Le supervisioni di Carlo Viganò: Incontro del 23.4.98

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10 ottobre, 2012 - 16:08

La storia di R.F.

Dott.ssa Pozzi:

Ho incontrato la signora R.F. in un momento della sua vita in cui si era rotto, con la morte della madre, líanello più prossimo a lei della catena vitale cui era legata e che andava evidentemente immediatamente sostituito con un altro legame e uníaltra dipendenza. Ci siamo viste per un primo contatto su invio dello psichiatra del CPS nel Marzo 1993 e da allora abbiamo cominciato a vederci con la regolarità settimanale, continua tuttora, che si inserisce in una scansione di vita annuale, strettamente regolamentata dallíistituzione scolastica, da cui la signora dipende professionalmente.

(Febbraio 1993) R.F. è una donna di 38 anni, un viso regolare, degli occhi chiari, sovrappeso díuna quindicina di chili. Eí insegnante elementare. Sposata da 12 anni a un autista dellíATM, hanno una figlia di 11anni. Ha sospeso il lavoro per líanno scolastico in corso e chiede "Una visita al CPS (sto riferendo il testo della prima visita) "spontaneamente per un aiuto psicologico per sé. Dopo la morte per tumore della madre 79enne, avvenuta un mese fa, si vede sola ad affrontare le difficoltà della vita." Traggo ancora dal diario di questa prima visita, effettuata da una psichiatra non organica al CPS, una supplenza. Racconta una "storia personale di un rapporto esclusivo privilegiato con la madre, con caratteristiche di simbiosi. Ha una sorella di otto anni maggiore e un padre vivente di 72. Il marito non sembra essere di alcun appoggio, in quanto risponde alle difficoltà a sua volta abusando dellíalcool .Per tale situazione è seguito in terapia da un neurologo presso líospedale Mondino di Pavia con Anafranil, da cui anche la paziente è seguita con Xanax 0,5, 3 compresse al giorno. Viene inviata, anche su richiesta della paziente stessa, alla psicologa."

       

 

 

Al momento dei primi contatti con me, il racconto turbinosoÖ

Smeraldi: Ma è stata mandata a te come psicologa con quale indicazione ? | Per una valutazione con possibilità di essere inserita in una psicoterapia. | Líobiettivo qual è ? Il motivo qual è ? | Un approfondimento probabilmente, prima diagnostico, anche... |Diagnostico di personalità ? Nel senso : diagnostico di Asse I, in linguaggio clinico o di Asse II ? Qual è il motivo per cui è stata inviata dallo psicologo ? | Io penso che líinvio potesse essere quello di un approfondimento e di uno spazio per la paziente stessa, allíinterno di un discorso ambulatoriale molto pressato e molto intenso di... |

Viganò: Si può dire che, conoscendo un poí la prassi del CPS, líinvio fosse finalizzato a verificare tout court la possibilità di una psicoterapia e che quindi dobbiamo attribuire il momento diagnostico a questo contatto con lo psichiatra. Normalmente se nellíiter del CPS, di un servizio psichiatrico, lo psichiatra che fa le prime visite manda allo psicologo, già sono indicazioni terapeutiche...oppure cíera una domanda dello psichiatra allo psicologo : approfondisci la diagnosi ? | Io credo che più che questo, sia stata data questa risposta dallo psichiatra per andare incontro alla richiesta della paziente. Mi sembra che forse questo è líelemento più significativo di questo invio. La paziente chiedeva un aiuto psicologico, fin dalla prima volta. |

Viganò: Comunque teniamo presente questo passaggio, che è problematico. Io ribadisco, per líesperienza che ho del servizio, ritengo che lo psichiatra abbia ritenuto di aver fatto una diagnosi e un invio per una terapia. Vediamo in questa contrazione temporale addirittura richiesta dal paziente, quindi, " uní autodiagnosi " della paziente, quanto effettivamente sia stato contratto questo primo momento. Lo verificheremo anche nel dibattito. |

Pozzi: ... (riprende da turbinoso) con caratteristiche anche logorroiche riguardo alla morte della madre, che viene ripercorsa momento per momento, con un atteggiamento di stupore più che di dolore, quasi díincredulità e il problema alcolico del marito che non viene più assolutamente tollerato, non tanto nelle sue manifestazioni, per altro abbastanza rare e sporadiche, quanto proprio nel fatto di esistere come condizione patologica, debolezza e limite del marito. Cíè il racconto di scontri anche fisici tra di loro, chiamate in causa del medico di base, del sacerdote a dirimere litigi, come se descrivesse la situazione di due bambini arrabbiati e confusi, che si rivolgono allíadulto per sapere chi ha ragione. La presa in carico del Mondino dei coniugi si rivela un contatto sporadico e non significativo, cui viene preferito il CPS di zona. NellíAprile il marito, su spinta della signora, accetta di consultare uno psichiatra del CPS, un altro naturalmente, il quale constata una situazione di svuotamento di energie. Cíè ansia, isolamento sociale. Eí sopraffatto dal doppio lavoro necessario ad affrontare le spese ingenti del mutuo della casa. Lamenta le indisponibilità sessuali della moglie e accetta con fatica e rassegnazione anche le incombenze domestiche che ricadono su di lui, in quanto la moglie vuole insegnare... Ma il contatto terapeutico si interrompe quasi subito pur avendo come risultato positivo líinvio a un centro specializzato per líalcolismo. Il marito, mi riferisce la signora, non si è trovato col medico. La signora porta nei nostri incontri anche la protesta di essere stata molto sgridata dallo psichiatra e richiamata ai suoi doveri di accudimento. Líeffetto della consultazione sembra essere comunque anche quello di riavvicinare i coniugi in una specie di pasticciata seconda luna di miele, in cui tentano, con alterna fortuna, di riavere qualche contatto, qualche rapporto sessuale. Líeccitazione di questi momenti e il racconto che se ne fa potrebbe essere definito di tipo ipomaniacale. Nello stesso periodo la signora ritorna dalla psichiatra, da cui era stata vista in prima visita, per un controllo farmacologico ... "Disforica chiede un ricostituente e un antidepressivo con attese miracolistiche. Non ritenendo opportuno assecondare tali richieste di dipendenza si aumenta Xanax a due compresse al dì." Qui aggiungo che una terza ed ultima di questa serie (visita psichiatrica con la stessa psichiatra), nellíottobre í93, la segnala più mobile e critica. Riferisce "Deflessione timica. Si riprende terapia Xanax 2 compresse e Lexotan 20 mg."



 

 

Gli incontri settimanali con me, nel frattempo, si snodano e sembrano trovare una sistemazione più tranquilla e narrativa. Eí possibile così la continua ripresa sia di un racconto di sé e della famiglia nel tempo, dallíinfanzia al matrimonio allíattualità, sia la comparsa di un tema che diventerà sempre più centrale in psicoterapia : la presentazione della propria casa coniugale, che viene descritta come caotica, sporca, piena zeppa di oggetti, acquistati compulsivamente sembrerebbe, sulla base di una loro gradevolezza, alla quale non si può resistere e che non trovano poi il loro posto in casa. E dai quali oggetti, comunque, non ci si può più separare. Una casa invivibile come luogo di identità e di coesione famigliare, solo una specie di cuccia per dormire, quasi sempre in tre nello stesso letto, o cucina, tuttíal più laboratorio di cucina, dove preparare manicaretti acrobaticamente elaborati nella confusione di stoviglie non lavate da giorni.

Una casa sintomo così presentata, la cui descrizione ed aggiungerei persistenza e radicamento nella vita della paziente ha ancora oggi, in un certo senso, il potere di evocare in me una specie di allarme diagnostico e controtransferale, che addirittura certe volte può andare in senso psicotico. Che la paziente, invece, pur vergognandosene e constatandone la bruttezza e la scomodità, presentava, soprattutto nei primi anni, quasi come un trionfo personale su doveri rifiutati e come baluardo difensivo rispetto al pericolo di diventare simile alla sorella : una povera donna svuotata e sfruttata da tutti, certo anche da lei, senza più desideri e condannata alla galera con ordine, morte e fine a sé stesso.

