Genio e follia

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4 ottobre, 2012 - 11:13

Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit 
(Nessun grande ingegno fu mai senza una mistura di follia)
L. A. Seneca, De tranquillitate animi

 

Nella comunità umana sono considerati geni gli individui di ingegno superiore, capaci di grandi scoperte ricordate dalla posterità. In un precedente scritto, è stata ricordata l’opera di personaggi come Isaac Newton (1642-1727), Johann W. von Goethe (1749-1832), e Vincent van Gogh (1853-1890), che hanno lasciato durevole impronta del loro genio in fisica, letteratura e pittura. Si tratta di individui tipicamente saturnini, che operavano al confine tra genio e follia, mostrando che quest’ultima potrebbe arrivare ad essere una condizione di possibilità del genio.

Vedere ciò che è nascosto ai comuni mortali può essere infatti un premio o una punizione riservata a chi è uscito dalla normalità per addentrarsi, più o meno profondamente, nei sentieri della follia.

Newton, forse il genio più grande che l’umanità abbia avuto, figlio postumo, nato prematuro, sembrava non dovesse sopravvivere ed ebbe invece una vita lunghissima in un’Inghilterra scossa da avvenimenti come la guerra civile, la decapitazione del re Carlo I, la dittatura di Cromwell e e la restaurazione della monarchia degli Stuart. Studente a Cambridge, fu, nella stessa università, professore Lucasiano a 26 anni. Rifugiatosi nel villaggio natìo per sfuggire alla peste, dal 1665 al 1667, conobbe un periodo di straordinaria creatività in cui scoprì la natura della luce, la gravitazione e il calcolo infinitesimale.

Pur riluttante a pubblicare le sue scoperte divenne presto famoso e da Cambridge si trasferì a Londra dove entrò nella Royal Society e ne divenne Presidente. Fu quindi chiamato alla direzione della Zecca di Stato e nominato Sir dalla regina Anna Stuart (1665-1714).

Grande studioso di alchimia, scrisse un commento alla Tabula smaragdina in cui sottolineava la necessità di ricercare Dio nella Natura. Il suo lavoro sulle caratteristiche della luce era l’analisi di un fenomeno fisico che era legato ad un profondo significato metafisico: la luce era un fatto naturale, ma anche una metafora di Dio e studiare la luce equivaleva per lui ad indagare la natura divina.

La filosofia naturale di Newton si fondava sull’eredità del pensiero alchemico per cui vi è eguaglianza tra ciò che sta sopra e ciò che sta sotto, ovvero tra Cielo e Terra. Il mondo naturale era espressione della presenza di uno Spirito che pervade tutte le cose del mondo, create da un "grande Alchimista", la cui opera poteva essere descritta solo in forma matematica.

Il sistema del mondo venne descritto da Newton con una combinazione delle idee di inerzia galileiana e delle leggi empirico-fenomenologiche kepleriane sul moto dei pianeti e sulla variazione della velocità del moto in funzione della distanza Sole-pianeti.

Ricavato il valore della forza centrifuga dovuta alla rotazione, egli calcolò i valori delle forze attrattive capaci di bilanciarla, cioè delle forze gravitazionali proporzionali all’inverso del quadrato della distanza Sole-pianeti. Le regole empiriche di Keplero potevano così essere giustificate da una spiegazione razionale semplice e profonda e un’unica costante universale di gravitazione regolava la caduta al suolo terrestre di una grave come la famosa mela e la rotazione della Luna attorno alla Terra.

Come diceva Maynard Keynes, Newton fu, più che il primo rappresentante dell’età della ragione, l’ultimo dei maghi babilonesi o sumeri, perchè guardava all’intero mondo come un segreto da svelare interpretandone gli indizi posti qua e là.

Tutti i lavori di Newton e, in particolare, il libro sull’ottica, sono modelli quasi archetipici di testi scientifici per la precisione delle descrizioni e la chiarezza delle argomentazioni. Il suo metodo, basato su analisi e sintesi, era quello induttivo che, con buona pace di Karl Popper, gli permise di ricavare leggi naturali di carattere universale e gli assicurò un posto di assoluta preminenza tra gli scienziati dell’era moderna.

