GALASSIA FREUD
Materiali sulla psicoanalisi apparsi sui media
di Luca Ribolini

Giugno 2013 IV - Libertà (varie) e letteratura

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5 luglio, 2013 - 07:37
di Luca Ribolini
L’amara solitudine del Grillo
di Francesco Alberoni, ilgiornale.it, 24 giugno 2013
 
Nel libro Psicologia delle masse a analisi dell’Io, Freud spiega che le folle, le masse e i partiti si formano quando tutti si identificano con una sola persona, il capo. Dopo di che si identificano orizzontalmente fra di loro. Molti sociologi ancora oggi spiegano in questo modo la formazione dei movimenti collettivi. Questo modello sembra tagliato su misura per il Movimento Cinque Stelle, dove Grillo è il capo carismatico, l’unico ammirato ed amato da tutti i suoi seguaci, che comunicano continuamente fra di loro e con lui attraverso il web.
Ma la teoria di Freud è sbagliata e non può spiegare il formarsi di strutture sociali durature. Lo dimostra il fatto che milioni di persone possono identificarsi con un divo (attore, cantante o calciatore) ma poi non formano una comunità. Il movimento collettivo che genera un partito, invece, si forma dal confluire di migliaia di persone che si incontrano, discutono, si abbracciano, si amano e, animati da una fede ardente, progettano una società futura. Essi si riconoscono nel capo carismatico perché dà voce alle loro speranze, ai loro sogni. Egli vive in mezzo a loro. Sceglie fra di loro i suoi più stretti collaboratori, i suoi ufficiali e, insieme, coloro che potranno poi diventare parlamentari o ministri.
Grillo invece non ha creduto all’importanza dei rapporti umani personali, delle emozioni, dalla vita in comune. Ha puntato sul web. L’unico contatto fisico con i suoi militanti lo ha avuto sulle piazze e nello Tsunami tour. E, nel corso degli anni, non ha raccolto attorno a sé dei luogotenenti capaci e fedeli con cui organizzare il movimento. I suoi militanti hanno eletto i parlamentari col computer, senza conoscerli. E neppure lui li conosce, non sa chi siano, non se ne fida.
Grillo, nonostante abbia migliaia di seguaci, è assolutamente solo, senza nemmeno un gruppo di amici competenti e fidati che lo aiutino a gestire il partito e ad avere rapporti con il resto del sistema politico. È perciò costretto ad occuparsi di tutto e di tutti, correndo da una parte all’altra. Finché potrà.

http://www.ilgiornale.it/news/interni/929907.html

 
Eugenio Gaburri. Un battitore libero della psicoanalisi
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 25 giugno 2013
 