Il cucinare è líunica attività fortemente investita, fin dallíinfanzia, lì cíè estro, creatività, soddisfazione di risultati apprezzati dagli altri. Qualsiasi altra funzione casalinga è aborrita come ripetitiva o umiliante. Lei è fatta per occuparsi di cose belle : della cultura, dellíarte, della musica, per uscire la domenica in bicicletta al parco con la sua bambina, non per trascorrerla a casa, a lavare pavimenti e mutande, che il giorno dopo si riaccumuleranno di nuovo. Questo distacco e disinvestimento della dimensione casa è iscritto in una logica profonda di posizionamento e identificazioni familiari, che mi vengono descritti così : la madre era una donna molto intelligente e forte, volitiva, orfana, sola. Ha deciso di sposarsi per avere figli solo dopo aver conseguito un titolo di studio e una professione : maestra díasilo, in cui aveva fatto carriera, diventando direttrice didattica. Aveva quindi trovato un marito più giovane, con un difetto fisico esito di poliomelite, debole, ansioso, a tratti balbuziente e completamente sottomesso alla sua autorità carismatica. Era nata una prima figlia, la sorella appunto, affidata quasi subito, per i primi anni, a dei parenti, a degli zii e a distanza di otto anni era nata la paziente, la cui crescita era stata invece affidata a una serie di domestiche, che dovevano prendersi cura di lei, oltre che di una casa in cui la presenza materna era minima. La vita della madre, i suoi interessi, si svolgevano a scuola. Della propria infanzia la paziente presenta flash molto nitidi e negativi, improntati a profonda tristezza e infelicità : la continua e frustrante ricerca della madre, un odio e un rifiuto verso figure indifferenti o, se anche affettuose, inconsapevoli della loro inutilità affettiva, un senso di vuoto e di mancanza cronica di piacere. Ma ricorda anche una propria valenza critica segreta, man mano accresciutasi con líetà, verso líambiente familiare, una rabbia più o meno repressa verso la madre, che in fondo preferiva la sua scuola a tutti loro e un soffrire di fronte agli attacchi spazientiti e svalutanti della madre nei confronti del papà. "Mi chiamavano líavvocato del papà, mi faceva pena.", senza che tuttavia il papà per questo le dimostrasse particolare attenzione o riconoscimento. "Non ha mai giocato con me, non era capace." Nel corso della crescita era comunque riuscita ad accaparrarsi líattenzione della madre, se non il suo calore, perché era diventata, pur nelle turbolenze depressive, la figlia brava a scuola, intelligente, destinata a studiare. Mentre la sorella maggiore era scivolata in uníidentità di persona limitata, senza interessi particolari e al termine delle scuole medie aveva sostituito la serie delle domestiche... |

Smeraldi: Forse non è chiaro. Veniva portata dai neurologi la paziente ? |

La paziente mi riferisce confusamente di contatti, di visite presso neurologi, quando era ragazzina. Questa sorella... aveva sostituito questa serie di domestiche per diventare una specie di serva di casa e, in un certo senso, serva anche della sorella minore. Sempre questa sorella poi aveva avuto un figlio, come ragazza madre, rimanendo allíinterno del nucleo familiare, che aveva ben accettato questa nascita e, in anni successivi, si era quindi sposata con un uomo molto maggiore di lei, da cui poi era rimasta vedova. La sorella maggiore vive nello stesso stabile dove si trovano sia la casa dei genitori sia quella della paziente e la sua abitazione diventa ancor oggi la residenza ufficiale della paziente, in circostanze sociali, ad esempio quando bisogna farsi visitare da un medico, oppure quando lei e la figlia devono ricevere in casa uníamica, ... e rifugio dove infilarsi, quando la propria casa peggiora fino a diventare inservibile, quando si rompono ... boiler, acqua calda ...

Anche se alcuni episodi di "esaurimento" le avevano fatto perdere due anni di scuola, era continuata nel corso di uníadolescenza solitaria, coartata, al traino dei genitori, la sua destinazione universitaria. Iscritta a lingue, in Cattolica, aveva poi interrotto gli studi, fuori corso, a otto esami dal termine "Non ne avevo più voglia, erano i più pesanti", anche perché nel frattempo i genitori le avevano praticamente combinato fidanzamento e matrimonio. "Bacio emozionante a Venezia, freddezza segreta il giorno delle nozze, tanti pianti per i primi tempi" : questa la sua descrizione dellíunico evento sentimentale della vita. Era nata la figlia dai primi e direi gli ultimi rapporti sessuali. Lei si era aggrappata alla madre e il marito era scivolato dentro líalcolismo, come dimenticato, privo díimportanza. La madre non veniva mai a casa sua, non le dava un aiuto concreto, ma il contatto quotidiano con lei, le vacanze trascorse sempre insieme e le sue parole díincoraggiamento e di stima, bastavano a farle reggere la delusione del problema del marito, la pesantezza della vita di casa, le angosce per la scuola, perché aveva nel frattempo iniziato líinsegnamento elementare, provando continui sentimenti di inadeguatezza e di estraneità. Tutto era superabile ricorrendo a questo contatto materno, costruendo con la realtà un rapporto che qui, a questo punto, definirei di tipo ipomaniacale, poi si vedrà ..., cioè, con le parole della paziente, un rapporto gioioso, sospeso sopra le brutture della vita, tutto rivolto agli aspetti elevati o piacevoli o evasivi di essa.

Era dalla madre che veniva un codice di comportamento che lei eseguiva, se pure con falle, cedimenti di prestazione, comunque tollerati allíinterno del codice stesso. La morte della madre aveva concretamente tolto di mezzo questa funzione organizzativa e aveva poi inferto un colpo mortale a una sua quasi certezza che nulla dovesse modificare questo stato di cose. La disorganizzazione disforica dei primi tempi della perdita sfocia dapprima in un periodo di esaltazione affettiva verso il marito, sensazione anche di grande libertà, potenzialità di vita, cui segue molto rapidamente (15, 20 giorni) uno stato depressivo, che definirei  "depressione-esplosione rabbiosa" della "ceffa" che imperversa in famiglia  con padre, sorella, marito. La figlia è sempre stata risparmiata da questi attacchi. "Ceffa" è un suo termine per definire quanto si senta carogna, prepotente, ingiusta, ma costretta a esserlo dalla disperazione, quando non può più negare che la vita è una faccenda orribile, senza senso, che cíè la morte, la malattia, che si invecchia, anche senza avere vissuto, comíè successo e sta succedendo a lei. Verso Novembre, in questo primo anno, sembra ritrovare, lentamente ma progressivamente, un buon equilibrio morale e un buon funzionamento professionale (riprende la scuola) e, in parte, anche domestico, che dura fino al Febbraio í94, in cui ricade in uno stato depressivo. La ricorsività di questi passaggi si ripresenterà in tutti gli altri successivi, fino ad oggi. Nel Novembre í94 e nel Giugno í95 si verificheranno altre due consultazioni psichiatriche farmacologiche, però con medici diversi, non la prima psichiatra da cui era stata vista... in cui la diagnosi è ancora quella di disforia o di episodi depressivi o ipomaniacali, con la conferma sempre del farmaco conosciuto, anche su richiesta della paziente stessa.

Sono consultazioni più sollecitate da me che richieste dalla paziente e gliele propongo quando, soprattutto allíinizio dei periodi depressivi, la vedo davvero disperata della perdita di senso di ciò che sta vivendo e sofferente sul piano clinico a livelli preoccupanti, ad esempio non si lava... Lei accetta questi miei inviti, di cui coglie soprattutto la sollecitudine, líelemento affettivo. Ma sempre, prima e dopo la consultazione, mi spiega in seduta quanto tema, e quindi tenda a rifiutare, líassunzione di un farmaco troppo potente ed efficace sul piano umorale, perché questo significherebbe la perdita del controllo della situazione, di una propria libertà di decidere quando e dove, nel settore della vita, casa, scuola, attivarsi. Sono anche occasioni, questi incontri clinici con psichiatri, in cui la signora, pur dichiarando la necessità essenziale di essere seguita in psicoterapia, esprime al medico il proprio rancore per chi la sta costringendo ad avvicinare e mescolare i due mondi, che lei per lunghi anni era riuscita a tenere separati : il mondo roseo delle nuvole, dei buoni sentimenti straripanti, dellíallegria, della spensieratezza e quello cupo degli adulti, gretti, meschini, calcolatori e centellinatori degli affetti, accettanti i limiti della vita. Lei non li voleva vedere quei limiti, voleva continuare a pensarsi eternamente giovane, felice.

Credo che un mio intervento interpretativo costante sia sempre stato quello di mostrarle come questa sua visione di un mondo adulto reale di tal fatta, cioè arido e morto, negante gli affetti, il calore, il piacere, che anche le persone adulte possono far circolare fra di loro, fosse il motivo della sua necessità di porre sé stessa tra le nuvole rosa, scindendo e separando drasticamente le dimensioni, che alla fine risultavano líuna più mortificante e deludente dellíaltra. La protesta portata sempre in seduta nei confronti di qualsiasi ipotesi di avvicinamento e fusione, o meglio di forzatura alla fusione è il tema conduttore dei periodi in cui esce da quella dimensione ipomaniacale, che in un certo senso coincide con il benessere e che può durare anche qualche mese in un anno, per entrare in quei segmenti depressivi, in cui sta davvero male, ma nei quali non perde mai la capacità di osservarsi con lucidità e descrivere un dilemma tormentoso, che le appare sempre più con una chiarezza ineludibile, ma senza soluzione, ancora senza soluzione. Cioè accettare le regole della vita, i ruoli generazionali, ad esempio porre sé stessa in un ruolo di moglie, di madre, è líunico modo per vivere e se ne rende conto, non ce níè altri, non funzionano altre negazioni, ma dove porre e soddisfare quel bisogno di gioia, di appagamento tipico, che una volta era facilmente collocato nella differenziazione ambientale fra sé e gli altri, fra il reale-brutto e il non reale-bello ? Sembra che a questo non sappia approdare.