Scienza a parte, Newton aveva una personalità difficile, una natura introversa e diffidente con tratti di paranoia e, a causa della distruzione del suo laboratorio alchemico per un incendio, subì un vero e proprio collasso psichico da cui si riprese con molta fatica.

La passione dell’alchimia accomunava Newton con un genio polimorfo quale fu Johann W. von Goethe (1749-1832), Consigliere Segreto dell’Arciduca di Weimar.

Goethe nacque quando era ancora in vita J. S. Bach (1685-1750) e fu contemporaneo di F. J. Haydn (1732-1809), di W. A. Mozart (1756-1591), di L. van Beethoven (1770-1825) e di F. Schubert (1797-1828). La sua lunga esistenza attraversò l’Ancien Régime, la Rivoluzione francese, l’età napoleonica, la Restaurazione e il primo Romanticismo.

La sua cultura enciclopedica spaziava dalle lettere classiche alla filosofia, dalla scienza naturale, intesa come biologia e geologia, alla poesia ed al teatro. Il frutto più alto del suo genio fu la tragedia Faust, che divenne uno degli archetipi dello spirito dell’Occidente.

Il nodo epistemologico del pensiero goethiano era un’idea presente nella sua opera letteraria e scientifica come quella della conoscenza quale discesa verso le Madri (Urmüttern), elementi originari quanto le Gestaltungen o processi formativi, da lui definiti "la più elevata e unica operazione della natura e dell’arte". Questa concezione denuncia la sua adesione alla Naturphilosophie romantica che lo spinse a contrastare aspramente la teoria newtoniana dei colori. Nella sua Dottrina dei colori ( Zur Farbenlehre) Goethe respinse la spiegazione di Newton per la quale la luce bianca contiene i diversi colori dell’iride che, a causa di valori diversi degli indici di rifrazione, possono essere separati da un prisma di vetro in certe precise condizioni sperimentali.

Goethe non seppe riprodurre l’esperimento di Newton ed accusò la sua spiegazione di "riduzionismo". Per il grande tedesco non si poteva infatti descrivere oggettivamente un fenomeno che era soprattutto soggettivo, mentre la spiegazione newtoniana non riusciva a far distinguere la fisica del colore da una "psicofisica" dello stesso. Goethe era troppo in anticipo sul proprio tempo poichè presupponeva un’influenza dell’osservatore sul fenomeno osservato — influenza che sarebbe stata riproposta dai quantomeccanici — e tutti gli scienziati a lui coevi gli si opposero.

Per Goethe i colori erano un effetto della combinazione di nero e bianco in proporzioni diverse e quest’idea anticipava la cosiddetta concezione del "contrasto" di M. E. Chevreul (1786-1889) che fornì il supporto teorico alla pittura impressionista.

La pittura in generale è una pratica a cui concorrono perizia artigianale, attività percettiva e capacità di elaborarne i risultati con i contributi della memoria e dell’inconscio. Essa si basa sulla manipolazione di immagini contenenti significati e valori occulti esplicitati secondo un simbolismo e con colori simili o diversi dai colori della natura.

I colori pittorici sono ottenuti da pigmenti naturali o artificiali, che sono stati diversi nelle diverse epoche ed hanno prodotto, rispettivamente, modalità di "pittura scura" e di "pittura chiara". La pittura chiara, con le debite eccezioni, si è affermata soprattutto nelle fase più estrema dell’evoluzione dell’arte pittorica coincidente, alla fine del XIX secolo, con la pittura impressionista.

Gli impressionisti erano un gruppo di pittori accomunati da certe pratiche, più che da un’estetica unitaria, in quanto usavano colori prodotti dall’industria chimica, tendevano ad evitare l’uso di miscele e ad applicare alle tele colori puri sfruttando i contrasti tra i complementari ed eseguivano solitamente i loro dipinti en plein air.

