"L’enfant — una storia d’amore " di Jean-Pierre e Luc Dardenne (Palma d’Oro a Cannes, 2005)
Piu’ che di una recensione, scrivo queste righe per invito alla visione.
Mi rendo conto di essere, diciamo, di parte. Ma "L’enfant" dei fratelli Dardenne e’ un film di cui, non a torto, Tullio Kezich sul Corriere della Sera ha scritto che verrebbe la voglia di considerlo un film epocale.
Ora, quando un film e’ epocale? Forse quando unisce la visione del reale - cosi’ per come la realta’ e’ davvero per le persone - a quella certa poetica che ci fa distinguere un film da un altro, o meglio un film di quelli che entreranno nel nostro bagaglio poetico da quelli che magari ci hanno divertito o intrattenuto ma non hanno mosso niente dentro di noi.
Jean-Pierre e Luc Dardenne nascono in Belgio, nel ’51 e nel ’54; uno studia arte drammatica e l’altro filosofia e solo successivamente si incontrano per fare cinema. Prima di approdare al cinema, producono pero’ documentari e fondano una casa di produzione. Sembra che la loro scuola sia dunque l’osservazione della realta’, e I loro maestri (come loro stessi dicono in un’intervista dopo il premio di Cannes di quest’anno, 2005) restino Rosseliini e Pasolini, di cui hanno studiato a fondo la filmografia. Ne "L’enfant", in effetti, c’e’ il segno inconfondibile di "Accattone" e di tutto il neorealismo italiano, ma a mio parere c’e’ anche il tocco leggero di Truffaut, che ritroviamo in quell’adolescente, o tardo adolescente, scarmigliato e fiero che e’ Bruno, il protagonista.
La storia e’ semplice. Bruno e Sonia, piu’ o meno ventenni, poveri, che vivono di espedienti e piccoli furti, hanno un bambino, che chiamano Jimmy.
Il piccolo Jimmy, l’enfant, e’ capitato li’, tra loro, incolpevoli ma privi di consapevolezza e di risorse, la loro giornata e’ un tirare a campare e, soprattutto per Bruno, un continuo cercare di sottrarsi alla responsabilita’ e alla giustizia. Potrebbe lavorare, ma considera il lavoro da "coglioni". Ha una madre, ma che non sembra volerne sapere di lui. Gli dicono che ci sono coppie disposte a pagare per avere un bambino in adozione, e Bruno senza pensarci su fa in modo di riuscire a vendere il piccolo Jimmy. Ma qualcosa non funziona, fuori e dentro di lui: Sonia non accetta questa iniziativa e cerca di lasciarlo, la banda dei venditori di bambini torna a cercarlo per minacciarlo, e Bruno si ritrova del tutto solo. A dare il colpo finale, uno scippo non riuscito con un ragazzino di cui Bruno e’ il capobanda, che rischia di morire assiderato nella fuga in un fiume, e che infine Bruno va a discolpare, ammettendo il reato e finendo lui stesso in prigione.
La trama non pare di alcuna importanza. Siamo calati nella mente di Bruno, lo seguiamo con la macchina da presa mentre insegue il suo profilo dolente e inquieto, le sue camminate solitarie in una qualunque periferia di una qualunque citta’ europea, sentiamo la sua desolazione e la sua paura in ogni attimo della storia. Non ci sono, come e’ tipico del cinema dei Dardenne, sentimentalismi o buonismi, e tuttavia proviamo sentimenti lungo tutto il film, fino al pianto finale di Bruno e Sonia, liberatorio e, finalmente, infantile.
Gia’ vincintori della Palma d’Oro a Cannes nel 1999 per "Rosetta", I fratelli Dardenne dicono di avere avuto l’iniziale idea sul film mentre giravano "Il figlio" nel 2002. In tutti questi film, e’ mirabile come I Dardenne riescano a calarsi e a riprendere il volto vero di una certa adolescenza, quella diAccattone o di qualche personaggio di Ken Loach. Adolescenti bambini (tutti, nel film, sono in fondo bambini) ma che al tempo stesso hanno dovuto crescere in fretta, privi di adulti che non siano vessatori o burocraticamente inquisitori (gli assistenti sociali, la polizia), non sufficientemente amati dai loro genitori, a loro volta vittime della poverta’ e del degrado. E tuttavia adolescenti ribelli, che rifiutano gli aiuti, quelli che noi chiamiamo un po’border, un po’ antisociali, quelli che Winnicott vedeva come portatori ancora di una seconda possibilita’, bisognosi di una seconda chance: I bambini deprivati.