Eí molto chiaro nel tempo, a me e alla paziente stessa, che soltanto nei periodi in cui si manifesta questa fase depressiva, non coperta dal meccanismo difensivo della negazione, sia possibile elaborare davvero qualcosa di essenziale, riguardo alla sua collaborazione nella vita, la sua relazione con gli altri ed è lì che líaspetto, quando lei decide di arrivarci. Líinevitabile spostamento in avanti che si verifica, in questi periodi più elaborativi delle sue posizioni, dalle quali, così si esprime la paziente, non si può più tornare indietro (le vengono tagliati i ponti), in un certo senso però alimenta la depressione stessa: il contemplare ad esempio il disastro della propria casa ("il punto cui sono potuta arrivare, ma come ho fatto... mi sono spaventata"), questa constatazione è umiliante e paralizzante. Líintervento concreto su di essa, ad esempio sulla casa, che oggi sente teoricamente più possibile, comunque non porterebbe che ad una normalità ancora temuta come piatta e mortificante, da una parte e dallíaltra metterebbe in crisi quel piano caratteriale di ribellione, di oppositività, che forse nel tempo ha avuto una funzione fondante e produttiva ("meglio dominare che essere dominati").

Quindi il circolo vizioso della reazione di fuga riprende, reazione che penso possa ancora essere definita descrittivamente di tipo ipomaniacale. Ma si potrebbe anche dire che forse a ogni giro di volta il livello fenomenologico appare meno compromesso, cioè líinsegnamento, ad esempio, da cui in passato si ritraeva a ogni minima difficoltà, è oggi vissuto in modo più integrato, sente di essere una vera maestra e la fatica che comporta il lavoro è accettata e capita. Figlia e marito sono senzíaltro più rispettati nei loro bisogni di persone separate da lei. Lei stessa si vive oggi come una persona sofferente di una depressione con uníorigine antica. Questa è la sua autodiagnosi, ben lontana e diversa da quella donna-bambina che era venuta più che a piangere, a protestare per la morte della madre. Ma molti interrogativi clinici restano e in un certo senso, rispetto allíinizio della psicoterapia, sembrano quasi più confusi. La casa, che permane comunque così disastrata, è forse la rappresentazione che devíessere mantenuta e rispettata di una quota non curabile della persona ? Eí il legame che viene mantenuto per dare un senso alla prosecuzione della psicoterapia, nella sua valenza, nel suo significato simbiotico ?

Vorrei riferire un sogno portatomi tempo fa, in piena crisi depressiva, dalla paziente, la cui mancata interpretazione testimonia di una mia paura, che rispecchia gli aspetti "scarnificanti" della terapia, testimonia della preoccupazione della mancanza di risorse ulteriori da parte della paziente, quindi anche di uníincertezza conseguente, rispetto a una logica profonda di prosecuzione o avviamento al termine di questa psicoterapia, che dura ormai da cinque anni. Nel sogno, che la paziente definisce orribile, compare il cane della paziente che viene divorato vivo, a cominciare dalla testa, da un altro animale più grande indistinto. Alla fine non rimane che uno scheletro, la cui strana caratteristica è di essere fatto non di ossa ma da nastro da pacchi di regalo colorato e rigido, che forma la cassa toracica. Ma vorrei anche a grandi linee ripercorrere una seduta recente che secondo me sembra avere toccato questi stessi punti, la seduta della settimana che precede la settimana di Pasqua. La paziente arriva nel suo stile affrettato e furtivo e concitatamente mi mette in mano la colomba di Pasqua, facendomi gli auguri e annunciandomi che il prossimo giovedì, sarebbe stato giovedì santo, sarà al mare per le vacanze. Io non le avevo parlato di interruzione di vacanze perché nella mia organizzazione non si contemplava...

Si mette a parlare sempre in modo accelerato di come non ne possa più di questa classe (la sua classe, ha una prima), in cui i bambini non le danno retta né con le buone, né con le cattive, non cíè verso di convincerli ad essere collaboranti... Lei aumenta sempre di più i castighi, che stanno diventando pazzeschi, disumani, ma non serve. Marco poi, un bambino problematico della classe, è intrattabile : pugni, parolacce. La collega di classe, la sua coinsegnante, non ne può più nemmeno lei, le diceva che lo sta lasciando un poí in pace per vedere se, senza una pressione troppo forte, Marco reagisca meglio. Gli ha permesso, per esempio, di allontanarsi dalla cattedra e stare più in fondo alla classe. Lei invece (la paziente) questo non lo può tollerare, di vederlo agitarsi così e disturbare gli altri senza intervenire. Lo ha raccolto di peso e rimesso di fianco a lei, per costringerlo al lavoro. Ma che senso ha questo rapporto simmetrico che fa crescere la rabbia di tutti e due ? Le chiedo che cosa mi sta chiedendo : se essere lasciata in pace in fondo alla classe (al mare), come rinunciare a uníattenzione nei suoi confronti, oppure essere tenuta vicina... e ancora mi sembra, le dico, che mi dica che qualcosa devíessere capito da parte mia, che proprio non vedo, né con le buone, né con le cattive. Ride imbarazzata... cíè come un divincolarsi davanti a questo intervento, vorrebbe poter riprendere il livello concreto, narrativo, ma è come se, a un certo punto, decidesse di accettare líaltro livello. Si calma profondamente e, in tuttíaltro tono, mi dice che non vuole, non chiede di allontanarsi, anzi non chiede altro che sentirsi voluta bene, senza condizioni. Però, continua, líaltro giorno è successa una cosa che líha colpita molto e ha fatto capire quanto sia cambiata in questi anni. La figlia ha assolutamente voluto portarla a vedere un film ,Titanic, che la ragazzina aveva già visto con le amiche. Abituata alle lacrime facili della mamma per qualsiasi spettacolo sentimentale è rimasta molto turbata, molto colpita, in fondo quanto la paziente stessa, di fronte al fatto che la madre non si è lasciata andare affatto alla commozione, non piangeva. Non è che si sentisse fredda e indifferente, ma il suo coinvolgimento era più generale e profondo : era la rabbia per la crudeltà delle differenze sociali, per la tragedia davvero accaduta, per la gente che realmente è morta in questa catastrofe. A quello pensava durante il film, non alla storia díamore costruita per far piangere... Chissà se vuole segnalarmi la distanza che sembra esserci tra lei e la figlia... o se vuole invece parlarmi ancora di quella catastrofe accaduta nella sua vita : il Titanic affondato qualche anno fa quando è morta la mamma o molti anni prima, nella sua crescita, nella quale sentiva proprio naufragare la propria gioia di vivere, le speranze che qualcuno riuscisse ad accorgersi di lei abbastanza da portarla via dal borgo. Lei mi dice che ci sono tutte le cose, líuna e líaltra cosa, tutto quello che ho detto può stare insieme. La seduta prosegue col suo cercare di ricordare momenti infantili di vita familiare, in cui il padre e la madre fossero uniti, si scambiassero qualcosa. Non ne trova, non ce ne sono. Termina la seduta con il racconto di una parte di casa che è stata sgombrata e ripulita e con considerazioni affettuose sul marito, che non vuole più sfruttare e trattare male. Io terminerei qui come esposizione della cosa, non so se è il momento di produrre uníipotesi di diagnosi... Proporrei una diagnosi sul I Asse, di disturbo ciclotimico e una diagnosi sul II Asse, di disturbo dipendente di personalità.