 

Il pittore che mangiava i colori

Un pittore che ha condiviso per un po’i valori degli impressionisti è Vincent van Gogh, figlio di un pastore calvinista del Brabante che solo in età adulta cominciò a praticare la pittura come attività esclusiva. Prima aveva lavorato come commesso in una libreria e insegnante in un college inglese, attraversando anche un’esperienza fallimentare come evangelista laico e deludenti rapporti sentimentali.

La sua personalità era e restò sempre quella di un mistico che cercava la comunione con Dio nella natura e la trovò finalmente nel 1888 quando si stabilì ad Arles, nel Midi.

Ad Arles trovò infatti la luce ed i colori con cui potè esprimere la propria religiosità pànica immergendosi in una natura divinizzata e dipingendo freneticamente, anche se riuscì a vendere un solo quadro. Provato dalla miseria, la denutrizione e l’alcoolismo, finì ricoverato in manicomio e la sua malattia venne definita da diversi autori come schizofrenia, depressione, epilessia, neurotossicosi da alcool e solventi (come la trementina, usata per diluire i colori e ingerita forse come surrogato dell’alcool). Ebbe vari comportamenti autodistruttivi ed autolesionistici, come il taglio dell’orecchio dopo una lite con P. Gauguin (1840-1907) e il tentativo di mangiare i colori ad olio compiuto nel manicomio di Saint Rémy. Questo tentativo poteva essere la manifestazione del suo odio-amore per la pittura, ma anche un atto simbolico corrispondente a una sorta di Eucaristia: un cibarsi di quel Dio-luce che sta nei colori.

Una lettura psicoanalitica della vicenda umana di Van Gogh, tra le tante pubblicate, definisce la sua vita "così ferocemente tormentata e la cui solitudine è stata così dolorosa, la sofferenza così profonda, la povertà così crudele, il fervore così generoso che nessuna leggenda, nessun quadro, mai, riuscirono a tradurre."

Van Gogh si spostò da Arles a Auvers-sur-Oise e lì produsse, in due soli mesi, 32 disegni e 70 quadri, prima di suicidarsi con una revolverata all’età di 37 anni. Secondo Artaud, il pittore "non si è suicidato in un impeto di pazzia, nal panico di non farcela, ma invece ce l’aveva appena fatta e aveva scoperto cos’era e chi era, quando la conoscenza generale della società, per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò".

 

La luce e il buio della mente

Se la facoltà naturale del giudizio o della discriminazione del vero dal falso, intesa come ragione, si può identificare con la luce della mente, il suo opposto, cioè la perdita della ragione deve corrispondere al buio. Nella mente di ogni individuo luce e buio coesistono e come la luce è più splendente per contrasto con il buio così momenti supremi della ragione che sono quelli del genio risplendono a confronto con quelli della massima sragione, cioè la follia.

La branca della medicina che studia la mente di coloro che hanno "perso la ragione", ovvero i folli, è la psichiatria.

Per lungo tempo la psichiatria ha tentato di adeguarsi ai modelli della medicina scientifica, ma i risultati non sono stati incoraggianti. Nel XIX secolo, la dottrina positivista sosteneva che, come il rene secerne l’urina. il cervello secerne i pensieri, eppure tutti gli sforzi per documentare al tavolo autoptico alterazioni cerebrali che "spiegassero" le diverse malattie mentali, nel quadro della cosiddetta "lesione d’organo" proposta da G. B. Morgagni (1662-1771) come causa generale di tutte le malattie, riuscirono a provare ben poco. Tutto quanto si ricavò da questi sforzi fu solo una definizione di psicosi funzionale per le malattie mentali di cui era impossibile riconoscere un correlato organico ben definito, come ad esempio quello della malattia di Alzheimer, caratterizzata dal cosiddetto "cervello a gheriglio di noce", o del morbo di Parkinson, in cui si ha la scomparsa della formazione subcorticale della substantia nigra.

Nel 1899 Emil Kraepelin (1856-1926), considerato il fondatore della psichiatria moderna, definì le due più importanti psicosi che sembravano originate da fattori psichici: la psicosi maniaco-depressiva e la dementia praecox. La dementia praecox, che E. Bleuler (1857-1939) denominòschizofrenia, venne a sua volta suddivisa in ebefrenia, catatonia e paranoia.

