La diagnosi clinica soggettiva: un’alternativa all’etichettamento riduzionista

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13 marzo, 2015 - 11:16
[Caso clinico numero 1]                               
Un dialogo tra due psicoterapeuti, ad orientamento cognitivo-comportamentale, relativamente ad una paziente adolescente:
 
T1: «sai, sto seguendo da qualche settimana questa ragazza (adolescente) e mi sembra che in certi momenti il suo umore oscilli molto e anche la sua visione delle cose. Vorrei valutare meglio la sua personalità, capire meglio….anche per il passato del padre…» (lascia intendere un possibile legame o timore tra le oscillazioni della ragazza e le gravi crisi depressive del padre).
T2 (più esperta nella terapia): «beh, per valutare meglio la personalità puoi somministrare l’MMPI-2 (questionario di personalità costituito da 562 item di tipo vero-falso, ndr) che ti permette di individuare la presenza di tratti nevrotici o psicotici. Poi, sulla base di ciò che viene fuori, puoi somministrarle alcune scale della SCID-II (intervista semi-strutturata basata sulla classificazione diagnostica dei disturbi di personalità del DSM-IV), così vai ad individuare il suo profilo di personalità, o quello più vicino».

 
[Caso clinico numero 2]
In occasione di una riunione con altri colleghi di un servizio psichiatrico un illustre professionista, analizzando a scopo didattico il filmato di una bambina (che frequentava la scuola primaria) arrivata in consultazione per ulteriori approfondimenti diagnostici – ma con una diagnosi pregressa di Disturbo Oppositivo-Provocatorio (DOP) - chiese ai presenti di provare a individuare i segni e i sintomi tipici di quel disturbo o di altri concomitanti. Nello specifico, egli suggerì di considerare la possibile comorbidità del DOP con un Disturbo dell’attenzione e iperattività (ADHD). Già da qualche tempo, tra l’altro, il bambino assumeva un antipsicotico a causa della sua estrema irrequietezza (questa terapia aveva prodotto un lieve miglioramento sintomatico).
Nella stanza di consultazione la bambina non stava mai ferma; passava da un’attività all’altra in modo disorganizzato, a volte non rispondeva ai richiami, chiedeva spesso dei genitori, tendeva ad uscire dalla stanza per i più svariati motivi per poi rientrare e ricominciare con quei comportamenti. Un’altra abitudine sedimentatasi da un po’ era la tendenza a farsi chiamare - e a chiamarsi - con un nome diverso dal suo, senza che né i genitori né altri fossero riusciti a spiegarsi questa bizzarria. La bambina presentava anche una tendenza ad opporsi alle richieste del clinico e anche un certo sinistro compiacimento nel farlo.
Indubbiamente, alcuni sintomi relativi alla disattenzione, all’iperattività e all’oppositività erano presenti, anche se c’era sempre qualcosa che non tornava nel quadro, una sorta di substrato ansioso negli atteggiamenti della paziente, tanto che il terapeuta finì per ipotizzare la presenza di un concomitante disturbo d’ansia. Ipoteticamente, quindi, era possibile fare una diagnosi, seppur in una condizione di valutazione clinica non ideale, di una comorbidità di tre disturbi: ADHD (Disturbo dell’attenzione e iperattività), DOP (Disturbo Oppositivo Provocatorio), Disturbo iperansioso (o d’ansia generalizzata).
Per avere una sorta di conferma indiretta circa la presenza di un disturbo attentivo, i clinici che seguivano il caso decisero, in accordo col neuropsichiatra inviante (e coi genitori) di somministrare una dose controllata (medio-bassa) di Ritalin e monitorarne l’effetto: effettivamente dopo non molto tempo la bambina appariva più tranquilla, ma anche abbastanza intontita. Questo effetto non era affatto quello auspicato e così, dati gli scopi ultimi della valutazione diagnostica, i clinici decisero di sospenderne l’assunzione.
Dopo il filmato, si aprì la riflessione clinica di gruppo.