 

Discussione del Caso Clinico

 

 

Viganò: L'esposizione è stata abbastanza monolitica, adesso dobbiamo smembrare le questioni e separarle tra di loro. Io riassumerei alcuni problemi, poi do la parola agli altri, seguendo la nostra scaletta. Primo : si chiedeva il racconto istituzionale precedente la presa in carico psicoterapica o psicodinamica. Qui c'è un intervento dello psichiatra che nell'esposizione è stato letto sulla cartella... non c'è in questo invio, non appare una discussione tra lo psichiatra e lo psicologo che riceve. Non c'è una lettura discussa del caso, almeno non è riportata dalla dott.ssa Pozzi. Quindi lei si è ritrovata a leggere delle frasi molto scarne, che ci hanno fatto chiedere dall'inizio "Ma allora questo psichiatra che diagnosi ha fatto, perché fa un invio: per una diagnosi o per una terapia ?" Lì c'è una prima osservazione da fare, di lavoro istituzionale... di come si può stabilire o non stabilire un lavoro di équipe. Un secondo punto è la narrazione del soggetto... occupa gran parte dell'esposizione e la dott.ssa Pozzi ha fatto notare che il rapporto con lei è iniziato su questo andamento ed è proseguito a lungo, con una narrazione molto dettagliata : ha costruito un romanzo di sé stessa, della madre, delle rotture, delle perdite, ecc. Dietro a questa lunga narrazione del soggetto io farei notare, nella parte finale, la dott.ssa stessa l'ha notato, un mutamento sostanziale : a un certo punto, quando c'è il sogno e l'interrogazione "Allora lei mi vuole lasciare ?" (la terapista chiede alla paziente), invertendo il discorso sul ragazzino Marco... lì emerge un piano diverso della relazione, almeno, che non era apparso precedentemente. Un piano dove entra la questione dell'emozione, dell'oggetto, che la paziente vive. Mette in discussione una propria emozione fino al punto di non commuoversi quando va a vedere Titanic, che fa commuovere programmaticamente chiunque. C'è una sorta di movimento, in cui entra nella relazione non più la narrazione, o la rinarrazione, ma una relazione d'oggetto. Va valutato, rispetto alla conduzione della cura, come mai in quel momento e se questo mutamento potrà essere, però non ne abbiamo gli elementi, una premessa per poter ritornare sulla questione della diagnosi. Perché la diagnosi, questa è una mia terza osservazione, in senso psicodinamico, se prescinde dal rapporto che un soggetto ha con quello che in psicoanalisi si chiama oggetto e quindi con la strutturazione analitica inconscia dell'affettività, risulta difficile una diagnosi analitica puramente sulla narrazione, sugli episodi della vita. Qui si sarebbe potuta vedere una dialettica fra diagnosi osservazionale, che poi dovremo fare, come risulta dai comportamenti della fenomenologia della vita di questo soggetto, rispetto ad una diagnosi posta nel transfert. Questo secondo livello, con gli elementi che ci sono, non è ancora attingibile, un livello analitico, cioè all'interno del transfert,... però è una mia impressione. Ultima osservazione che vorrei fare riguarda i due punti che noi abbiamo messo alla fine della scaletta : uso dei farmaci e diagnosi DSM. Rispetto all'uso dei farmaci c'è anche qui qualcosa di singolare, per cui in certi momenti è la terapista che spinge la paziente ad andare dallo psichiatra perché le dia qualcosa. La paziente non vuole cose troppo forti. La psichiatra conferma questo... Xanax... | *Pozzi: Gli psichiatri ! | ... che non è specificamente un antidepressivo, ma anzi una benzodiazepina che viene usata in genere, che io sappia, nei disturbi somatoformi. Quindi questo uso del farmaco è anche questo da discutere. La scelta della psicoterapista è di non entrarci, ma di affidarlo ad un altro transfert : quello sull'istituzione, sulla psichiatria, sulla medicalità... Infine, rispetto alla diagnosi DSM di disturbo ciclotimico, che la dott.ssa proponeva, anche associandolo ad una diagnosi sull'Asse II come disturbo dipendente di personalità, anche questo andrebbe discusso. Soprattutto perché sente il bisogno di attingere all'Asse II, al disturbo dipendente di personalità, se è questo II livello più messo in gioco nella psicoterapia, come sembrerebbe, stando al tentativo di mettere assieme i due momenti, quello più adolescenziale e quello più adulto. Rispetto al disturbo ciclotimico chiedo ai colleghi di confermare questa diagnosi DSM, perché è interessante poi riportarla sulla psicoterapia. |

Smeraldi: Il discorso della diagnosi è un po' diverso da quell'intervento che avevo chiesto di delucidazione iniziale, perché fare una diagnosi adesso, dopo sei anni, è una diagnosi più informale. Il discorso è diverso sull'impostazione iniziale. Io, francamente, non l'ho capito. Cioè, questa qui è una donna che si è presentata al CPS, ha parlato con uno psichiatra, il quale misteriosamente ha dato (misteriosamente per noi oggi) un'indicazione per una psicoterapia... probabilmente lui ha fatto un ragionamento, non ce l'ha comunicato. Però ha fatto un ragionamento per cui, avendo escluso un intervento di Asse I, in linguaggio DSM, ha detto "Probabilmente c'è una caratteropatia, un disturbo di personalità, quindi la invio da uno psicologo, il quale farà una diagnosi psicologica di personalità ed eventualmente farà un ragionamento se è conveniente o non è conveniente la presa in carico." Io non lo so se c'erano degli elementi precedenti. Mi sembra di sì, ma noi non li sappiamo. Questa qui è stata portata già nell'adolescenza... da medici, neurologi... quindi un qualcosa c'era, ma questo livello ci sfugge... Poi c'è un secondo elemento che fa pensare, e questo diventa di un certo peso, che l'intervento comunque farmacologico che era stato tentato era di una banalità sconcertante e soprattutto era aspecifico, perché non ha riferito dei sintomi per fare una diagnosi di un disturbo d'ansia. La psicoterapeuta, nell'arco dello svolgimento della terapia, si accorge... dei cambiamenti, se ho capito bene anche dalla diagnosi finale, che questa donna alterna dei periodi diversi. Credo sia questa l'osservazione e quindi la rimanda, correttamente secondo me, ad un'impostazione psichiatrica. Io non ho capito con che cosa è tornata indietro però ? | Rimandata al mittente ! | Io, al di là del farmaco, mi aspetterei un ragionamento... se uno psicoterapeuta (e ciascuno di noi, facendo lo psichiatra ha fatto questa parte) manda da uno psichiatra una persona, al di là di darle una medicina o meno, risponderà allo psicoterapeuta. Non ho capito questa risposta. Questo cambiamento registrato, lo psichiatra ha detto che era irrilevante ?... può essere, però sembra strano. Al di là del fatto che i cambiamenti sono in due fasi, perché ho sentito parlare a un certo punto del racconto anche di un atteggiamento ipomaniacale e, dal racconto, mi sembra anche che ci siano delle frasi con cui questa signora arriva e ha un eloquio accelerato... probabilmente c'è qualcosa in questo senso... Non capisco la parte clinica. A meno che non ci siano delle informazioni che non abbiamo e che la collochino in un altro quadro... |

 

Pozzi: E' difficile recuperare dei passaggi di comunicazione... tra enti pubblici con persone anche diverse, però la mia sensazione è che nell'incontro con gli psichiatri probabilmente la signora desse, in un certo senso, il "peggio di sé", nel senso del manifestare proprio in funzione delle proprie paure un atteggiamento fatuo, che poteva spostare davvero la diagnosi di nuovo su problemi di personalità, piuttosto che sul I Asse. Quindi forse gli psichiatri non vedevano la necessità di agire... |

Smeraldi: Ho capito, ma qui ci sono dei comportamenti... tu glielo hai detto che viveva in una stalla ? Una persona che è di classe medio-borghese, insegnante elementare, brava, vive in una stalla ? Al punto tale che se deve farsi visitare da un medico va dalla sorella ? Mi sembra un azzardo. Io non l'ho mai sentita una roba simile. Partirei da lì a parlare con questa donna, a dire perché fa questo, o se lo fa sempre, perché non sembra che lo faccia sempre... A un certo punto c'era un tentativo di recupero funzionale, citato anche in casa. Suppongo che non sarà una casa linda, ma un po' meno stalla. Quindi evidentemente c'è questa fluttuazione. Ci sono degli elementi per pensare che il comportamento di questa donna non sia costante e quindi risenta di qualche cosa. Non è detto obbligatoriamente che debba essere una bipolarità, però perlomeno da andarlo a indagare... |

 

Freni: Volevo stare anch'io su quest'aspetto di confine tra psichiatria e psicoterapia, perché mi sembra che per l'ennesima volta ci troviamo in quella che è diventata quasi una costante di questi seminari, cioè constatare come spesso, in psichiatria, le cartelle cliniche, i resoconti non sono sufficientemente informativi e soprattutto non emerge il nesso razionale tra la procedura diagnostica e la relativa conseguente strategia terapeutica. Quindi purtroppo anche in questo caso vediamo come, addirittura in un contesto nell'ambito della stessa équipe, non emerga una condizione di scambio di informazioni. E questo lo troverei molto grave visto che qui facciamo psichiatria integrata, psichiatria delle équipes territoriali... questo è un punto che lascia molto perplessi, al di là del fatto che siano passati anni o che questi psichiatri non si capisce se erano persone che sono state lì poco tempo. Ma non importa, perché se un professionista è tale, che sia poco tempo o molto tempo, è l'atto che compie che va corroborato, che va giustificato. Il che espone anche a complicazioni di ordine medico-legale, perché il problema è che oggi si pretende e si vuole che la documentazione clinica emerga in razionale, rapportato alla diagnosi e al trattamento. Mi aveva molto colpito il fatto che si crea questa strana condizione... tu dici "A me psicoterapeuta appare così depressa, così ipomaniacale, da sentire il bisogno di incoraggiarla ad andare dallo psichiatra e mi sembra che allo psichiatra porti la parte peggiore di sé. Peggiore, se parliamo in termini di DSM (Asse I, Asse II), è Asse I. Asse I è la diagnosi di malattia secondo una certa impostazione. Lo psichiatra invece sembra rispondere all'incontrario, sembra dire : "No, non è una cosa da psichiatria" e la rimanda in psicoterapia. Però, a questo punto, veramente emerge un problema molto complesso a proposito delle relazioni dei trattamenti, perché questo è un classico che si verifica... |