Negli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900 un potente metodo di trattamento di alcuni disturbi della funzione mentale venne introdotto da Sigmund Freud (1856-1939), che aveva formulato una teoria delle nevrosi e, nel 1910, aveva fondato un movimento detto psicoanalisi con cui, da allora, tutti gli psichiatri dovettero confrontarsi.

La metafora della luce e del buio presenti nella mente si può perfezionare assumendo che le quantità di luce e buio, cioè ragione e follia sono in certo senso proporzionali in ciascuno di noi: chi possiede più ragione possiede anche più follia e questo potrebbe giustificare la compresenza di genio e follia documentata in molti artisti e scienziati attraverso le età.

 

Il male oscuro del genio

Accurati studi psicologici del secolo XX hanno dimostrato che fino al 28% dei grandi scienziati ha avuto qualche disturbo psichico, dalla schizofrenia, alla depressione, alla paranoia.

Newton, Goethe, van Gogh sono tre genii di grandezza diversa, ma con alcuni caratteri in comune. Per tutti tre il problema della ricerca di Dio era centrale, anche se si trattava, in ciascun caso, di un Dio diverso. Diverso per loro era anche il carattere della Luce, emanazione di Dio, che essi avevano analizzato in rapporto ai colori, suoi costituenti essenziali.

Concordemente con l’aforisma di Seneca, parafrasato tra gli altri anche da Schopenhauer, i tre avevano personalità vicine alla linea di confine (borderline) che separa o collega follia e non-follia o la cosiddetta normalità della mente. Newton era infatti vicino alla paranoia, Goethe oscillava tra depressione e stato maniacale e Van Gogh soffriva di una psicopatia da neurotossicosi, se si vogliono usare categorie psichiatriche per definire il loro rapporto con la vita e con il mondo. Ma se Newton e Goethe erano protetti dalla loro condizione di ricchi e potenti, van Gogh era senza protezione per la sua miseria e la sua marginalità, e quindi fu l’unico dei tre a dover sperimentare la reclusione in manicomio.

Se la patologia mentale, comunque si manifesti, è il risultato di una mancanza di adattamento dell’individuo all’ambiente, le attività che questi esplica sono spesso scudi protettivi, modi di compensare il disadattamento, forse tentativi di colmare la distanza che lo separa da un Dio lontano ed indifferente. La "follia" può così essere il motore propulsivo per avvicinarsi, in modo del tutto inconscio, ad una verità apparentemente irragiungibile e in certo senso un effetto del riconoscimento di tale irragiungibilità.

Definire direttamente la follia,o per meglio dire il "male oscuro", così come definire una "normalità" mentale è praticamente impossibile ed anche un’analisi fenomenologica non permette di arrivare a definizioni univoche e perciò occorre fare uso di definizioni indirette. Se misura di normalità è la capacità di un individuo di relazionarsi ai propri simili e di interagire in maniera non distruttiva con il contesto sociale è possibile individuare alcune regole a cui egli si deve uniformare. Una rottura di tali regole è analoga ad una dissonanza non risolta in un sistema armonico tonale, o meglio è la manifestazione di un disordine che impedisce la coesistenza ordinata, mentre il protagonista della rottura o si auto-emargina o viene emarginato dal contesto sociale. Non a caso in psichiatria si usa spesso il termine musicale di tonalità affettiva.

La diade genio/follia è diventata uno stereotipo, sanzionato anche dal punto di vista drammaturgico, come ha fatto, nel 1836, A. Dumas (1802-1879) con il suo Kean ou désordre et génie. Le relazioni tra genio, pazzia e malinconia sono state illustrate con un’ampia casistica di grandi artisti dei secoli XV-XVIII, ma erano comunemente dibattute anche nell’Antichità e continuano ad essere oggetto d’interesse ai giorni nostri se, ad esempio, nel 1942 W. Lange-Eichbaum affermava che "la maggior parte dei genii furono degli anormali psicopatici". Le biografie di molti genii testimoniano nodi psicopatologici, ma non si sa se tra genio e follia vi sia una relazione di causa-effetto e non si può dire quale dei due possa essere causa dell’altro.