Dinnanzi al mio dubbio sul fatto che il problema centrale non fosse di tipo attentivo e comportamentale, quanto piuttosto dell’intera struttura di personalità (per la disorganizzazione dei comportamenti, la saltuaria, mi pareva, fatuità dell’affetto, e la bizzarria di quell’inspiegabile e inspiegata tendenza a chiamarsi e farsi chiamare in un altro modo, che ritenevo segno di un principio di alterazione dell’esame di realtà), il professionista scambiò inizialmente la mia ipotesi di un processo psicotico in atto per l’indicazione della presenza di un possibile quadro autistico (come se psicosi e autismo fossero la stessa cosa); ignorò comunque sostanzialmente la mia notazione, continuando a chiedere ai colleghi di proseguire nella ricerca dei sintomi degli altri summenzionati disturbi (cioè il disturbo d’ansia generalizzato e l’ADHD).
Io insistetti: gli chiesi se non fosse il caso di provare a sospendere temporaneamente la somministrazione del farmaco antipsicotico (assunto dal paziente in una dose che avrebbe “steso” un adulto normale, secondo le stesse parole del terapeuta) per valutare la condizione psicologica della paziente in modo più “puro”, senza cioè le alterazioni dovute all’uso degli psicofarmaci. Come poteva porsi una diagnosi precisa se venivano somministrati ben due farmaci, di cui uno piuttosto “pesante” nei suoi effetti (l’antipsicotico)? Se si voleva comprendere attentamente le alterazioni comportamentali o cognitive del quadro patologico in atto, non era forse necessario osservarle nella loro manifestazione più essenziale, tenuto conto che non si possedeva ancora un’approfondita conoscenza della paziente – potremmo dire “sul campo” – ma solo alcune, pur importanti, informazioni indirette (i dati anamnestici, i racconti dei genitori e le diagnosi pregresse)?
Niente da fare. Il terapeuta disse che era già stato difficile, per lui e la sua equipe, avere avuto a che fare con la paziente in quelle condizioni (cioè mentre assumeva l’antipsicotico) e che non aveva alcuna intenzione di interagire con lei senza il “contenimento” di quel farmaco. Il nostro confronto si concluse così, mentre in silenzio riflettevo un po’ amaramente sul fatto che, se certi farmaci venivano definiti antipsicotici, doveva pur esserci un motivo.

 
 
Dopo queste esperienze cliniche, descritte nelle vignette[1] precedenti, non ho potuto fare a meno di interrogarmi sul senso generale di una valutazione diagnostica in ambito psicologico e su come questa venga declinata nei vari orientamenti teorici della psicologia clinica.
Alcuni di questi paiono non dare molta rilevanza al senso che gli atti del terapeuta possono avere per il paziente, preoccupati come sono, fin dalla fase di consultazione, di cercare il profilo giusto di personalità o la configurazione sintomatologica in cui inquadrare la condizione esistenziale di una persona sofferente. A tal scopo spesso si servono di pletore di questionari, test e interviste più o meno strutturate cui il paziente deve sottoporsi allo scopo di “farsi conoscere” meglio dal clinico.
La prima cosa che mi chiedo è se il terapeuta non possa fare il suo mestiere di “diagnosta” semplicemente parlando col paziente, piuttosto che costringerlo a passare delle ore a compilare dei questionari. Forse il tutto dovrebbe servire, secondo i sostenitori dell’utilità dei test, a rendere più oggettivo il compito al terapeuta, a dargli informazioni più affidabili, meno distorte dalle oscillazioni della memoria o dalle reazioni emotive più o meno forti che si verificano in qualunque colloquio.
E tuttavia, se un paziente non ha voglia o non riesce a dire certe cose (spesso nemmeno a sé stesso), come potrà dirle in fase di consultazione al terapeuta, nel momento in cui un “asettico” test, attraverso delle domande molto sintetiche, gliele chiedesse? E che reazione può avere un paziente dinnanzi ad un terapeuta che, invece di parlare con lui, cerca fin dall’inizio di ottenere determinate informazioni sulla sua esperienza di sofferenza tramite un questionario, piuttosto che guardandolo negli occhi, ascoltandolo attentamente e provando a interagire con lui in un modo adeguato?
