I diari della motocicletta: i due viaggi di Ernesto Fuser e del Che
"bisogna rinunciare, uscendo dalla sala d'aspetto, a ritrovare
subito la stanza familiare dove si era un attimo prima.
( Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore)
"E’ per questo che hai fatto il dottore? Perché eri nato malato?" In sostanza, Silvia intuisce che un viaggio nasce sempre da una specie di malattia che ti spinge verso una irraggiungibile soluzione (Chatwin). Avrei preferito che non ci fosse risposta, perché questa non è affatto una domanda. Ma Ernesto Fuser è anche il Che e per gli eroi il destino è scritto sin dall’inizio: "Forse!… Quello che ricordo è che la prima parola che ho imparato è stata "iniezione". L’eroe in realtà mi impediva di seguire una storia semplice "la storia di un segmento di due storie che per un tratto si sono incrociate".
Il viaggio, come ogni viaggio comincia da una stazione oltre la quale c’è una perdita: "vuoi che ti dica che rimarrò ad aspettarti qui fino al tuo ritorno? È un’eternità!" "quanto è un’eternità?"
Non so se si tratta di un buon film o meno. So solo che a me è servito a stare con mio figlio mentre ero nel cinema e a sognare quando sono uscito dalla sala. So che ho visto immagini bellissime di posti incredibili toccati da una luce sconosciuta che fa pensare al vetro o al ghiaccio. So che nella prima parte si celebra la "Poderosa" e si cerca di suggerire l’eroe che sarà: una sensazione ammiccante, sottolineata dalle cadute e dai guai della Poderosa e dalle crisi di asma: un viaggio che rimane nelle cartoline spedite a Buenos Aires. Ma dietro ci sono i paesaggi bellissimi e cominci a pensare che sarebbe bello essere lì. Appunto! Voler essere lì! Un viaggio per andare in un posto che puoi solo immaginare oppure un viaggio per trovare ciò che nemmeno immagini? Mi viene in mente, quindi, una citazione di Bachelard che ho appena letto da Hilmann: "l’immaginazione non è la formazione delle immagini. Essa è la loro deformazione".
Le immagini che il film suscita, e quella sottile insofferenza che ho provato nella prima parte e poi alla fine, diventano più chiare. In realtà si tratta di due tipi di viaggio. Nel primo c’è il viaggio "scaramantico" ovvero il progetto di raggiungere qualcosa che hai ben chiaro e che conosci bene: il solo modo per celebrare un rito. La meta è solo distante, ma tu conosci perfettamente il percorso e le distanze; sai in quanto tempo potrai coprire quei 20 mila chilometri e lì potrai festeggerai il tuo trentesimo compleanno. L’altro viaggio comincia proprio quando verifichi che è impossibile ripetere quello che hai già fatto e che conosci. Forse quella che filosofi e psicologi chiamano forza vitale è quella serie di situazioni che in un modo o nell’altro, senza saperlo, determini e che ti costringono a non poter più seguire il progetto stabilito.
Mi sono divertito un giorno di qualche mese fa quando, mentre ero nella segreteria di una clinica privata, vedo irrompere una paziente che chiede la sua quota di soldi quotidiani. La segretaria le risponde che dovrà aspettare il pomeriggio "perché quella è la regola!". La paziente si arrabbia e sostiene che lei se ne frega delle regole e che i soldi le servono ora! Sbraita ed inveisce, ma la segretaria non le dà più retta. A questo punto rivolgendosi non più alla segretaria, ma ad un ipotetico pubblico in quel momento rappresentato solo da me e, guardandomi di sfuggita come si fa al pubblico vero, esclama: "voglio conoscere quale sia il mio progetto terapeutico… è un mio diritto!" Ho pensato al boomerang: mille psichiatri illuminati dovevano averle prospettato la meta e il percorso, ma lei stava invitando me e la segretaria ad un viaggio differente. Io e la segretaria abbiamo continuato certi della nostra meta!
Il vero viaggio comincia quando non puoi più seguire il percorso stabilito e sei in ritardo sulla tabella di marcia: non ha più senso affannarsi, tanto quelli del posto sono più capaci di te a salire le montagne a piedi e Alberto può solo esclamare che "è inumano!" Allora cominci a dover fare i conti con la gente del posto di cui cerchi di capire le ragioni, mentre fino ad allora cercavi di derubare del cibo, dell’ospitalità e delle donne: "Irene è un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia" (Calvino).
I due viaggi sono segnati dalla "Poderosa". Con il tuo mezzo potente puoi muoverti fra mille insidie e difficoltà: la Poderosa riuscirà ad evitare che tu possa fermarti troppo a lungo per conoscere fino in fondo quello che succede veramente. Corri nei territori sconosciuti, c’è la neve, le pozzanghere; puoi spingerla se non riesci a farla camminare, ma ti permetterà sempre di rimanere a sufficiente distanza da quello che incontri: quello che vedi senza conoscere. Non a caso il secondo viaggio comincia proprio quando si dà l’addio alla Poderosa: si chiede un passaggio ad un camion e questa volta gli incontri sono su un terreno comune che non ha più distanze: "siete padre e figlio?" chiede Fuser ai due viandanti che viaggiano con loro insieme ad una mucca: "quella mucca sta per diventare cieca!…". "Tanto a che le serve? Così almeno non vede quello che succede!".