Quanto detto non si riferisce ovviamente a stati psicopatologici di estrema gravità (es. catatonia, autismo, schizofrenia), ma come nota C. G. Jung (1875-1961) "l’associazione simbolizzante nello psicotico diventa delirio, nel genio si fa sentire all’esterno solo come una più intensa esperienza vissuta". Anche Szasz definisce il modello del comportamento come espressione di una certa obbedienza a delle regole, mentre E. Minkowski afferma che "il comportamento nei confronto dell’ambiente diventa così uno dei principali, per non dire il principale, segno distintivo tra la schizofrenia e la follia maniaco-depressiva".

Nel caso di Goethe, egli stesso riconosce in una sua nota biografica che "poco lo differenziava da un vero pazzo" trovandosi sull’orlo della mania a causa dello sforzo di elaborare (durcharbaiten) quanto era riuscito a raggiungere trascendendo la limitatezza delle proprie forze.

Le relazioni tra i diversi tipi di malati mentali e il loro mondo, cioè il mondo della loro vita, sono state attentamente valutate dalla psichiatria fenomenologica e in particolare da Binswagner e si può dire che, in generale, l’opera di ogni genio è il risultato del suo rapporto con il mondo così come lo è la manifestazione della follia di un malato.

In fondo, l’opera di un genio si può considerare speculare al delirio di un folle, in quanto entrambe esprimono una sorta di acting out che origina dal rapporto dei due individui in questione con il mondo.

I tre genii protagonisti di questo articolo si sono occupati dei colori, intesi come dati oggettivi da Newton e come concetti soggettivi da Goethe. Con Van Gogh si arriva alla soggettivizzazione più spinta, perchè per lui il colore non si limita ad essere sensazione, ma acquista anche un significato che giustifica il suo uso da parte dell’artista. Quanto al problema di imitare i colori naturali mediante pigmenti di origine minerale, vegetale o animale, questo è un aspetto "materiale" che ha condizionato tutta la storia della pittura.

L’esempio più importante di genio folle è però il poeta latino T. Lucrezio Caro, nato nel 98 a.C., che compose la sua grande opera di celebrazione dell’atomismo materialista De rerum natura durante i suoi lucidissimi intervalla insaniae. La sua follia era stata scatenata pare da una passione amorosa o da un filtro, e T. Tasso (1544-1595), che di pazzia s’intendeva per esperienza personale, lo definì "maninconioso": probabilmente un classico caso di depressione bipolare, ma quanto fu sublime la sua capacità di penetrare gli arcani di un mondo figlio del caso, abitato da uomini che hanno prodotto la religione spinti dal proprio inutile terrore della morte!

La stretta connessione tra pensiero "normale" e anormalità è evidente in opere moderne come l’Ulisse joyciano in cui è presente l’ossessione compulsiva a ripetere, reiterare, accumulare parole e pagine, nomi di persone e luoghi, vie, eventi minimi in una spirale apparentemente senza fine di un gioco linguistico senza senso. E’evidentemente difficile definire che cosa sia la "follia" e la "normalità" come non-follia. Che la seconda sia la negazione della prima non è sufficiente, perché non dice nulla sull’essenza profonda di questi due modi di essere nel mondo.

Un aspetto forse cruciale del problema è infatti il rapporto io-mondo o mente-mondo: il rapporto è determinato dalla percezione e dall’isomorfismo tra i fatti del mondo e i fatti mentali costruito dall’esperienza. Importante a questo riguardo è la correlazione riscontrata tra sciamanismo e malattia mentale, dal momento che una delle principali capacità degli sciamani è l’accesso allo stato di trance da essi realizzato volontariamente e che i malati mentali realizzano saltuariamente e involontariamente. Negli sciamani è stata riconosciuta la presenza di uno stato psicopatologico che fa di loro degli uomini di conoscenza. Se lo sciamano è un mistico, il malato mentale è spesso un mistico mancato o meglio si possono considerare entrambi mistici-malati, ma, dei due, solo lo sciamano è guarito.