Il risultato, a mio avviso, sarà che il paziente risponderà distrattamente (o disordinatamente) alle domande, oppure eviterà, almeno parzialmente, di dire la verità. E anche se alcuni questionari dispongono di cosiddette “scale di controllo” per verificare queste tendenze falsificanti nelle risposte, esse non aiuteranno il clinico nell’arduo compito di capire come fare a parlare col paziente di certe esperienze per lui più difficili da verbalizzare. D’altro canto, è probabile che il paziente percepirà il terapeuta come più preoccupato ad ottenere su di lui delle informazioni piuttosto che condividere attraverso un dialogo rispettoso la sua sofferenza attuale e quanto lui ha da dire - o vuole evitare di dire - su di essa. Nessun questionario può scandagliare con la sua lunga sfilza di brevi domande (del tipo “sì/no”, “vero/falso/non so” e simili) le molteplici sfumature dei vissuti emotivi, delle intenzioni e dei comportamenti umani.
L’orientamento clinico che privilegia la somministrazione di materiale testistico per conoscere il paziente in fase di consultazione – che potremmo definire “approccio clinico-obiettivo” - è un orientamento che mira alla raccolta di informazioni utili ad orientare il terapeuta nella scelta di categorizzazioni diagnostiche predefinite sulla base delle quali spesso quegli stessi test sono stati realizzati; in sostanza, il clinico cerca di rilevare gli aspetti che quel test o quei test di personalità riescono a rilevare - aspetti che sono stati facilmente condivisi nel giro di alcuni anni all’interno della comunità scientifica - perché corrispondenti a segni e sintomi comportamentali palesi, rilevabili e osservabili senza particolari difficoltà. Essi corrispondono cioè alla fenomenologia eclatante del fenomeno, all’insieme di elementi presenti nella coscienza del soggetto e nei suoi quotidiani comportamenti. La qualità e le specifiche dinamiche della relazione col paziente al momento della consultazione, le impressioni-intuizioni del terapeuta, il passaggio di informazioni che in essa può avvenire attraverso disparati canali (anche corporei) nonché tutto ciò che il paziente non sa sul proprio disagio passano in secondo piano, non essendo questi elementi facilmente oggettivabili o controllabili tramite strumenti standardizzati, ritenuti “scientifici”.
Un approccio alternativo, che potremmo definire “clinico-soggettivo”, si affida invece alla conoscenza teorica, all’esperienza, alla competenza relazionale, all’analisi attenta delle dinamiche di ogni incontro clinico, finanche all’intuizione del terapeuta per avviare una comprensione specifica del singolo paziente, al di là di quanto rilevabile dall’uso delle categorie diagnostiche più riconosciute a livello internazionale. Secondo questa prospettiva diagnostica, la possibilità di rintracciare delle categorie ufficialmente riconosciute dai vari manuali internazionali in base alle quali poter descrivere la condizione del paziente, potrà certo essere considerata e ritenuta importante tenendo conto della possibilità che essa garantisce di comunicare e intendersi velocemente con i colleghi, anche di altri orientamenti teorici. Tuttavia non costituirà mai la modalità d’azione privilegiata.
In questo approccio (soggettivo), la specifica relazione che si instaura tra il terapeuta e il paziente, le informazioni che questi spontaneamente riferisce e quelle che invece non riferisce, le sue resistenze a parlare di alcuni aspetti della sua vita, la sua storia specifica, la modalità di organizzare i suoi pensieri, la possibilità di concedere fiducia all’altro, il modo di descriversi e di percepire gli altri, il modo di rapportarsi con la propria condizione mentale, nonché le reazioni che tende a generare nel clinico durante i colloqui costituiranno gli elementi principali per effettuare una diagnosi.