Non sono in molti i nomi degli psicoanalisti italiani che hanno saputo fare avanzare la dottrina della psicoanalisi in modo originale e creativo. Franco Fornari e Elvio Fachinelli si distinguono probabilmente su tutti. Ma al loro fianco andrebbe inserito anche il nome di Eugenio Gaburri, scomparso all’età di 78 anni il 6 dicembre del 2012 a Milano, dopo una lunga malattia vissuta con grande dignità e coraggio. Medico-psichiatra, formatosi alla durezza del lavoro istituzionale a Varese negli anni Sessanta, svolse la sua formazione tra Milano e Ginevra e fu uno degli psicoanalisti italiani che maggiormente si entusiasmarono per il lavoro clinico coi gruppi. Battitore libero, insofferente alle teorizzazioni scolastiche della dottrina colpevoli di irrigidire i concetti separandoli dall’esperienza viva dell’analisi, fu uno dei più sensibili lettori di Wilfred Bion che contribuì, insieme a Francesco Corrao, Claudio Neri e Antonino Ferro, a far penetrare nella cultura psicoanalitica del nostro paese.
Amava confrontarsi senza pregiudizi e senza darsi arie con le nuove generazioni. Ogni volta che ho potuto dialogare con lui restavo colpito dalla assenza di chiusure ideologiche, dalla curiosità e dalla flessibilità del suo modo di interrogare l’esperienza dell’analisi. Lacan diceva che il peggio che possa capitare ad uno psicoanalista era sentirsi installato come psicoanalista. Ecco questo non era accaduto a Gaburri che non parlava dell’analisi a partire dal suo titolo di didatta, ma sempre a partire dalle manifestazioni originali dell’inconscio. Il suo amore per il mare non era solo un gusto estetico, ma caratterizzava la sua tendenza ad allargare i concetti, a dilatarli per impedire che il loro uso stereotipato ne sterilizzasse la vitalità. Per lui, davvero, pensare era come viaggiare in barca a vela: seguire la direzione imprevedibile del vento, farsi portare dal non ancora saputo, dal non ancora visto.
Di questo psicoanalista illuminato è stato recentemente pubblicato, per i tipi di Raffaello Cortina, un libro postumo, scritto a quattro mani con la sua compagna Laura Ambrosiano, titolato Pensare con Freud. Esso conclude idealmente una sorta di trittico preceduto dallo straordinario Ululare coi lupi (Bollati Boringhieri, 2003) e da La spinta a esistere (Borla, 2008), pubblicati mentre la malattia era già in corso, scritti sempre insieme ad Ambrosiano. Si tratta di un libro splendido e imperdibile che ha un valore testamentario. Il lettore vi troverà tutti i temi freudiani e bioniani cari a Gaburri: la nozione di “campo”, di “capacità negativa”, di “narcisismo e socialismo”, la spinta “impersonale” a esistere e il problema della sua soggettivazione. Ma, soprattutto, l’idea che la psicoanalisi non sia affatto una “cura del passato”, ma un “recupero del futuro”, una “cura del futuro”. Da questo accento bioniano e, mi permetterei di aggiungere, lacaniano, dell’inconscio come apertura verso l’inedito, scaturisce tutto il valore paradigmatico che i Gaburri assegnano alla figura freudiana della sublimazione intesa non tanto come un processo di difesa o di soddisfazione pulsionale secondaria rispetto a quella direttamente sessuale, ma come prototipo di ogni possibile processo di soggettivazione e di umanizzazione della vita. In che consiste la forza trasformativa della psicoanalisi se non nell’attivare la capacità di sublimazione intesa come capacità di allargare il proprio mondo, di rendere plastica la propria esperienza del corpo pulsionale, di rendere possibile il pensiero?
Per poter accedere a questa possibilità bisogna separarsi dalla dimensione avida e acefala degli “agiti antropofagi” della pulsione ed apprendere ad aprirsi all’imprevisto. Scritto per resistere all’ombra cupa e incombente della malattia e della morte, questo libro è prima di tutto testimonianza di come vi possa essere “gaia scienza” che non escluda la finitezza della vita. La morte, infatti, non è l’ultima parola della vita, ma è ciò che spinge la vita a “fare spazio” all’inedito e al non ancora pensato. In questo senso la parola “sublimazione” diventa l’indice della possibilità dell’umano di appassionarsi alla propria esistenza, al fine di simbolizzare «la paura ad esistere in quanto individui separati» e di liberarsi dalla «fame cannibalica e dalla coazione a tappare tutte le mancanze».
L’immagine dell’inconscio come serbatoio del passato, come baule dove giacciono sepolti i nostri ricordi, viene sostituita dall’immagine dell’inconscio come “spazio in divenire”, come forza di espansione. È questa la posta in gioco di ogni analisi: «allargare lo spazio mentale dell’inconscio, venire fuori dagli intrappolamenti della coazione a ripetere». Quando invece lo spazio per pensare si chiude, quando l’identità si irrigidisce su se stessa, c’è massa senza mente, senza pensiero, vita morta, passione paranoica che spinge la vita individuale e collettiva a serrarsi nelle proprie nicchie difensive e autoidentitarie. Diversamente, scrivono i Gaburri, l’esperienza analitica dell’inconscio «richiede sempre di andare oltre quello che si sa già». Per questo la mano di Eugenio Gaburri ci lascia ricordandoci che «la cosa più importante da trasmettere ai nostri figli è proprio la capacità di sublimazione, intesa come interesse per la vita nonostante il dolore».

