va la salute mentale" ripropone il problema delle performances, della preparazione degli operatori, della loro formazione, della loro capacità tecnica, operativa, la loro capacità di capire i discorsi dei pazienti. Torniamo sempre lì. E questo è giusto o non è giusto? È giusto che si faccia una scuola di specializzazione perché si spera che voi, futuri psichiatri, sarete più bravi di quelli delle generazioni precedenti, però dobbiamo abituarci, quando facciamo questi interventi, a farli in una maniera molto precisa e oggettiva, come ha cercato di fare la Cusin e altri. Quindi, come non hanno fatto i colleghi della volta scorsa, che dovevano portare la letteratura, e non l'ho vista ancora, e la voglio vedere�! Allora sì che possiamo fare un discorso creativo, e non ideologico o politico. Certo, questa paziente ha una sofferenza, ma non è venuto fuori di che sofferenza noi stiamo parlando: se è una grave psicosi, se è una borderline, se è addirittura una ossessivo-compulsiva, ma mi sembra poco probabile�

(intervento dalla sala):

Registrazione non udibile

Ricordo che la domanda poneva il problema di chi è il responsabile del progetto terapeutico e quale terapia farmacologia è somministrata attualmente.

RIVOLTA:

No, non sono direttamente responsabile. Comunque adesso sta assumendo un antidepressivo (Venlafaxina), bassi dosaggi di neurolettico (Entumin) e benzodiazepine...

VIGANÒ:

Ci tengo che questo dibattito rimanga sempre centrato sulla costruzione, e quindi su ciò che è avvenuto nella storia e non debba diventare una supervisione e quindi una riunione di équipe di indirizzo, perché non sarebbe il luogo di farlo qui, poi farlo una volta sola su un caso non sarebbe corretto, bisognerebbe poterci ritornare sopra, però è stata interessante anche questa intervista.

La prossima volta io inviterei quello che Freni ha chiamato "giovane collega" se vuol fare un intervento costruito di 5 minuti, come gli altri, su questa questione del linguaggio comune, sarebbe gradito, grazie.

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