Componente importante delle pratiche sciamaniche sono tecniche di digiuno, meditazione, danze ad esaurimento, assunzione di droghe allucinogene che alterano la percezione e rivelano aspetti della realtà normalmente nascosti. Come dice Carlos Castaneda, tutto ciò che fa lo sciamano è "follia controllata" e in lui la volontà controlla la follia permettendogli di "vedere", cioè di percepire il mondo esterno indipendentemente dalle idee o preconcetti contenuti nella mente a proposito di tale mondo.

Tutto questo permette di identificare l’atto di conoscere come manifestazione della follia e di mettere sullo stesso piano l’uomo di conoscenza con il folle e la pratica del conoscere che è intuizione della vera natura del mondo come risultato finale di una visione superiore artistica o scientifica o come esito del "folle volo" dell’alienato.

 

Un fisico e il suo psichiatra

Un esemplare genio saturnino della fisica moderna è il grande Wolfgang Pauli (1901-1978) e di notevole interesse è la sua interazione con lo psichiatra-psicanalista C. G. Jung — a cui si era rivolto per una psicoterapia — che fu all’origine di uno scambio di idee e di una collaborazione significativa per entrambi.

Jung, fondatore della cosiddetta psicologia analitica o psicologia del profondo, dopo il distacco dalla scuola freudiana, studiò estesamente le esperienze "numinose", lo spiritismo e i parallelismi tra gli antichi miti e le fantasie degli psicotici. Per lui l’inconscio non si limitava ai contenuti della mente individuale, ma conteneva anche materiali di tipo collettivo. Postulò così l’esistenza di quattro funzioni psicologiche fondamentali: due razionali, come pensiero e sentimento e due irrazionali come sensazione ed intuizione.

Pauli, nato a Vienna, era figlio di un professore universitario di medicina ebreo convertito al cattolicesimo. Genio precocissimo, il diciannovenne Pauli non ancora laureato accettò di redigere la voce Relatività per lŐEnciclopedia di scienze matematiche che ebbe lŐammirazione dello stesso Albert Einstein (1879-1955). Dopo aver lavorato a Gőttingen con Max Born (1882-1970) e a Copenhagen con Niels Bohr (1885-1962), Pauli ottenne nel 1928 una cattedra a Zurigo. Dopo aver lasciata la Chiesa cattolica e divorziato al termine di un solo anno di matrimonio da una ballerina, nel ‘29 egli entrò in una profonda depressione che lo spinse a cercare l’aiuto di Jung. Rifugiatosi in USA nel 1940, restò ad insegnare a Princeton fino al rientro in Europa nel 1945, anno in cui vinse il Premio Nobel e rimase a Zurigo fino all’anno della morte. Tra i numerosi contributi di Pauli alla fisica vi è l’individuazione del quarto numero quantico, o numero di spin e poi il principio di esclusione che coronò la costruzione della Tavola Periodica degli elementi giustificando il riempimento delle orbite elettroniche disposte secondo una gerarchia di stati energetici. Ogni livello energetico può contenere solo due elettroni con spin opposti. Nel 1931 Pauli postulò che quando gli atomi emettono particelle beta essi, per la conservazione dell’energia, devono generare quelle particelle senza carica e forse senza massa che Enrico Fermi (1901-1956) aveva chiamato neutrini.Questi i dati salienti di una vita piena di altissima curiosità scientifica e filosofica, cui si può aggiungere il fatto che, pacifista convinto, in USA egli rifiutò fermamente ogni partecipazione o coinvolgimento nel Progetto Manhattan conclusosi con la costruzione della prima bomba atomica.