 

Pozzi: Quando dicevo peggiore non intendevo fatuità. |

 

Fatuità, superficialità, negazione della propria condizione : sono segni psicotici. Il fatto di vivere nella stalla io la ritengo una fenomenologia psicotica, che si trova negli stati psicotici, o francamente borderline, oppure in quelle situazioni prepsicotiche. Non è una cosa da poco. Anche il comportamento esteriore del paziente è un indicatore diagnostico... dal mio punto di vista la diagnosi è l'insieme di tutte queste osservazioni. A me sembra... |**

... terapeuta che si comporta come uno che ha bisogno di psicoterapia, al punto tale da convincere ciascun interlocutore dell'opportunità di rinviarlo all'altro. Allora questo è il segno che c'è qualcosa che non funziona. E qui torniamo al problema che poneva Viganò : qui torniamo all'ordine del transfert-controtransfert. Qui emerge un quesito inquietante : cioè è lo psicoterapeuta che, nel momento in cui si sente investito da questa presunta gravità della paziente, sente di non avere strumenti a disposizione per farvi fronte, cioè sente che la strumentazione di cui dispone : l'interpretazione, la relazione, ecc., non sono adeguati, sufficienti a rispondere alla condizione che sta osservando. Se è così e ne è convinta, come mai quando lo psichiatra gliela rimanda non difende il proprio punto di vista ? Questo è il punto... Succede sempre, è un classico. Come mai ciascun professionista... perché è da lì che poi emerge l'essere costretti a esplicitare il proprio relazionale, che rimane così implicito, non detto, non dichiarato, non scritto. Questo mi dà la convinzione che siamo nell'ordine della dinamica dell'inconscio, quando accade questo, che è un atto mancato in termini di scrittura, di comunicazione o di scambio di informazione tra colleghi. Allora, se vogliamo fare un discorso di integrazione di trattamenti, un principio fondamentale è questo : se io mando un paziente a un altro professionista innanzitutto lo devo fare motivatamente e quindi quella fase preliminare di osservazione, di valutazione-opportunità-trattamento o meno sono dell'idea che debbano... gli psichiatri... Io ritengo sbagliato che l'inviante deleghi l'altro, indipendentemente dal fatto che sia psichiatra o psicologa, la psicoterapeuta. Questo discorso è indipendente dalla formazione accademica. Il problema è che allora questo psichiatra fa una lettura molto superficiale, quindi superficiale la paziente, superficiale lo psichiatra, ecco che mi convince che qui c'è una trappola dell'ordine transfert-controtransfert. Superficiale la paziente, superficiale l'osservazione psichiatrica, superficiale la prescrizione farmacologica. Penso che ormai le benzodiazepine si tenda a non darle più. Si va verso antidepressivi che hanno anche un'azione ansiolitica o si va verso farmaci più impegnativi. |

 

Smeraldi: Forse è una riflessione che non c'entra niente però, tutto sommato, questa signora si è auto-fatta la diagnosi, si è auto-fatta la terapia, si auto-fa tutto. Se posso centrare un po' di più il problema : quando dalla psicoterapeuta questa malata viene mandata sulla base osservazionale... allo psichiatra, cos'è che ci si aspetta che lo psichiatra faccia ? Non ho capito. Questa signora si presenta con qualche cosa che è un po' diverso dal solito : parla troppo rispetto al suo standard, oppure è un po' più depressa, fa meno cose, è disordinata nel comportamento, con un'alternanza strana. Allora la rimando dallo psichiatra. Ma cosa mi aspetto che faccia ? Che faccia una presa in carico ? Qui non è questione di fare un'indicazione farmacologica, è questione di fare una presa in carico psichiatrica, a cui conseguirà forse anche una prescrizione farmacologica. Oppure ci si aspetta semplicemente che dia un antidepressivo ? |

 

Freni: Mi sembra che questo quesito sia una situazione esattamente simmetrica dell'altra posizione : così come lo psichiatra invia con quella modalità, anche la psicoterapeuta sembra non esplicitare il motivo dell'invio, l'aspettativa e la difesa poi successiva del proprio punto di vista. Questo mi conferma che entrambi sono presi in questo triangolo, dove i processi dinamici sono talmente travolgenti e effettivamente questo aspetto onnipotente manipolativo della paziente sembra dominare il campo di cui tutti sono un po' vittime inconsapevoli... però è importante questa domanda : se io, che ho in psicoterapia una persona maturo il convincimento dell'opportunità che un altro, che poi si pone il problema... Metti che tu fossi medico-psichiatra, potresti porti il problema se addirittura darglieli tu i farmaci... è un problema molto aperto, su cui in futuro avremo molto da studiare... Tu, che sei psicologa e non prescrivi il farmaco, potresti adoperare questa razionalizzazione come difesa, rispetto al fatto che tu sei convinta dell'opportunità di un intervento psichiatrico più sistematico, più controllato e quindi con una farmacoterapia più efficace, rispetto a una condizione che tu individui come un sintomo-bersaglio o che ritieni forte ostacolo al tuo lavoro... Questa paziente non so, perché ha la depressione in questo momento non elaborabile con la psicoterapia o la ipomaniacalità, oppure il sintomo che ritengo più disturbante ai fin del mio lavoro : questa discontinuità emotivo-affettiva per cui questo continuo oscillare dell'umore spezzetta il trattamento e lo vanifica. Se fosse questo il discorso, già tu dai delle indicazioni possibili anche valente farmacoterapeutiche... |

 

Pozzi: Mi riallaccio a quest'ultimissima cosa... io credo di avere mandato questa paziente allo psichiatra, nel momento iniziale di un periodo depressivo, in cui la vedevo particolarmente sofferente, in una maniera anche inutile e dannosa per la paziente stessa. E la mia richiesta allo psichiatra, che veniva esplicitata, era proprio quella di poter affrontare e togliere di mezzo questo livello di sofferenza depressivo, distruttivo, inutile, per poter permettere a questa paziente di raggiungere uno stato dell'umore appena migliore, in modo che le fosse possibile dare prosecuzione elaborativa alle nostre cose. Io trovo che l'unico periodo in cui è possibile davvero lavorare psicoterapicamente con questa persona è quando è al termine dei periodi depressivi, prima che subentri la risposta della negazione, sulla base di una sensazione di impotenza, in questa paziente, ad affrontare il nodo psicologico suo, che è quello di trovare nella realtà uno spazio percorribile di piacere. |

 

Freni: Quello che stai dicendo tu conferma ancora una volta quello che temevo. Tu stai facendo una richiesta doppia : da una canto immagino lo psichiatra che dà quel tanto di antidepressivo che basta a non farla essere troppo depressa, tra l'altro ci sono in lettura psicoanalitica tanti casi segnalati di soggetti in cui... viene consigliato l'antidepressivo proprio per sbloccare la situazione di stallo, legato al fatto che una condizione depressiva non genera transfert. Poi tu dici che con questa paziente riesci a lavorare meglio in quella fase di uscita dal momento depressivo, prima che poi mi vada verso la negazione maniacale. Quindi stai facendo la domanda "Come sarebbe bello se questo periodo potesse essere prolungato." Allora qui stiamo chiedendo allo psichiatra di vedere se può stabilizzare l'umore. Chiediamo allo psichiatra "Esiste una terapia stabilizzante dell'umore ?" E' una domanda molto diversa da dire "Esiste una terapia che le toglie questa depressione ?", perché può succedere se quello le dà l'antidepressivo quella sta meglio, ma poi entra in quell'altro stato che tu senti non idoneo al tuo lavoro, perché la formulazione della psicoterapia è quella, non è tanto quella di dire... gli puoi dare il farmaco tal dei tali, ma puoi dire "Ai fini del mio lavoro mi servirebbe un tuo aiuto finalizzato a stabilire l'umore della paziente in modo che questo stato d'animo lievemente depresso si prolunghi nel tempo", allora quello fa i suoi ragionamenti "Tra gli stabilizzanti l'umore potremmo provare questo... se poi non funziona allora lo prendo in carico", ci ragiona, prova, riprova... però mantiene questa consegna di vedere se è possibile arrivare a quell'obiettivo. |