http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_recensione.asp?id_contenuto=3741945

Berlusconi: quell’oscuro (s)oggetto del godimento 

di Marcello Barison, ilfattoquotidiano.it, 29 giugno 2013
 
Il delirio di Berlusconi e i suoi non può certo stupire, anzi: lui addirittura un poco si contiene(almeno su questo versante) e lascia sbraitare i cortigiani, come sempre più realisti del re. È il solito carosello degli orrori: ruffiani definitivamente smutandati (“ma vivi”), elefantini imburrati col rossetto, valchirie al botulino ‒ tutti a celebrare Trimalcione e le sue notorie “cene eleganti” (sic).
Le affinità si sprecano: quando l’anfitrione del Satyricon cafoneggia in versi, nessuno si diverte ma tutti ridono, all’unisono, come coi lazzi ‒ e frizzi ‒ del Cavaliere arciliftato. Petronio aveva previsto proprio tutto: dal self-made man che bestemmia “come un facchino” (e che rammenta l’uscita sull’orchidea-Bindi?), alla tomba commissionata ad Abinna, che profetizza clamorosamente il mausoleo arcoriano di Cascella.
C’è poi altra scena ch’è perfetta allegoria del ventennio berlusconiano (soprattutto per lenoni e valletti): “[...] Trimalcione fece schioccare le dita, ed a quel segnale l’eunuco gli mise un orinale sotto il sedere. Svuotata così la vescica, Trimalcione chiese dell’acqua per le mani, e dopo aver bagnato la punta delle dita, se le asciugò nella zazzera di uno schiavo”, manco fosse la barba di Ferrara. Ma suvvia, è il partito dell’amòre: “Chi ama, ama, chi non ama, non ama. Lui, Trimalcione, ha terre quanto ci volano i nibbi, e soldi che partoriscono soldi”: viene in mente niente? In ogni caso, B. dà da vivere a molti (e soprattutto a molte): chi ci mangia non intende smettere e non si contano quelli che smaniano dalla voglia d’incominciare. Cercasi servitù volontaria. Gradita esperienza di portaorinale. “Non so se il riso o la pietà prevale” ‒ chioserebbe Leopardi.
Eppure c’è oscenità peggiore ‒ stupefacente e non meno colpevole perché legittima appunto tutto questo: la connivenza del Pd. Quelli che: Mediaset è “una grande risorsa del Paese” (D’Alema); quelli che: meglio non criticare “il principale esponente dello schieramento a noi avverso” (Veltroni); quelli che (il Berluschino colla gorgia): studiano da primo ministro, con ordine, prima direttamente ad Arcore, poi da Maria De Filippi e ‒ dulcis in fundo ‒ pure da Briatore; quelli che: come un mantra, sanno ripetere soltanto “non commentiamo le sentenze della magistratura” (per loro ormai è un tic, un automatismo. Se gli chiedi “cos’hai mangiato ieri?” ti rispondono comunque: “scusa, ma non commento le sentenze della magistratura”).
