"A History of violence" di David Cronenberg
Il tema della violenza ha ormai un’importanza centrale per la psichiatra contemporanea. Il nodo fondamentale del problema è la definizione del confine tra normalità e patologia. A tale proposito ricordo che questa questione è al primo punto nel convegno della SOPSI del 2006. È uscito inoltre recentemente un corposo volume monografico su questo dilemma fondamentale non solo sotto il profilo psicopatologico, ma in senso ampio culturale.In questo volume Pancheri cerca una definizione partendo da un ottica psicobiologica, mentre Rossi in un ricco intervento cerca di comprendere la violenza secondo un modello psicodinamico, costruendo una psicopatologia "shakespeariana". Ambedue pur partendo da presupposti molto distanti tra loro sono uniti nell’intento di offrire una strutturazione psicopatologica ai comportamenti aggressivi.
Un contributo alla ulteriore analisi di tale tema lo fornisce " A History of Violence, una storia di violenza di David Cronemberg. Il regista canadese è un maestro di violenza e di follia, temi ricorrenti nelle sue opere. Curiosamente questo è un film che ha avuto un buon successo, anche in Italia e caso unico per film di qualità, il consenso di pubblico è maturato nel periodo natalizio.
La storia è tratta da un fumetto di John Wagner e Vince Locke: un padre di famiglia Tom Stall (un bravo Viggo Mortensen) gestisce un bar nella cittadina di Mellbrook, Indiana. Ha una (bella e politicamente corretta) famiglia, con moglie avvocato e due figli, tutti avulsi da qualsiasi forma di violenza. Vive senza grandi soddisfazioni, ma sembra sereno e tranquillo. Piccoli particolari rendono meno banale la sua vita: la moglie per eccitarlo si veste da teen ager e il figlio adolescente è incapace di affrontare i coetanei e viene continuamente umiliato e lo sguardo di Tom sembra costantemente spaesato. Un giorno entrano minacciosi nel suo bar due teppisti, che abbiamo visto nel prologo del film, come dotati di una violenza gratuita e devastante. Per difendere una dipendente Tom li uccide con inaspettata competenza. La televisione fa di lui un eroe nazionale, ma questo provoca la visita di un gangster interpretato da un eccezionale Ed Harris, il cui volto deturpato sotto gli occhiali neri può essere visto come una metafora della ambiguità dell’apparire e dell’occultamento delle lacerazioni deturpanti ( non solo fisiche). Il gangster chiama Tom con un altro nome, Joey, e si ostina a dire che è un’altra persona: un killer spietato che anni fa lo aveva sfregiato. Poco per volta mentre emergono nuovi particolari che confermano la doppia natura di Tom e di conseguenza si sfalda la armonia familiare e si rivela una vita precedente tenuta nascosta. Tom non sembra bugiardo nel negare l’evidenza di questo passato che ritorna e questo crea un disagio nei familiari e spaesamento negli spettatori. L’aggressività emerge progressivamente in tutta la sua forza con una catena di omicidi, esteticamente belli, quasi come i duelli dei recenti film di Tarantino. In un crescendo di uccisioni emerge la vita precedente e Tom e Joey si ricompongono in una identità unica e coesa, ma ben più conturbante. Poi tutto si normalizza, come se nulla fosse. Nella scena finale la famiglia siede a tavola e mangia in silenzio, muta, ma unita.
La tesi di fondo di Cronenberg è che la violenza fa parte della natura umana e che ogni tentativo di vincere questa "malattia" universale rimane un sogno; cercare di dividere gli uomini in aggressivi e ragionevoli è un’opera destinata al fallimento. La linearità del film nega in maniera netta lo statuto di malattia alla violenza, anche se gratuita e non finalizzata. Questo aspetto riguarda noi psichiatri e ritorniamo al problema iniziale dibattuto da Rossi e Pancheri: esiste una definizione psicopatologica della violenza ? È categoriale o dimensionale e comunque è un sintomo psichiatrico? Pancheri azzarda una ipotesi correlando l’aggressività al concetto di dimensione psicopatologica, identificata dai vissuti e dai comportamenti che hanno poi la massima espressione nella violenza conclamata. Rossi distingue dalla violenza patologica quella nevrotica e descrive meccanismi di sublimazione, messi in atto dagli individui per renderla socialmente accettabile.
Cronenberg contesta queste tesi descrivendo in Tom/Joey un individuo serenamente scisso e ben adattato sia alla vita tranquilla che alla più feroce espressione della aggressività. In tutto il film Tom fa una breve accenno al passaggio da killer a barista ("ci sono voluti anni per diventare quello che sono ora") che nulla toglie alla sua rapida e perfetta aderenza al vecchio ruolo. Anche rispetto a interpretazioni psicodinamiche la distanza è abissale. Non sappiamo nulla del passato di Tom e in un incontro con il fratello emerge unicamente una differenza sostanziale tra i due. Richie, il fratello ricco, ha fatto fruttare al meglio la sua aggressività, mentre Joey è un puro o meglio l’aggressività non ha una valenza utilitaristica. Questa purezza e l’estraneità a un discorso di utilità economica o sociale lo rende ancora più sconcertante. La storia di Tom dovrebbe spingere l’autore a una qualche forma di interpretazione diagnostica (matto/delinquente), ma Croneberg non lo fa e ci lascia nell’incertezza più profonda. È ricca di significato questa presa di posizione in un autore che nel film precedente, Spider, aveva dato una spiegazione psicodinamica della schizofrenia. Ne era risultato un film, discontinuo, bellissimo nella sua cupezza, che induceva riflessioni profonde sulla problematica della verità e della narrazione come interpretazione della malattia mentale. Le spiegazioni allora erano molteplici che si intersecavano come in una tela di un ragno. In "a history of violence" invece non ci sono spiegazioni, ma una descrizione da entomologo del comportamento umano. Questa impostazione mette in crisi la nostra propensione a trovare significati, nessi di causalità, scansioni temporali nella storia della "violenza". Mi ha fatto pensare per contrasto all’accanimento con cui talora i giudici chiedono perizie psichiatriche per "accettare e spiegare" i delitti più angoscianti e non si arrendono di fronte a risposte negative.
Vi è in Cronenberg un rifiuto di una interpretazione psicopatologica e come conseguenza una convinzione che anche i tentativi di cura ( o di sublimazione) sono destinati al fallimento. La violenza è come una belva, apparentemente addomesticata, ma pronta a esplodere con stimoli appropriati. Quindi i vari stili di vita e meccanismi di difesa sono rimedi transitori e inefficaci, perché è molto più eccitante essere aggressivi. La conclusione che infatti traspare è sulla maggior adeguatezza della violenza alla società contemporanea. Se Tom non fosse in grado di reagire, avremmo avuto una carneficina nel suo bar, il figlio sarebbe lo zimbello del liceo e lui sarebbe un cittadino medio, frustrato e sessualmente opaco.
Prima di fare diagnosi di comportamento esplosivo intermittente o di prescrivere farmaci per la violenza meditiamo su questo film. Cronenberg in conclusione ci offre un bel tema su cui riflettere.