 

Viganò: Io proporrei... una lettura un po' anticonformistica, meno conforme rispetto a quanto è stato detto finora, di questo punto di difficoltà che è intervenuto... circa un anno e due mesi dopo l'inizio della terapia. Proviamo a pensarlo dal punto di vista del transfert e della relazione d'oggetto di questa paziente questo momento di crisi, quindi non come accidentale, ma legato a una dinamica di come stavano andando le cose in quella cura. Quel momento di crisi è una crisi sentita dalla terapista come inquietante. E' preoccupata... e allora vediamo di che cosa è preoccupata, perché è un anno e due mesi che stanno dialogando, quindi si è creata una dinamica relazionale tra curato e curante. Questo è confermato dal fatto che la paziente, quando viene re-inviata dallo psichiatra, tende a non volerci andare, a rifiutare il farmaco "forte", che... sarebbe quell'antidepressivo specifico, una cura antidepressiva che le suona come un'interpretazione, possiamo ipotizzare, ma soprattutto va dallo psichiatra a esprimere tutto il suo rancore per la per la psicoterapista. Quindi questo ci potrebbe illuminare su perché la psicoterapista fosse così preoccupata in quel momento. Era preoccupata di un'aggressività che sentiva covare dentro questa paziente, diretta all'analisi, alla terapia, al transfert, una tendenza del transfert a diventare, a ripetere quel rancore, quell'aggressività, quella ribellione, che la paziente ha verso il suo Altro materno. Quindi proviamo a leggere dal punto di vista di un andamento dinamico questo momento della cura, tanto più che la mia esperienza dice che, nelle cure che si svolgono in istituzioni, il transfert va pensato abbastanza globalmente perché il soggetto è uno solo, anche se noi siamo uno psichiatra, uno psicologo, questo e quest'altro. Il soggetto è sempre quello e il suo Altro lo gestisce a partire dalla sua propria soggettività. Quindi psichiatra, psicologo, ecc., le istituzioni si trovano a essere dalla parte dell'Altro della paziente. Il gioco che la paziente può fare tra psichiatra e psicologo è un gioco transferale da leggere unitariamente, perché è il soggetto che gioca tra psichiatra e psicologo. Questa dimensione, secondo me, è una lezione importante da apprendere da questo caso, perché ci dice come la collaborazione tra i colleghi professionisti qui, quando c'è in atto un transfert sull'istituzione, non basta che sia più o meno corretta dal punto di vista di darsi delle informazioni obiettive, ma i professionisti che fanno parte dell'area transferale, di cui partecipa quel soggetto, devono avere una lettura dinamica di quello che sta avvenendo... chiaro che c'è da auspicarsi che la lettura dinamica di questa pluralità di professionisti, che costituiscono l'Altro transferale, porti a sedimentare un'autorevolezza clinica. Se portasse a un conflitto... questo sarebbe distruttivo per il soggetto, quindi unico non nel senso ideale, cioè non è che si deve produrre, come spesso si dice nelle istituzioni ("Facciamo allora un progetto, diciamo qual è la strada che il soggetto deve percorrere."). Il progetto non è necessario, basta che la lettura sia una lettura dove ognuno può avere la sua opinione, ma che dà uno spazio vivibile al soggetto. In questo caso io purtroppo devo dire che sono piuttosto critico rispetto alla gestione di questo momento, perché è stata una gestione che non ha dato al soggetto una strada nel transfert da proseguire, ma ha lasciato gestire praticamente tutto alla paziente. Se l'è dovuta cavare nel conflitto ambientale giocato nella realtà - dal momento che nessuno ne ha colta la valenza transferale e quindi gestire tutta questa sua aggressività... non sento strettamente questi passaggi come umorali, di calo, di differenze dell'umore legati a un investimento dell'oggetto che viene meno. Non ci vedo la dinamica melanconica in questi passaggi, ma piuttosto questa dinamica transferale, che non trova modo di essere elaborata (cioè il suo odio per la madre)... che così deve continuamente agire... con questi passaggi all'atto, anche nel suo comportamento di diventare la maestra brava (sulla scuola proietta molto queste cose)... Questo sintomo-casa... io tornerei a interrogarlo non tanto dal punto di vista dell'umore, ma dal punto di vista dell'organizzazione simbolica che questo soggetto ha della realtà... |

 

Barracco: Questo seminario mi è sembrato interessantissimo. Uno dei pochi spazi in cui si parla nel concreto di che cos'è l'integrazione, di che cos'è il lavoro istituzionale... Sono un po' stupita e incuriosita dall'interpretazione... dalla reale richiesta della terapeuta, cioè "Come sarebbe bello se l'umore si stabilizzasse"... Mi viene da pensare che allora il terapeuta di fronte a delle situazioni che lui può leggere fenomenologicamente come più gravi, anche nel quadro generale (la casa, l'umore) invece di... portare il soggetto a interrogarsi su questa gravità e magari... lui stesso a dire qualcosa su questa gravità... Mi viene in mente che questa persona ha cambiato tre psichiatri, perché questo ? E' tornata nell'acuzie ? E' stata una decisione della paziente di chiedere di chiunque ? |

 

Quello è un grave handicap del lavoro nel pubblico, il fatto che l'interlocutore può cambiare a volte... |

Allora questo significa che, in generale, una situazione anche molto grave, quando si decide anche razionalmente, non su una spinta controtransferale non elaborata, che non ci si può fare altro,... Ci sono molti pazienti anche psicotici che rifiutano profondamente un trattamento farmacologico regolare. Tante volte è possibile per il terapeuta fare qualcos'altro, che non sia solo dire "No, per me lei deve fare questo"... Io credo che si possa agire nel reale anche senza necessariamente con il reale del farmaco o comunque... portare il paziente a chiedere, a elaborare qualcosa di una richiesta da reale a reale, cioè da farmaco a corpo. |