Insomma: quelli che, maculati come giaguari, con Berlusconi ci governano. E non avvertono nemmeno più il bisogno di smacchiarsi. Continuano anzi a mercanteggiare con l’“utilizzatore finale” ‒ che regolarmente infatti li ‘utilizza’ perché mica è scemo, lui ‒ come se niente fosse, come se l’Impresentabile fosse presentabile: Letta (per interposto zio) lo riceve dopo una condanna per concussione e prostituzione minorile e ne esce persino un colloquio “cordiale e positivo”, poi tocca aNapolitano il quale ‒ ha ragione Grillo ‒ “è come se avesse invitato Al Capone” in persona.
Ecco, non appena si guarda a ‘sinistra’, “la pietà vince sul riso”. Ma una qualche ragione ci dovrà pur essere: perché mai ci è capitato il peggior partito di sinistra d’Europa? Perché tanto masochismo politico? Qualcuno nel PD ha forse un’irrefrenabile propensione all’estinzione? Di questo passo ‒ e c’è da augurarselo ‒ alla prossima tornata elettorale non li voteranno più nemmeno i loro parenti.
In ogni caso, la catastrofe della sinistra italiana ha forse un connotato psicoanalitico. Quale moderno Trimalcione, B. incarna l’apoteosi del gaudente: un connubio, pressoché miracoloso, di denaro, potere e ‒ per chi ci crede ‒ epiche performance sessuali (“era instancabile, un toro”,D’Addario dixit).
Poiché è innegabile che l’agenda del PDmenoL sia sostanzialmente dettata da B. ‒ da Veltroni il Maggioritario a Renzi il Marchionnate (Fiat dux) fanno di tutto pur di assomigliarli ‒; poiché cioè a sinistra vorrebbero a tutti i costi essere finalmente come lui ‒ e di questo passo va finire che prima o poi ci riusciranno ‒, è evidente che il Trimalcione di Arcore, in qualità di Gran Gaudente, si è lentamente trasformato in una sorta di Super-Io perverso del Pd.
È il Padre osceno (per dirla con Lacan) che comanda incessantemente di godere e anziché vincolare al rispetto della legge costringe incessantemente a violarla (non senza suscitare un discreto senso di colpa per il fatto stesso di averla violata).
Questo spiegherebbe l’eterna finzione in cui galleggia la ‘lungimirante’ dirigenza piddina: vogliono illuderci (e soprattutto illudersi) di star combattendo Berlusconi, ma in realtà non riescono a non obbedirgli perché, inconsciamente, lui è il loro modello: è l’oscuro soggetto del godimento, il prototipo da imitare (non senza una certa ‒ autopunitiva ‒ afflizione).
Berlusconi, quindi, non è che il rispecchiamento, liberato, della loro cattiva coscienza: agisce nel  modo in cui anch’essi vorrebbero agire. Fa ciò che, per il divieto intrinseco ad ogni perversione, i dirigenti del PD si proibiscono incessantemente di fare pur desiderando fervidamente di poterlo fare.
Difficile prospettare una via d’uscita. Mi permetto però un consiglio amicale, visto che il Congresso piddino si avvicina. Forse è il caso di ripristinare la vecchia scuola di Frattocchie, dove il fu PCI formava la propria classe dirigente. Sarebbe il luogo ideale per una terapia di gruppo. Se ci si affida a uno bravo, magari c’è il rischio di guarire.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/29/berlusconi-quelloscuro-soggetto-del-godimento/641178/