Inizialmente vicino al pensiero positivista, Pauli se ne distaccò per avvicinarsi al realismo, cioè al tentativo di capire e definire che cosa sia la realtà. Considerato dai colleghi, ancorchè giovanissimo, come una sorta di coscienza critica della fisica, ebbe, con Bohr e Heisenberg, un ruolo cruciale nella formulazione della cosiddetta "interpretazione di Copenhagen" della teoria quantistica. Con l’abbandono del positivismo, Pauli cominciò ad interessarsi sempre di più alla metafisica e, specie nell’ultima parte della sua relativamente breve esistenza, la sua meditazione riguardò anche la religione e il misticismo. Scriveva infatti in una sua lettera: "scienza e religione devono avere qualcosa a che fare l’una con l’altra."

Per Pauli, il miglior modo di descrivere la realtà in generale è quello che fa uso di simboli. Teorie fisiche e concetti matematici sono un modo simbolico di descrivere la realtà, ma questo non significa che essa abbia un’interpretazione logica perchè, se così fosse, andrebbe perduto qualcosa di essenziale. Vi è infatti un’irrazionalità della realtà in cui entra anche l’idea di complementarità e il conseguente limite dell’accuratezza di ogni osservazione formulato come principio di indeterminazione da W. Heisenberg (1901-1976).

La struttura della realtà del mondo sembra compatibile con l’idea di una causalità statistica non assoluta. L’interpretazione del formalismo quanto-meccanico è infatti necessariamente statistica e in questo modo è possibile dar conto dell’irrazionalità degli eventi singoli, della possibilità di scelte individuali e, in generale, del fatto che tutti i cambiamenti comportano una componente spirituale non descrivibile con un’analisi razionale.

Queste idee furono una sorta di terreno comune per il pensiero di Pauli e quello del suo psicoanalista, lo psichiatra Jung.

Nel 1952 i due pubblicarono assieme un lavoro sull’importanza della sincronicità, dell’inconscio e degli archetipi nel pensiero scientifico. Per Jung, la sincronicità era un tentativo di comprendere come qualcosa di mistico o di soprannaturale le coincidenze esperienziali, considerate come dotate di certi "significati" capaci di influenzare profondamente uno stato psichico. Vi è cioè, per Jung, un parallelismo tra la connessione costante attraverso gli effetti (causalità) e quella incidentale attraverso i significati (sincronicità). Per parte sua Pauli considerava la stretta corrispondenza tra il terminerazionale e quello del buono, così come quello dell’irrazionale con il cattivo.

Il lato mistico di Pauli emerse nell’attenzione che diede al principio alchemico della quaternità, suggeritogli da Jung come idea archetipica così che, per completare la teoria quantistica, Pauli, senza avere nessuna prova sperimentale, per definire in modo soddisfacente lo stato di un elettrone, insistette nell’aggiungere ai tre già noti un quarto numero quantico, il numero di spin.

La relazione scientifica tra Pauli e Jung si protrasse nel tempo, anche se il primo faticava a capire bene il concetto junghiano di sincronicità. Il pensiero di Jung aveva peraltro diversi angoli nebulosi e forse il rapporto medico-paziente aveva influenzato l’atteggiamento di Pauli-paziente prevalendo su quello del Pauli-fisico. D’altra parte, se si accettava l’idea che la realtà fosse una miscela di razionalità e irrazionalità, di determinismo e probabilismo, logicità e illogicità, tutto poteva esser accettato. In fondo, Jung non "spiegava" la sincronicità con la constatazione che vi sono coincidenze casuali nell’apparenza ma non nella realtà, mentre Pauli includeva nell’aleatorio tutto ciò che era privo di spiegazioni.

Strani fatti caratterizzarono la vita di Pauli: era considerato, per esempio, un potente menagramo: bastava che entrasse in un laboratorio — si racconta — perché gli apparecchi si guastassero e gli esperimenti fallissero. I fisici parlavano infatti, scherzosamente, di un "effetto Pauli" che si manifestò anche quando il laboratorio dell’Istituto di fisica dell’Università di Gottinga esplose. Si seppe successivamente che, all’ora dello scoppio, il treno che Pauli aveva preso per andare da Zurigo a Copenhagen si era fermato per cinque minuti alla stazione di Gottinga. Una sincronia, avrebbe detto Jung; una casualità significativa, avrebbe detto Pauli. Alla fine della sua vita, ricoverato nell’ospedale dove sarebbe morto, fece notare ad un amico il numero della stanza assegnatagli. Era il 137, un numero di cui si era sempre occupato perchè il suo reciproco corrispondeva alla costante di struttura fine che entra nella teoria degli spettri atomici e lega assieme elettromagnetismo, relatività e teoria dei quanti. Era cioè uno di quei numeri magici che sembrano contenere un segreto del mondo materiale, una chiave per comprendere i più profondi problemi della fisica teorica.