Freni: Qui c'è questo elemento che interviene : quando la paziente dice che non vuole una cosa forte, questa formulazione non si applica solo al farmaco, si applica anche alla psicoterapia. Cioè questa paziente sta dicendo "Guardate che io non voglio cure che richiedano in me dei cambiamenti radicali, io non voglio cambiare." Sta manifestando una forte opposizione alla cura. Qui siamo alla dinamica dell'onnipotenza. Allora il problema è chiedersi se, in questi casi, vale la pena impegnarsi in questa maniera molto generosa, per anni e anni, in trattamenti di questo genere o se invece non vale la pena di dedicare molto tempo alla fase iniziale osservazionale, che può portare al giudizio di dire "Io con questa paziente mi metto a disposizione al suo bisogno", cioè aspetto che sia lei a porre la domanda in modo più autentico e "Sono qui pronto ad accoglierti quando tu ne hai bisogno." Se no questa lotta non finisce più. Quindi può darsi che il bisogno del farmaco nasce da questo, in uno strumento più potente. Il farmaco è potente. Siamo noi abituati ormai. Io non capisco questa strana cosa che si è verificata : di considerare lo psicofarmaco come fosse una caramellina. Lo psicofarmaco è uno dei farmaci più importanti che c'è nella farmacopea generale. Soprattutto quando parliamo di antidepressivi, neurolettici : sono farmaci di altissima specialità, non sono cose da poco. Soprattutto nella varietà attuali dei farmaci che abbiamo a disposizione, ogni farmaco ha un suo specifico quasi e anche una sua corrispondente psicodinamica, dal mio punto di vista... io sono convinto di questo. Dare Serenase o dare benzodiazepina non è la stessa cosa, non solo dal punto di vista biologico o farmacologico, ma anche dal punto di vista psicodinamico. Ecco perché oggi non si può più parlare, questa è veramente una preghiera che faccio agli psicoterapeuti, oggi non è più ammissibile che gli psicoterapeuti non abbiano nozione di queste cose, perché allora... non vuoi difendere il tuo punto di vista. A proposito di quest'ultimo intervento, io con una mia paziente, che ho in analisi per cinque sedute alla settimana (una cosa diversa), che è in cura con un altro collega, prende un antidepressivo piuttosto importante, nuovo, ma a dosi di tutta portata terapeutica. Mi sono trovato in una situazione in cui anch'io qualche volta ho sollecitato che facesse dei controlli più frequenti presso il farmacoterapeuta... e in parte è vero quello che dice lei, cioè arriva comunque il momento in cui questa faccenda se la deve sbrigare lo psicoterapeuta, perché se c'è un salto del simbolico inconscio, questo solo attraverso il lavoro interpretativo si può sciogliere. Non è più una questione di farmaco. Il farmaco serve perché dà il sostegno. Dà un contenimento notevole rispetto a possibilità di aggravamento, di passaggio all'atto e cose di questo genere. Ma, in questi casi, si assiste a un iperbole di certi funzionamenti che sono molto angoscianti. Ad esempio questa paziente è arrivata a un punto tale di odio nei miei confronti terribile, nel transfert con una madre cui si è sentita rifiutata, non amata... non allattata, madre pazza che faceva tentativi di suicidio quasi ogni mese, io sono diventato quello, una cosa angosciante. Ci sono stati dei momenti in cui mi veniva voglia di lanciare la spugna e dire "Vattene via, non sopporto più questi attacchi continui." Il culmine dell'iperbole è stato che questa arriva con la forbice e se la mette tra le mani e ... per fortuna le cade, io la prendo, la sequestro. Quindi si è drammatizzata questa situazione. Dopodichè tutto cade. Dice "Mi sono sentita più sollevata. Adesso le voglio bene, mi sono resa conto che lei mi aiuta." Cambia il mondo. Sono situazioni drammatiche, che io non so. Qui siamo una volta alla settimana. Io reputo che una psicoterapia una volta alla settimana è insufficiente a gestire una situazione di questo genere, con una paziente che non ne vuol sapere di terapie forti, ma non solo terapie farmacologiche. Per quanto riguarda la storia che lo psicotico rifiuta il farmaco, anche quello andrebbe rivisto all'interno di queste categorie che stiamo descrivendo. Per esempio è da un po' di tempo che, proprio in virtù di questa storia dell'integrazione, io non faccio più le prescrizioni dei farmaci secondo la tradizione in cui uno dà delle spiegazioni. Entro nel discorso "Beh forse un farmaco le farebbe bene", ma non tanto in termini di etichetta clinica, ma in termini di una qualche specificità della fenomenologia che presenta il paziente, che lui stesso riconosce non gestibile psicologicamente. Quando troviamo un accordo a questo livello, io dico "Ci sarebbe forse un farmaco adatto a contenere questa cosa." Quando ho la fortuna di avere la fortuna di avere un farmaco che esiste con nomi commerciali diversi, io dico "Esiste... , si chiama così, si chiama cosà, lei quale sceglie ?" Chiamo da subito il paziente nella dinamica decisionale. Per esempio, una cosa classica, che ho citata qui in seminario, a proposito del risperidone: c'è la formula Belivon e la formula Risperdal. Un paziente mi risponde "Belivon... believe on, siccome io ho fiducia in lei prendo il Belivon." E l'ha preso e continua a prenderlo con fedeltà assoluta. Questo la dice lunga sui processi cognitivi, metacognitivi, sulla disposizione poi del paziente alla compliance, che è un grosso problema aperto. Un altro dice "Disperdal... disperdere le emozioni, non pensare." Capite come sono due pazienti completamente diversi dal punto di vista dinamico ?... Comunque il seminario nasce dal fatto che la psichiatria del territorio chiede all'università, alla scuola, di preparare i giovani psichiatri verso procedure di équipe, alla gestione dei pazienti. Quindi siamo stati costretti a immaginare una didattica integrativa che ci ha trovati anche un po' spiazzati... Quindi è un esperimento in corso. Noi speriamo di migliorare sempre di più, anche grazie al contributo di quei colleghi che, venendo dall'esterno, portano esperienze che sono utili a tutti... Mi piacerebbe che tu dicessi qualcosa... anche se si va un po' verso il teorico, prescindendo dalla specificità del caso, formulare delle ipotesi... |

 

Smeraldi: In termini di psicofarmacologia clinica prima è stata detta una cosa che non mi trova d'accordo, lo devo dire. Attenzione ! Il ragionamento "Io ti do un po' di antidepressivo che mi tira fuori un pezzo della depressione, poi l'altro pezzo io lo gestisco in termini non farmacologici" è una cosa che non sta né in cielo né in terra, da tutte e due le parti. Nel senso che, se la natura o la matrice della depressione è un lutto complicato, i farmaci non le fanno niente, anche se è gravissima. Non è che se la matrice è psicodinamica, la depressione non è grave, è gravissima, però la matrice è un'altra e devo gestirla con difficoltà, ma in un altro modo. Viceversa, se io ho fatto una diagnosi bipolare, più o meno grave, allora la componente depressiva viene gestita a livello di clinica psichiatrica, quindi di intervento di quel genere e allora il problema importante è quello della stabilizzazione. Perché allora è la richiesta di un intervento di ordine psicologico, in normotimia... Allora è un intervento psicologico, psicoterapeutico, che ha come obiettivo la personalità del soggetto, perché quello che c'è nel periodo di normotimia è lo studio di personalità... Per quanto riguarda invece l'impostazione io... |

 

Nell'ipotesi che ristrutturando la personalità si possa influenzare anche il decorso di malattia... |

 

Se io avessi dovuto, fossi stato interpellato come psichiatra, io mi sarei orientato da tutt'altra parte. Non mi sembra che questa signora abbia un modo di funzionare, o una presentazione psicopatologica, molto legata alla bipolarità. Può avere delle oscillazioni, ,lei diceva "Ogni anno mi fa un po' lo stesso ciclo, ma l'anno dipende un po' dal fatto che va a insegnare. Cambiano a seconda delle stagioni, non cambia solo la stagione, cambia anche l'impegno... Io avrei insistito molto di più... su quel misterioso intervento dei neurologi in età adolescenziale, perché le premesse per un disturbo di personalità grave (questo c'è, è sotto gli occhi di tutti)spesso hanno un precedente nel disturbo d'attenzione, che non è solo ipercinesia. E' una situazione adolescenziale estremamente complessa, che ha infiniti aspetti. Oltretutto questa è una donna. La componente di ipercinesia è prevalente nei maschi, nelle donne è una difficoltà cognitiva di elaborazione, che corrisponde a quella descrizione della ragazza un po' piatta, com'è andata con l'università, non sa che pesci prendere. Quindi è una situazione molto anziana come datazione e collegata a questo. Che è una cosa molto diversa. Si può fare un intervento psicofarmacologico secondo questa ipotesi, cioè l'ipotesi di un difetto tipo "ipercinesia infantile o adolescenziale", che poi diventa, da adulto, un disturbo di personalità misto, con tanti aspetti, ma grave. Solamente che in questo caso l'intervento va a finire sugli stimolanti... Secondo me, però, questa era una delle ipotesi. Certo bisognava andare a indagare di più, avere più informazioni. Però questa poteva essere una delle ipotesi, che potrebbe anche giustificare il fatto che questa donna non voglia gli antidepressivi. Chi si giova degli antidepressivi... gli affettivi riconoscono che quelle molecole gli fanno bene. E se io ad un bipolare in fase di depressione gli do... (nome di farmaco) lo capisce che non è antidepressivo e te lo dice "Guardi che questa roba qui non va bene. Io voglio un antidepressivo"... loro riconoscono il rovescio. Allora questa qui potrebbe anche essere una che ha provato un po' di antidepressivi... e ha detto "Quella roba lì non mi va bene". Potrebbe essere che quella lì ha registrato nella sua storia il fatto che quelle molecole non le fanno bene e questo è vero. Non bisogna dire che non è vero, di fatto potrebbe essere una delle ipotesi che va a confermare delle scelte alternative. Lo Xanax è come il parmigiano sulla pasta, lo mettono tutti, però non risolve assolutamente niente. L'altra questione importante è sul fatto che questa donna, secondo me... ha delle idee molto singolari su che cosa sia il funzionamento mentale e soprattutto il saldarsi del funzionamento mentale con il comportamento. Ora forse, in tutta questa storia che c'è stata e che l'istituzione le ha offerto in terapia, c'è stata una netta prevalenza del funzionamento mentale, come se il comportamento fosse una cosa irrilevante... Non è il problema della casa, è il problema del comportamento. Forse riequilibrare questo, nello schema del disturbo di personalità, poteva avere un certo vantaggio, perché se c'è un'incapacità assoluta al comportamento ci saranno dei motivi psicologici di questo, che vanno indagati. |

 

Freni: Sostanzialmente è quella che in ambiente psicoanalitico viene chiamata una componente autistica della personalità che ha radici molto antiche. Si manifesta con gravi deficit dell'attenzione, dell'apprendimento, metacognitivi, di simbolizzazione e che, nel comportamento, si manifestano... quindi questa componente qui probabilmente non compare, anche se c'è. E' la parte più dura, che fa pensare di chiedere aiuto al farmaco. |

 