Cari psicoanalisti: leggete King. La scienza dell’anima oggi trascura la letteratura. A Saramago e Ford preferisce statistica e biologia
di Emanuele Trevi, lettura.corriere.it, 30 giugno 2013
 
È abbastanza comune affermare che per amore si arriva a delirare, eppure il desiderio e il delirio, in quell’assurdo labirinto che è la mente umana, possono anche diventare feroci antagonisti. Chi nega o in qualunque modo scaccia dalla coscienza il proprio desiderio, sta già delirando. E non c’è energia mentale più potente, si direbbe, di quella dell’errore e dell’autoinganno. Per certi individui, rivelare a se stessi ciò che veramente amano è l’impresa più difficile. Tale è il loro orrore della verità, che sono capaci di costruire interi mondi fittizi per seppellirla più a fondo che possono. Ma più di tanto, per quanto si sforzino, non possono. Ed è qui che cominciano i guai. Tra i narratori più efficaci di questa ingegnosa trappola psicologica, il prolifico Wilhelm Jensen occupa un posto del tutto particolare. Da poco ristampata con le bellissime illustrazioni di Cecilia Capuana Gradiva (Donzelli) è l’unica sua opera, tra le decine che ne scrisse, ad essergli sopravvissuta. Lo scrittore tedesco pubblicò questa fantasia pompeiana, come la definì, nel 1903, quando era già avanti con gli anni e all’apice di una vasta ma effimera fama.
Sarebbe un vero peccato se anche Gradiva fosse scivolata nell’inesorabile gorgo dell’oblio. A rileggerlo oggi, questo breve romanzo sentimentale-archeologico, mascherato da storia di spettri, conserva una notevole forza di persuasione. Com’è noto, però, a garantire all’opera la sua durata nel tempo non furono né i lettori di narrativa né i critici letterari, ma l’interesse, quasi vampiresco, di Sigmund Freud. È questa circostanza a rendere del tutto eccezionale la fortuna dell’operetta di Jensen. Fu Carl Gustav Jung, nell’aprile del 1906, a mettere in mano a Freud Gradiva. Erano ancora lontani, Freud e Jung, dalla clamorosa rottura del 1912. Erano i tempi eroici della Società di Vienna, e quegli eccezionali speleologi procedevano solidali, come fossero legati in cordata, nei cunicoli e nelle voragini della coscienza umana. Le loro idee provocavano una generale diffidenza, che rafforzava la solidarietà fra gli iniziati. Ad ogni modo, il romanzo di Jensen, intessuto com’era di fantasie deliranti e sogni rivelatori, e pervaso da una potente corrente erotica, fece letteralmente balzare Freud sulla sedia. Durante le vacanze estive, trascorse come d’abitudine all’Hotel du Lac di Lavarone, Freud si mise all’opera componendo quello che sarebbe destinato a rimanere uno dei suoi saggi più limpidi e belli, intitolato Il delirio e i sogni nella «Gradiva» di W. Jensen, pubblicato la prima volta nel 1907. Quando si dice (giustamente) che Freud è un grande scrittore, è a testi come questo che bisogna pensare. Dando fondo alle sue innate qualità di narratore Freud riscrisse Gradiva creando quello che Giorgio Manganelli avrebbe definito un «libro parallelo». Ci si può rendere conto del valore e dell’importanza dell’impresa servendosi di un vecchio ma utilissimo libro curato nel 1961 da Cesare Musatti, intitolato Gradiva, che ristampa insieme il romanzo di Jensen e il saggio di Freud, accompagnati da un intelligentissimo commento.
L’interesse dell’autore dell’Interpretazione dei sogni per le avventure italiane del giovane archeologo tedesco Norbert Hanold è più che giustificato. La sua è una vicenda che rende manifesto, in modo molto più efficace di qualunque trattazione scientifica, il funzionamento della rimozione, che dei meccanismi della psiche umana è il più pericoloso e gravido di conseguenze. L’eroe di Jensen ha consacrato l’esistenza alla sua unica passione, l’archeologia. Solo al mondo, le uniche figure femminili che ha considerato sono fatte di marmo e di bronzo. E di una di queste figure arriva addirittura a innamorarsi. O perlomeno, così lui stesso crede che vadano le cose. Si tratta, ad ogni modo, di un’opera d’arte realmente esistente, e conservata ai Musei Vaticani: il bassorilievo di una fanciulla velata che cammina, dirigendosi chissà dove, sollevando con la mano un lembo della veste. L’elemento più notevole della figura è la posizione del piede destro, sollevato in maniera quasi perpendicolare al suolo. È questo particolare che genera in Norbert una vera ossessione per l’opera così leggiadra di un ignoto artista greco, da lui ribattezzata Gradiva, «colei che avanza», versione femminile dell’epiteto che in latino accompagnava abitualmente Marte.