Secondo questo approccio, paradossalmente, alla fine del percorso di consultazione si potrebbe anche non avere in mente una diagnosi completa o precisa. Certo, sarà sempre possibile dare un’indicazione di massima sulla condizione del paziente, magari facendo riferimento proprio ai sistemi di classificazione internazionali dei disturbi mentali; ma ciò deriverà più da un’esigenza comunicativa pratica del clinico che da un’effettiva oggettivazione della sofferenza di quel paziente. Infatti, l’obiettivo principale della consultazione sarà - oltre che, come abbiamo detto, farsi un’idea di massima sulle caratteristiche di personalità del paziente - soprattutto quello di creare una relazione sufficientemente solida per poter affrontare gradualmente aspetti più centrali e delicati della sua esperienza soggettiva e per approfondire gli aspetti meno consapevoli del suo malessere (e per questo, a mio parere, veramente centrali).
Lo strumento privilegiato che il terapeuta userà in questo processo non saranno evidentemente test o questionari, ma la sua capacità empatica, cioè l’insieme di risorse cognitive e affettive necessarie ad operare un reale accoglimento della persona del paziente, nella sua globalità e complessità, nel suo modo unico di soffrire. Proprio per questi motivi, l’aspetto centrale in questo orientamento diagnostico è l’individuo-terapeuta con il suo mondo interiore, cioè la sua capacità di fantasticare, di intuire, di contenere la tensione dell’ignoto, di immedesimarsi, la sua ricchezza emotiva, la sua intelligenza, il suo bagaglio di esperienze, i suoi tratti di personalità, i suoi valori, la sua stessa storia personale. Non c’è dubbio che chi si cimenta con un tale metodo rischi alla fine dei colloqui diagnostici di non riuscire ad avere una concezione del paziente strettamente assimilabile a certe categorie diagnostiche rigidamente definite; che rischi anche, forse, di confondersi col paziente (specie con certi pazienti), di andare alla deriva, di “smarrirsi” cognitivamente nel colloquio - o di non cogliere alcune informazioni rilevanti che l’altro spontaneamente riesce a comunicare - proprio perché privo di stringhe di domande o griglie di riferimento in cui incasellare le verbalizzazioni e i sintomi del paziente.
E tuttavia, a fronte di ciò, contemporaneamente si aprirà la possibilità di cogliere aspetti latenti e inattesi nell’esperienza del paziente, magari insospettabili sulla base della sintomatologia prevalente da lui mostrata. Inoltre si potranno cogliere e valorizzare più facilmente aspetti incongruenti col quadro sintomatologico iniziale, considerandoli come parte integrante e significativa di un insieme: l’insieme della sua peculiare soggettività. In base alla mia esperienza clinica posso affermare che tali elementi nascosti o minimizzati spesso fanno la differenza nella qualità della comprensione di un paziente, anche in vista di una possibile presa in carico: lavorare su certi sintomi già presenti e descritti dai sistemi classificatori, magari attraverso tecniche terapeutiche prestabilite e potenzialmente valide per tutti i pazienti, non ha molto senso nell’ottica che qui si propone.
Se si lavora essenzialmente sugli aspetti più evidenti del disagio psichico, su quelli più facilmente riconoscibili, descrivibili e comprensibili, si rischia di colludere con la tendenza del paziente (e forse anche del suo ambiente, per non dire della società) a concentrarsi solo su certi aspetti della sua sofferenza mentale - forse quelli più accettabili o più sopportabili - evitandone altri poco chiari, non facilmente categorizzabili, a volte solo oscuramente intuibili seppur permeati di emozioni. Inoltre, un lavoro mirato all’individuazione di certi specifici sintomi (che siano comportamenti o idee poco cambia) rischia di incorrere facilmente nei classici processi di tendenza alla conferma che ho cercato di evidenziare nelle vignette iniziali. L’approccio diagnostico alternativo che qui si difende, centrato invece sulla singolarità del paziente e sulla sua non riducibilità a puntiformi quadri sindromici, non è tuttavia facilmente integrabile con l’orientamento sempre più aziendalistico di molte istituzioni della salute mentale (nelle loro varie declinazioni), con la loro tendenza a trasformare il lavoro clinico di consultazione in un lavoro burocratico di compilazione di tabelle di punteggi e di schede diagnostiche, perdendo di vista la persona, la sua unicità e la sua insondabile complessità. Non si tratta qui di cercare di individuare necessariamente dei moventi inconsci alla sintomatologia più evidente del paziente, abbracciando un’ottica, in senso lato, psicoanalitica. Si tratta più che altro di valorizzare l’esperienza interiore del paziente (e del suo ambiente), la sua complessità, la descrizione soggettiva di essa, le fantasie connesse ai comportamenti, la sua storia, che di certo giocano un ruolo nella condizione psicopatologica in atto e che non possono essere facilmente inclusi nelle sintetiche descrizioni sintomatologiche su cui si basano questionari, interviste strutturate e manuali diagnostici vari.