Viganò: Vorrei tornare anch'io su queste considerazioni diagnostiche, perché effettivamente quello che il professor Smeraldi alla fine poneva come dissociazione... di comportamento si può ritrovarlo ad altri livelli. C'è certamente un fenomeno di splitting in questo soggetto... Dal punto di vista dell'organizzazione sessuale, dell'identificazione sessuale, questa donna come organizza il proprio desiderio, le proprie aspettative, le proprie soddisfazioni libidiche ? Noi vediamo che ha... delle divisioni un po' singolari, che ha questo rifiuto dell'identificazione alla madre, sottospecie di casalinga. Quindi la casa, in quanto identifica una forma di donna, un modo di essere donna, una posizione femminile, è rifiutata, per essere recuperata a livello della professionalità della maestra. Lì non sappiamo quanto ci sia, in questa elaborazione, di una rivalsa professionale, intelligente. La rivalità con la sorella, nella corsa a un riconoscimento non sappiamo se sociale, materno, da leggere all'interno dell'équipe... La triangolazione edipica effettivamente sembrerebbe una rincorsa ad un riconoscimento da parte di questo padre distratto e un tentativo di rifiutare ogni identificazione alla madre. Però, se questa è una struttura abbastanza leggibile, come ha, soprattutto nel momento adolescenziale, organizzato questa faccenda ? E' chiaro che solo trovare soddisfazioni nell'investimento intellettuale dell'apprendimento, dello studio, del successo scolastico, evidentemente non le è bastato, perché ha perso forse anche un anno, due, di scuola. Il modello dell'intelligenza, quella dedicata allo studio, che viene bocciata ben due volte. Qualcosa non torna. E sicuramente è intelligente. Disturbi nella concentrazione, nella capacità di proseguire un impegno nello studio, possono mostrare come questa sostituzione di un oggetto puramente intellettuale non abbia funzionato. E allora di nuovo l'interrogazione su che tentativi ha fatto di realizzare una posizione femminile, di trovare una soddisfazione coma donna. Tutto quell'andamento molto particolare del rapporto col marito, la luna di miele a Venezia, subito lasciata lì dopo pochi giorni, una ripresa un po' affannosa di un nuovo incontro sessuale col marito (il primo momento si è spento con una gravidanza abbastanza repentina), tutto questo aspetto : non realizzazione di un'identità sessuale, di un'identità femminile, è ciò che ci sarebbe da aspettarsi che una psicoterapia possa rielaborare, mettere in luce nel transfert. Secondo interrogativo, a partire da questa diagnosi che va, anche dal mio punto di vista strettamente analitico, sulla questione del disturbo di personalità, lì semplicemente interrogherei quanto c'è di possibilità da parte di questo soggetto di isterizzare una relazione. Mi rendo conto che la parola isteria è stata tolta dal linguaggio attuale della psicopatologia, comunque isterizzare nel senso di stabilire una relazione con l'altro di interrogativo su sé stesso, a partire dal desiderio dell'altro, dalla posizione dell'altro che viene colta. Quanto questo disturbo di personalità, in altri termini, tenda a organizzarsi nella modalità psicotica, o quanto invece può essere indirizzato in una modalità nevrotica. Questo, dal punto di vista dinamico, resta, nel campo "disturbi di personalità", l'interrogativo più dinamico. La seconda osservazione, derivata da questo quesito diagnostico, che evidentemente si può risolvere solo nella relazione transferale, è relativo alla psicoterapia... Bisogna aspettare, far prolungare l'osservazione, sono d'accordo... e poi una psicoterapia, una seduta alla settimana, è troppo poco. Quindi come valutare questo ingresso nella psicoterapia ? Da una parte appare che sia stato precoce, sotto vari aspetti : sia nell'invio dallo psichiatra, sia nella domanda della paziente, che una volta messa lì sul seggiolotto della psicoterapia, per cinque anni ha raccontato, con una certa monotonia, la sua storia senza inflessioni. Fino al punto in cui la dott.ssa ha osato (la prima volta non ha osato, l'ha mandata dallo psichiatra) l'intervento scarnificante dell'interpretazione e ne è venuto fuori il sogno della scarnificazione. Come valutare, in questo contesto pubblico, questa "messa" nella psicoterapia ? Non poteva essere più utile uno stand by più prolungato, che facesse maturare la domanda ? Uno stand by con dei colloqui, ma non formalizzati come psicoterapia, con un'osservazione, come qui la chiamiamo. Un'osservazione psicodinamica, ma che potesse far maturare di più una specifica domanda da parte del soggetto. Qua il soggetto non è molto domandante... lo spazio dell'interpretazione si apre forse alla fine. Quindi come giostrare una preparazione, una psicoterapia, per essere più pronti, quando ci fosse una domanda poterla fornire, la psicoterapia adeguata. Questo è anche un imbarazzo un po' dell'istituzione, di giostrare questi tempi, per cui si dà un'indicazione un po' precoce e poi dopo si lancia il sasso e si ritira la mano. |

 

Freni: Mi sembra che il primo punto, nei casi di integrazione funzionale, se per esempio lo psichiatra fosse uomo, avrebbe dato un grossissimo aiuto a ridefinire quella faccenda... quando funziona l'integrazione. |

 

C'è però un punto in cui la paziente definisce bene qual è la sua posizione.

 

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Ascoltatore: Dell'invio che lo psichiatra fa, pur confuso e tutto, il punto che non viene fermato è questo : questo soggetto che cosa sta facendo ? In fondo sta ripetendo continuamente e mantenendo la sua condizione di dominante e, se vogliamo, anche qualche fantasma aperto : studia, poi si va a prendere un uomo che è offeso fisicamente per riuscire a tenere in piedi il matrimonio e lei lo ripete su fasi diverse. Lo ripete nel senso che trova un marito alcolista e fa una luna di miele come "morte fredda". Ripete la luna di miele, quasi un tentativo di apertura, alla morte della madre... Però non riesce a uscire da questo meccanismo. Anche l'organizzazione simbolica della casa così disordinata rispecchia un po' questo disordine interno, in cui non c'è una collocazione sessuale chiara, perché è avvenuto tutto all'interno di questa dialettica, che è riuscita a mantenere anche all'interno della cura. |

 

Freni: Sembra molto interessante questo discorso, perché in realtà sembra che questa donna non entra nel transfert relazionale, ma fa continui transfert di sé ( ? ) all'interno di questa rappresentazione grandiosa, impotente... Il problema è che per poter instaurare il transfert con un soggetto, che adotta strategie sadomasochistiche per mantenere inalterata l'immagine narcisistica di sé, questo è il concetto di fondo, bisogna che il curante assuma le sembianze dell'oggetto di transfert interno e deve poterlo fare in una maniera che spiazza il soggetto - e lì è molto pericoloso, si possono fare grandi errori - perché è difficile che uno si proponga in somiglianza a, senza però scadere nel comportamento reale di quell'altro. E' lì che poi si scolla l'immaginario e comincia la dinamica. Se uno sa fare questa operazione il paziente sposta sul terapeuta questa funzione di transfert. A quel punto però uno dev'essere disposto a sentirsi trattato come quella madre orribile. Se uno sa sostenere questa posizione, a quel punto, ha la prova certa che è avvenuta questa operazione di verità. E automaticamente il comportamento nel mondo esterno cambia. E' molto difficile, però io credo che sia l'unica linea operativamente praticabile se si vogliono affrontare queste cose con molta efficacia e con una certa celerità, piuttosto che lasciarsi staticizzare per anni e anni, stare lì impotenti. Perché anziché il transfert c'è la ripetizione del sadomasochismo, dove la gente masochista diventa "i terapeuti" e la gente sadica "il paziente"... C'è una profonda differenza tra una posizione sadica narcisizzante e un'assunzione di funzioni sadiche finalizzate alla denarcisizzazione... |

 

Di Giovanni: Credo sia interessante questo contributo ultimo del professor Freni, perché potrebbe essere indicazione per caratterizzare quel tempo di osservazione per poter entrare nella cura. Effettivamente... non è un sadicizzare la cura, prendere questo ruolo, che in fondo la paziente nel suo inconscio offre. Ci sono molti tratti perversi in questo comportamento. D'altra parte quella cura che c'ha raccontato è una sadicizzazione. Non è detto che sia meglio lasciare il ruolo del sadico alla paziente invece che prenderlo noi come terapisti. Non è che il masochismo sia una cosa buona e il sadismo una cosa cattiva... il problema è come mettere una distinzione tra immaginario e simbolico, se si accoglie e addirittura si diventa attivi in una posizione che ripete il sadismo cui il soggetto è abituato, se lo ripete a livello della cura... diventa allora un agito dentro alla cura e libera la possibilità simbolica dell'atto. Diverso è se poi passa all'atto totalmente nella realtà esterna. Quindi intervenire anche con un controagito del terapista, se è maneggiato con saggezza terapeutica, quindi non nel senso di sadicizzare realmente, ma dare la possibilità perché sia un'operazione elaborabile a livello simbolico, allora questo credo che sia l'unico modo per entrare in una dinamica altrimenti che tende ad essere chiusa, perché la domanda io qui non la vedo, la domanda di analisi. E allora bisogna sbloccare questi meccanismi ripetitivi.

 

* Il cambio del carattere introduce gli interventi

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