Forse il numero della stanza in cui il grande fisico doveva concludere la sua esistenza era una semplice coincidenza, illogica quanto si vuole, ma non priva di un significato che stava soprattutto nel suo essere la beffa finale, l’ultimo sberleffo di una vita orchestrata dal maligno Demiurgo preposto al non senso del mondo.

Per Pauli era "pericoloso" che vi fosse una netta distinzione tra conoscenza e fede, ma anche tra corpo e anima. Così, oggetto della sua meditazione furono, assieme, gli aspetti altamente matematici delle teorie fisiche, i problemi epistemologici del pensiero di Keplero e del simbolismo medievale, oltre a quelli peculiari della questione psicofisica sulla quale si confrontò con Jung.

Uno dei problemi di Pauli era la spiegazione della propria attività onirica popolata di immagini e idee fisiche, soprattutto di Hintergrundphysik o retroterra della fisica, che appariva come un continuum dell’attività pensante ordinaria: in altre parole il collegamento tra inconscio e coscienza parallelo a quello esistente tra materia e spirito.

Il discorso epistemologico e para-metafisico di Pauli è chiaramente delineato in una recente pubblicazione da cui traspare un carattere che anticipa molte posizioni attuali di fisici spinti verso atteggiamenti anti-materialisti dalla New Age e dal crollo delle ideologie. Un tentativo che merita attenta considerazione è quello del geniale fisico Erwin Laszlo che definisce l’universo come un tutto coerente, quasi-vivente, in cui tutti i componenti sono inter-connessi. Tutto quanto accade in un luogo ed in un tempo, accade anche in altri luoghi e tempi. Non si può più sostenere che tutto sia materia comparsa dopo un "big bang" e destinata a sparire dopo un "big crunch". Noi siamo parte di un cosmo integrale che è la nostra casa e questo modo di vedere si contrappone allo sconsolato materialismo del tutto casuale e senza fini ultimi sostenuto da J. Monod o S. Weinberg.

Per Laszlo l’universo è un "tutto integrale" in cui non si può distinguere il materiale dall’immateriale. La sua visione va oltre ciò che è puramente materiale poiché la nostra coscienza crea una realtà fatta di ordine dinamico, di auto-organizzazione e di coerenza interna. La coerenza è legata alla natura delle particelle fondamentali tutte interconnesse ed aggrovigliate (entangled) nello spazio-tempo. Se particelle con spin totale zero si allontanano a distanza finita esse si comportano come se ognuna "conoscesse" lo stato dell’altra. Tra loro vi è una connessione non-locale e tale fenomeno si estende agli atomi, molecole, cellule, organi e corpi viventi. Tutto questo viene adottato come giustificazione degli stati di coscienza alterata, percezione extra-sensoriale, telepatia ed idee junghiane di inconscio collettivo. Tutto si basa, sempre secondo Laszlo, su un campo onnicomprensivo (A-field) che collega ogni cosa e che ha qualche analogia con l’antico concetto di "etere". La sua riformulazione in termini attuali si riconduce al concetto di "vuoto quantistico" all’origine delle connessioni tra spazio, tempo e cose esistenti in un metaverso, o sistema olografico generatore di universi in cui il presente è legato al passato e al futuro e ogni cosa che accade lascia un "segno" permanente. La voce di Laszlo è suadente soprattutto quando tenta di comporre lo scontro tra razionalità e irrazionalità proponendo un paradigma "ragionevole" in cui può trovare posto tutto.

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