L’approccio clinico-soggettivo non cerca solo di “diagnosticare” un paziente, sulla falsariga di un paradigma che ritiene importante l’assunzione di un atteggiamento oggettivo e quindi tendenzialmente distaccato dalla persona in cura, considerata alla stregua del classico oggetto di studio delle scienze naturali.
Tale approccio, piuttosto, si mantiene consapevole della portata della relazione interpersonale sia in fase di elaborazione di una diagnosi, sia nell’avviare un processo trasformativo connesso ad essa. Seguendo tale approccio il clinico è sempre conscio della rilevanza che ogni sua interpretazione di dati e ogni sua azione nel corso della valutazione diagnostica - poco cambia che si tratti di scambi verbali, di una prescrizione farmacologica o della somministrazione di un test - possono avere in un contesto così pregno di emozione e di attese come quello di una consulenza psicologica richiesta da una persona sofferente o da altri attorno a lui.
A causa dell’emotività e delle aspettative/fantasie del paziente o del suo ambiente (specie nel caso di soggetti in fase evolutiva) che permeano la fase della valutazione diagnostica, le azioni del clinico non saranno mai neutre, ma si coloriranno di un senso specifico per l’altro generando a loro volta risposte ideative e comportamentali (manifeste o latenti) che possono avere un effetto sull’intero processo della valutazione; ad esempio, modificando in corso d’opera l’espressione di sé del paziente, il suo modo di relazionarsi nella situazione clinica, oppure influendo di ritorno sull’emotività del terapeuta stesso e quindi sulla sua lucidità e capacità di comprensione.
Secondo questo modello, una procedura diagnostica intesa in senso tradizionale come rilevazione e puntuale descrizione di una serie di segni e sintomi presentati dal paziente non è da escludere; ma essa deve assolutamente essere corroborata da un atteggiamento di accettazione e apertura del clinico dinnanzi alla mole di comunicazioni, spesso molto contraddittorie, provenienti dal paziente, evitando ogni tendenza a descrivere e definire fin dall’inizio in modo prestabilito ciò che si vede, sulla base di categorie diagnostiche predefinite. Un processo di conoscenza (diagnostico) così inteso, capace di sopportare anche a lungo l’attesa di arrivare ad una maggiore comprensione del paziente (evitando quindi la precoce somministrazione di questionari standardizzati e riduttivi) è anche espressione della volontà e capacità di contenimento psichico del clinico, cioè della sua capacità di tollerare la difficoltà (e la responsabilità) di non giungere in breve tempo ad una conclusione definitiva e sufficientemente chiara sull’esperienza psichica del paziente, riducendolo ad una serie di schematismi psichiatrici ormai invalsi, da qualunque orientamento teorico questi originino.
A mio avviso, questa capacità contenitiva del terapeuta, la sua capacità di immedesimazione coi vissuti di un’altra persona, la sua sensibilità emotiva, il suo intuito, la sua ricchezza linguistico-immaginativa (aspetti che definirei, nel loro insieme, capacità “elaborativa-creativa”) costituiscono le condizioni fondanti di un atteggiamento diagnostico-conoscitivo realmente rispettoso della complessità dell’esperienza psichica umana; mai banalmente etichettante, mai riduzionista.


[1] Alcuni elementi delle vicende riportate, per ovvi motivi, sono stati modificati, pur cercando di mantenere la sostanza dei fatti.
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