In questo secondo viaggio i due vedono bene quello che succede e non immaginavano affatto che avrebbero conosciuto: la coppia di contadini comunisti che scappano dalla loro terra perché ricercati dalla polizia. Solo ora Ernesto cederà i dollari che Ciccina Ferreiro gli aveva affidato perché le comprasse un costume negli Stati Uniti e, soprattutto la lebbra, anzi i lebbrosi. Ma non doveva essere un viaggio con una meta e un tempo precisi? "Ernesto, non sono nato l’8 aprile, ma l’8 agosto! Non te l’ho detto per metterti fretta!" Nessun viaggio può finire quando hai deciso che finisca. Bisogna che nessuno si rassicuri sapendo di avere il tempo giusto perché il tempo giusto è quello nostro insieme al tempo di quelli che incontriamo; altrimenti non è un viaggio, ma è una vacanza e le vacanze sono state inventate per fermarsi, non per viaggiare: "lo sapevo, Alberto, l’ho sempre saputo"
Un viaggio è sempre verso una zona che conosci, ma quando va bene finisce sempre da un’altra parte; il viaggio forse è solo una scusa per potersi perdere, un raffinato dispositivo perché nuovi oggetti, benevolmente, ci vengano incontro e ci trovino mentre li stiamo cercando. In fin dei conti, neanche tanto tempo fa, fu l’America a trovare il suo scopritore mentre si era perso.
L’esordio schizofrenico di Luigi è venuto dopo un viaggio fatto in Olanda con un amico all’età di 18 anni. Entrambi erano partiti seguendo la diffusa illusione dell’Olanda come paese libero e permissivo rispetto alla sessualità, ma una volta ad Amsterdam riconoscono che comunque vi sono inevitabilmente le difficoltà del necessario processo di approccio all’altro sesso. L’amico di Luigi, a questo punto — cogliendo le sollecitazioni al cambiamento indotte dalla realtà — si reca da una prostituta, mentre Luigi non può tollerare un’altra meta — differente da quella già decisa - e torna a Roma deluso e sconfitto. Poco dopo presenterà una bouffée delirante persecutoria con temi di influenzamento del pensiero.
Insieme ai lebbrosi Alberto ed Ernesto ora incontrano padri e maestri, necessari in un viaggio che non sai dove ti porterà. Incontreranno la sofferenza e, insieme, gli affetti e la riconoscenza. Diventerà duro proprio ciò che prima era la sicurezza: "lo vedi il fiume? Il fiume separa i sani dai malati!" Anche la madre superiora appartiene alla regola del fiume; bisogna mettere i guanti se si va sull’isola di S. Pablo e solo se vai alla messa potrai mangiare alla mensa: "Io non ho visto nessun regolamento….ho tanta fame che il regolamento lo mangerei se lo trovassi!" Il fiume che separa i malati dai sani può essere annullato da un atto estremo: un altro viaggio questa volta il sogno giovane di un asmatico che può nuotare fra le due isole per togliere le distanze, quello che nessuno aveva mai fatto prima. Ma questo è il Che, distante dall’amico di Luigi che sognando le donne trova una prostituta, né è Luigi che si perderà nella paura. Ma forse i miti servono per sognare (Bion: la fila C della griglia) come per farti procedere nel viaggio; sono una meta messa lì per fare in modo che ci si possa perdere verso una propria meta. Dò uno sguardo a mio figlio e all’amico che è con lui e sono certo che nel loro viaggio Ernesto Fuser diventa continuamente il Che.
Il film ha un certo calo quando, soprattutto alla fine indulge a celebrare il futuro eroe ("ho visto molte cose che non vanno, su cui dovrò meditare… c’è molta ingiustizia!"), ma ogni vero viaggio cambia sempre la vita di chiunque. Io, lascio subito il futuro eroe e ritrovo il segmento di vita in cui si incrociano due vite. Il segmento ora segna una divaricazione e forse è più facile prendere il volo con Ernesto lasciando Alberto alla sua vita stanziale quando ha ricevuto la lettera che lo convoca all’ospedale di Caracas: "Cosa devo fare? dici che devo accettare? Mettere la testa a posto: una fidanzata, i figli, la pancetta?" Alberto rimane a Caracas; non è più avventuriero. Poi, però siamo rassicurati dalle scritte finali che ci comunicano che i due si ritroveranno dopo pochi anni a L’Avana: Alberto che continua ad abitare le città, Ernesto che continua all’infinito il viaggio. Commuovono le riprese finali che vogliono imitare improbabili fotografie di momenti della storia, un po’ meno le vere fotografie dell’epoca del vero viaggio. Ho pensato che tanta è la paura del viaggio quando ci sei dentro, quanto la commozione di sapere nelle foto che quel viaggio ti è appartenuto. Ho pensato che forse le foto sono quell’esperienza necessaria di sapere che qualcuno — che non eri tu — ti ha visto mentre eri in viaggio. Essere visti per come siamo è un altro scopo del viaggio.
Mio figlio sta per avere 13 anni e sa molte cose su Che Guevara, forse sui sogni dei suoi genitori, ma per fortuna sa tante altre cose su Eminem che, forse senza di lui non avrei mai conosciuto. Uscendo dal cinema gli ho chiesto se gli era piaciuto. Mi ha risposto con una domanda, un sospetto: "Ma Che Guevara era malato?". E’ valsa la pena venire al cinema. Sono i suoi viaggi.
(*) pubblicato anche su www.istitutoricci.it