PSICHIATRIA E RAZZISMI
Storie e documenti
Paolo Mantegazza (1831-1910)
Ottenne nel 1869 il primo insegnamento europeo di Antropologia ed etnologia, istituì il Museo nazionale di Antropologia, fondò con Felice Finzi la Società italiana di antropologia ed etnologia e nel 1870 la rivista «Archivio per l’antropologia e l’etnologia».
Secondo Mantegazza l’antropologia - "storia naturale dell'uomo" doveva, sulla base di un approccio empirico e materialistico (“tutti i fenomeni psichici avvengono nel cervello e nei nervi”; l’intelligenza è “un carattere organico”), usare il metodo comparato nello studio dell’uomo e degli animali per
indagare tutti i fenomeni della vita di relazione, tutti i fatti del mondo psichico, tutti i sentimenti, tutti
i pensieri, tutti i delitti e gli atti generosi, le sensazioni dell’idiota e i delirii del genio.
L’antropologia psicologica assunse quindi una collocazione centrale:
Nel corpo l’uomo è quasi un gorillo, nel cervello che pensa è un uomo.
Nel cervello si trova la più alta e la più larga sintesi delle energie umane. E dunque la
psicologia comparata ha da essere “il più alto e nobile dei nostri studi”.
Per queste ragioni la rivista prese nel 1878 il nome di «Archivio per l’antropologia, l’etnologia e psicologia comparata».
Mantegazza fu sempre molto critico verso qualsiasi tipo di riduzionismo e monismo: nei confronti dell’ antropologia criminale di Lombroso che definì “un ingegnoso tranello”; nei confronti della craniologia perché il cranio è soltanto
una buccia ossea che alla fine non è altro che un astucchio;
di certo la parte del nostro scheletro che serba più profonde tracce dell’umanità. Ma da questo al
voler fare della craniologia tutta quanta la nostra scienza, vi è un abisso.
Egli giudicò stupida la posizione dei craniologi riduzionisti che in nome di una “quisquiglia osteologica” finivano con lo sganciare l’antropologia dall’etnologia e dalla psicologia comparata.
Mantegaza fondava le ragioni della sua critica sull’assunto della variabilità individuale: non esiste l’uomo in generale, ma esistono gli uomini nei quali i confini della variabilità sono infiniti.
Nulla è più diverso da un uomo quanto un uomo.
Per questo le misurazioni ossee che documentano l’ampiezza delle variabilità individuali non bastano a caratterizzare una popolazione.
A proposito delle “razze” Mantegazza assunse una posizione molto netta affermando che
Le oscillazioni individuali sono eguali o maggiori delle etniche e per definire una razza, noi
abbiamo bisogno di prendere individualità lontanissime e di pestarle poi in un mortajo per
cavarne una pasta omogenea, un tipo medio che in natura non esiste.
E citava l’esempio degli israeliti italiani che presentavano “forme diverse e lontane e teste brachicefale, e mesocefale e dolicocefale”.
In natura esiste un continuum di forme che impone di parlare, invece che di una molteplicità di “razze”, di una “universale fratellanza umana”, di una “umana famiglia”.
Dunque “siamo tutti meticci”, siamo tutti bastardi, lo siamo stati fin dall’inizio ed è bene che continuiamo ad esserlo.
Le citazioni sono tratte da G. Barsanti, Paolo Mantegazza: la “storia naturale” dell’uomo e le “razze” degli uomini. «Medicina & Storia», X, 2010, 131-146