ELEPHANT- di Gus VAN SANT (USA 2003)

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3 ottobre, 2012 - 17:25

Una possibile chiave di lettura del film puo’ scaturire dal titolo apparentemente criptico. Riprende quello di un documentario di Alan Clarke del 1989 per la BBC sui conflitti tra protestanti e cattolici nell’Irlanda del Nord, dove si fa riferimento alla parabola buddista de "l’elefante nella stanza" in cui un cieco cerca di risalire alle caratteristiche somatiche di un elefante toccandolo ma non riuscendo a individuare che parti, scambiando per esempio la proboscide per un serpente, una zampa per un albero, non arrivando quindi a un valido benche’ immaginativo quadro d’insieme. Come interpretare questa scelta di Van Sant? Due ipotesi: secondo la prima si tratterebbe della metafora della rimozione e della poverta’ di analisi di televisione, famiglia e societa’ (e, perche’ no, delle lobbies americane delle armi da fuoco!) riguardo alla strage nel liceo di Columbine, negli USA, da parte di due studenti, a cui il film e’ ispirato; per l’altra l’"elephant" sarebbe quella stessa gioventu’, coeva dei due assassini, della quale non riusciamo a cogliere che semplici frammenti (forse i "frammenti" delle diverse prospettive individuali che il film ci presenta) ma di cui ci e’ ardua una comprensione totale. E’ probabile che entrambe abbiano qualcosa di vero.

Gus Van Sant torna con questa pellicola allo stile che era stato proprio del suo cinema indipendente (Drugstore CowboyBelli e Dannati), dopo le meno brillanti esperienze con le major hollywoodiane (Genio RibelleScoprendo Forrester), e cioe’ a un lavoro realizzato in soli ventuno giorni di riprese, con giovani attori non professionisti, con un uso massiccio di steadycam, morbidi e plastici piani-sequenza, sfondi sfocati e suggestivi "ralenti" che conferiscono al film un’atmosfera di normalita’ estraniante e quasi alienata che sembra presagire l’imminente esplosione di violenza.

Il film procede in bilico tra trasfigurazione poetica e cronaca quasi asettica, tra fiction e forma documentaristica, testimoniata dagli insistiti, prolungati "pedinamenti", da parte della macchina da presa, dei giovani che da li’ a poco saranno vittime o attori della furia omicida. E gia’ da subito i lunghi e gelidi corridoi del liceo, il sonoro confuso con avvicendamento di voci in primo piano, gli incroci fortuiti tra i ragazzi colti attraverso visuali individuali diverse e simultanee, il "contrappunto" musicale del Beethoven di "Per Elisa" e della sonata op. 27 "Chiaro di Luna", sembrano creare un’unica, grande prospettiva spettrale in cui quello che in realta’ vediamo e’ gia’ un liceo deserto e insanguinato, in cui coloro i quali vediamo muoversi e incrociare altri individui sono gia’ morti che camminano, sono "cronache di morti annunciate".

E’ bene dire che molte delle soluzioni tecniche adottate da Van Sant non sono nuove: il simultaneismo dei diversi punti di vista rispetto allo stesso frammento spazio-temporale (quello che precede la "via finale comune" della violenza e della morte), la didascalia che presenta il nome dei ragazzi dei quali assisteremo di li’ a poco alla tragica fine, sono presenti gia’ nel Quentin Tarantino di "Pulp Fiction".

Si tratta comunque di un film stilisticamente pressoche’ perfetto, volutamente minimalista, fatto di lucide ma inquietanti istantanee, che si astiene almeno apparentemente sia da un atteggiamento apertamente "diagnostico", sia da una presunzione "prognostica" e giudicante. Per cio’ stesso l’opera e’ stata da alcuni accusata di mostrare un punto di vista algido e non compromissorio.

In realta’ le ipotesi "eziologiche" di Van Sant, a veder bene, ci sono, seppure accennate con una sorta di rigore "documentaristico": pensiamo alla scuola ritratta come un luogo freddo e fantasmatico, a genitori ubriachi e latitanti ai quali sono i figli a dover fare da balia, alla frustrazione di due ragazzi omosessuali emarginati nel contesto scolastico che si trasformano in spietati assassini, al riferimento esplicito alla suggestione e alla spettacolarizzazione della violenza che passano attraverso i media (il programma su nazismo e Hitler guardato dai due prossimi sterminatori in televisione e il videogame in cui si spara ad omini che porgono le spalle cosi’ come fanno i ragazzi rispetto alla macchina da presa che li tallona nella prima parte del film), in quest’ultimo caso forse addirittura rischiando di scivolare nell’esemplificazione sociologica, nella formula esplicativa, certo proposta con discrezione, ma rischiosamente "facile" rispetto al registro asciutto e antispettacolare del resto della pellicola.

Per quel che riguarda un punto di vista piu’ strettamente psicopatologico, le ipotesi che dopo il film rimangono in piedi sono diverse. Disturbo antisociale di personalita’? Disturbo paranoide di personalita’? Paranoia? Folie a’ deux? Esordio di schizofrenia paranoide? E quindi, in senso jaspersiano, processo, sviluppo, reazione? Non ci pare che il film fornisca a riguardo elementi che possano farci con sicurezza decidere fra queste condizioni morbose, anche se sembrerebbe facile "leggere" nella rappresentazione dei due assassini la formula schneideriana della sociopatia.

Palma d’oro a Cannes 2003 per il miglior film e premio per la miglior regia, risultato finora appannaggio del solo "Barton Fink" dei fratelli Coen, "Elephant" mantiene lo spettatore in uno stato d’inquieta, stordita sospensione, partendo dall’immagine dei titoli di testa in cui un palo della luce simile a una forca si staglia su uno sfondo di nuvole in rapido e minaccioso movimento, passando attraverso gli estranianti piani-sequenza che c’introducono gli scenari della violenza, fino ad arrivare alla scena finale in cui anche un’assurda esecuzione e la morte di due ragazzi vengono lasciate in sospeso come la nostra comprensione, come la nostra ansia di "costringere" in una categoria diagnostica o in un modello sociologico cio’ che appare profondamente perturbante e assurdamente sfuggente. Come un cieco di fronte a un elefante.

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