Senza retorica, senza giudizio, senza indugi in inutili violenze, I fratelli Dardenne riescono a parlare dei bambini deprivati con la stessa struggente umanita’ con cui Ken Loach racconta gli operai che perdono il posto per le privatizzazioni, o con cui Pasolini descriveva I ragazzi di vita delle periferie del suo tempo.
Non c’e’ in fondo differenza. Si tratta di racconto del reale narrato attraverso la poesia. L’attore Jeremie Renier (che gia’ lavoro’ con I Dardenne ne "La promessa") e’ eccellente nella parte: il suo corpo esile e giovanile, I suoi foruncoli e il suo sguardo pensoso ci accompagnano per tutto il film, costituendo il vero Io-narrante del filo della storia.
Il film non e’ privo di speranza. Sembra che Bruno accolga un primo cambiamento dentro di se’ quando la sua ragazza non lo vuole piu’ per quello che ha fatto, la vendita dell’enfant, cosa della quale lui non aveva inizialmente alcuna consapevolezza ("ne faremo un altro, cosa importa"). Quando poi ritrova Steven, l’amico ragazzino, suo complice, arrestato, quasi morto dal freddo, avvolto in una coperta, riesce ad ammettere di essere lui il capo, lui il colpevole, prendendosi cosi’ indirettamente cura del ragazzino e accettando di pagare per la sua responsabilta. In questo passaggio, Bruno accetta potremmo dire un inizio di adultita’, quel primo sentimento di responsabilita’ che ci fa uscire dall’onnipotenza infantile e ci fa entrare doloranti nel mondo dei grandi.
Sonia e’ li’ con lui. L’enfant e’ stato veicolo, inconsapevole, di una maturazione. E’ dunque anche una storia d’amore, come recita il titolo per intero: quella tra Bruno e Sonia ma anche quella tra questi due bambini emarginati e il loro bambino, una storia che come tutte le storie d’amore non e’ gia’ scritta all’ìinizio, ma si costruisce nel tempo.
Si dice che il cinema dei Dardenne sia un cinema sociale. Sebbene cio’ sia incontestabilmente vero, io credo sia una definizione riduttiva. I Dardenne sembrano conoscere l’arte del cinema nelle sue maglie piu’ sottili, e con la cinepresa esplorano non tanto il sociale in quanto tale, ma il reale entro cui una certa fetta del sociale trova luogo, quella degli emarginati delle periferie urbane, soprattutto ragazzi e ragazze. I figli perduti del mondo. Il cinema dei Dardenne vince I premi perche’ tocca il cuore, e tocca il cuore perche’ non si limita a fotografare il reale, ma lo narra attraverso un personale tocco di poesia. Sociale, reale, psicologico e squisitamente affettivo sono codici tutti presenti e armoniosamente intrecciati nella vicenda di Sonia e Bruno.
La societa’ e’ rappresentata, piu’ che criticata: la vita brutta dei personaggi de "L’enfant" e’ brutta in quanto tale, non c’e’ giudizio. Il microcosmo di Sonia, Bruno e dei loro amici non si contrappone a qualche cos’altro di ipoteticamente migliore, ma e’ un mondo a se’ con le sue leggi, le sue ansie, le sue priorita’ e I suoi codici. E’ un mondo in cui si spendono poche parole, in cui spesso si mente (come fa Bruno quando lo polizia lo ferma per la vendita dell’enfant), dove racimolare il bottino per ogni giornata e’ fine a se stesso e atto completo in se’, ne’ buono ne’ cattivo.
E’ il sopraggiungere della coscienza a cambiare le carte in tavola; un cambiamento interno e non un cambiamento esterno, percio’ appare riduttivo il solo paradigma del sociale. Non e’ la societa’ a modificarsi, non e’ l’ambiente intorno ai personaggi che cambia, ma e’ l’accesso alla coscienza personale, quel particolare movimento interno nell’animo di Bruno che modifichera’ il corso delle loro esistenze.