Un misterioso concatenarsi di sogni e premonizioni induce Norbert a partire da un giorno all’altro per l’Italia, finendo per cercare le tracce della Gradiva tra le rovine di Pompei. E in effetti, la incontrerà, ma in carne ed ossa. Ma non si tratta di uno spettro autorizzato a vagare nella luce del sole nell’ora meridiana, come crede il giovane archeologo, ma della ben concreta e viva Zoe Bertgang, vicina di casa di Norbert e sua amica d’infanzia, ben decisa a sposarlo. È questo personaggio femminile l’invenzione più riuscita di Jensen, e la sua strategia finisce per affascinare Freud molto più dei sintomi di Norbert. Zoe comprende al volo che il giovane non solo l’ha totalmente dimenticata, ma la crede un fantasma del passato, morta a Pompei nell’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo. Ma la peggiore strategia da usare con un delirante è quella di sbattergli in faccia la realtà, nuda e cruda. Per tirare a sé Norbert, serve una lenza più sottile. Sarà necessario accettare il particolare ordine di realtà in cui vive Norbert, e aspettando di scardinarlo, prestarsi al ruolo del fantasma della fanciulla pompeiana morta sotto le ceneri del vulcano.
È fin troppo ovvio osservare come questa tecnica di guarigione finisse per affascinare Freud molto più dei sintomi del delirio e dei sogni di Norbert. Si può dire, senza paura di esagerare, che quella di Gradiva agli occhi di Freud sia un’allegoria non meno importante di quella di Edipo. Se Edipo è l’immagine più universale dell’uomo afflitto dalla nevrosi e imprigionato dai suoi sintomi, ebbene Gradiva, in questo stupendo teatro di marionette preso a prestito dalla letteratura, rappresenta tutte le virtù di colui che, seduto all’altro capo del famoso divano, tiene fra le dita il filo, fragile e prezioso, della guarigione. Scaltra, seducente, dotata di empatia a capacità intuitive, Gradiva è la santa patrona di tutti gli strizzacervelli a venire. Con l’importante differenza, però, che sia Freud che Musatti tengono molto a segnalare, che se Zoe alla fine del romanzo convola a giuste nozze con il suo stordito Hanold, non altrettanto possono fare l’analista e il suo paziente, che dovrà scegliere un reale oggetto d’amore una volta emerso dalle ceneri pompeiane della rimozione.
Chiuse le due Gradive, quella di Jensen e quella di Freud, il lettore d’oggi potrà provare un senso di malinconia, considerando quanto sia ormai diventata profonda e irreversibile la separazione fra psicoanalisi e letteratura. È come se la prima, tutta affannata a conquistarsi i suoi galloni scientifici, abbia deciso di volgere le spalle, con una buona dose di ingratitudine, a quell’inaffidabile e ciarliera sorella. È vero che moltissimi libri contemporanei di psicologia sono letteralmente infarciti di citazioni letterarie e cinematografiche. Ma le citazioni, per loro natura, sono frammenti e relitti. Vengono facilmente piegate alle finalità del discorso che le ingloba. Lampeggiano nella loro bellezza e vengono rapidamente dimenticate. Non producono mai immagini totali, capaci di segnare le svolte della conoscenza. Lo psicoanalista, sbagliando, non si sogna più di andare in cerca di nuovi Edipi e di nuove Gradive nei libri di Stephen King, o di Richard Ford, o di José Saramago. E anche la letteratura ha una buona parte della colpa. Saccheggiando da un secolo la psicologia del profondo, ha perso ogni forma di innocenza. A uno psicologo di oggi, non può che fornire l’idea di una minestra riscaldata. Mentre l’entusiasmo di Jung e Freud per Gradiva dipendeva in buona parte dal fatto che Jensen, pur essendo arrivato così vicino alle loro scoperte, non avesse mai nemmeno sfogliato L’interpretazione dei sogni.
Per cercare le sue conferme più importanti, la scienza della psiche preferisce ormai battere i più severi sentieri della statistica, della biologia, delle scienze cognitive. Si potrebbe dire che, come il giovane Hanold di Jensen aveva rimosso la sua Zoe, illudendosi di amare una statua antica, così la psicoanalisi ha rimosso il potere simbolico, la forza di persuasione della grande letteratura. Ma tutte le rimozioni, lo insegna la scienza stessa, si trasformano in sintomi ben peggiori di ciò che si sotterra. Rischiano, insomma, di trasformare in deliri anche i saperi più complessi ed accademicamente corazzati.

http://lettura.corriere.it/cari-psicoanalisti-leggete-king/

Video:
Berlusconi e la psicoanalisi a Otto e mezzo, 24 giugno 2013. Tra gli ospiti di Lilli Gruber Claudia Spadazzi. 

 

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.it)

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