LA XENOPHOBIA E' UNA MALATTIA?

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14 maggio, 2015 - 17:56
  1. Le ragioni “malate”
            Non molto tempo fa incontrai in treno un americano, che viveva in Italia da sedici anni. Una delle prime cose che mi disse con aria irritata è che ora non si trovava più bene in Italia, e stava pensando seriamente di tornarsene negli States. Chiesi: “Forse ne ha piene le tasche della corruzione, della crisi economica che dura da anni, dall’inefficienza della pubblica amministrazione, delle mafie che si sono infiltrate dappertutto…” No, mi disse l’americano: “Ormai l’Italia si sta riempiendo di indiani, arabi, cinesi... Non è più l’Italia di una volta.” Mi misi a ridere, perché lui stesso era un immigrato in Italia. Ebbi però l’ingenuità filosofica di dirgli: “E lei vuole tornare in America dove di immigrati ce ne sono molti di più. Anzi, gli Stati Uniti è una nazione tutta di immigrati.” L’americano scontento non si scompose: “L’immigrazione va bene in America, ma in Italia ci devono essere solo italiani!”
            Strana questa idea degli italiani come entità omogenea e pura. Dal Medio Evo in poi sono “migrati” da noi ostrogoti, longobardi, bizantini, normanni, albanesi, arabi in Sicilia, spagnoli, catalani, francesi, austriaci. Queste invasioni sono una delle ragioni della grande varietà regionale in Italia.
            Ho incontrato altre persone complementari, per così dire, a questo immigrato in Italia che detesta gli immigrati. Ho conosciuto molti italiani che emigrarono da giovani in America, che hanno dovuto battersi con il durissimo Immigration Office USA, e che per lo più sono riusciti a ottenere la cittadinanza statunitense sposando una ragazza americana di solito di origini italiane. Questi anziani che vivono a loro agio in America mi ripetono la stessa cosa: “Ogni volta che vado in Italia, vedo sempre più immigrati. E’ una vergogna!” Per loro l’Italia deve restare la collina o borgo o museo della loro gioventù.
Le persone di cultura cosmopolita – come certamente sono quasi tutti quelli che mi stanno leggendo o ascoltando – difficilmente nascondono il profondo disprezzo che nutrono per razzisti e xenofobi. Così la xenofobia è descritta come una sorta di malattia mentale da psichiatri e psicoanalisti, come mero pregiudizio dai sociologi, come “ideologia” dai marxisti. Insomma, gli xenofobi sono descritti come malati, psicologici o sociologici. Ma forse noi “sani” dovremmo cercare di capire le ragioni di questi malati – capire non significa condividere o perdonare, significa non accontentarsi della comoda e pigra ripulsa morale. Certo i sentimenti di quegli immigrati xenofobi di cui abbiamo parlato ci appaiono incoerenti, ma, in fondo, ogni modo di pensare, per quanto possa apparire aberrante, ha una sua “logica”. Bisogna svelarla. Il cuore xenofobo ha le sue ragioni che la Ragione non conosce. Ad esempio, bisogna capire perché quasi sempre gli xenofobi europei sono anche anti-europeisti e vorrebbero uscire dall’euro. Non solo non vogliono stranieri in casa propria, non vogliono nemmeno che degli stranieri cessino di esserlo in una grande casa comune. Questo perché il povero, di danaro e di cultura, sente che il proprio territorio è la sola vera ricchezza che gli resta. Mentre il ricco, di soldi e di sapere, ha tesori altrove, il povero li ha invece attorno a sé.
 
  1. Il ricco e il povero
Ci sono varie declinazioni di xenofobia. Quella più diffusa è la pauperofobia. Di rado in Italia si parla male degli stranieri ricchi, dei tedeschi che comprano un casale antico in Toscana o degli americani che si stabiliscono a Milano per lavorare nell’industria della moda. In Italia si è contro marocchini, bangla-deshi, albanesi, moldavi, rom, rumeni, … perché sono poveri e fanno i lavori più umili. L’adagio anti-razzista più stupido – e più diffuso - è quello di chi predica: “non bisogna diffidare di qualcuno semplicemente perché ha un colore di pelle diverso dal tuo!” Ma se un nero viene disprezzato, non è per il colore della sua pelle: perché di solito è povero. La xenofobia più popolare oggi è in realtà orrore per il povero. Le violenze dell’aprile 2015 in Sud Africa non hanno colpito affatto i bianchi che vivono in quel paese, la classe agiata, ma altri africani neri che vengono dai paesi vicini; africani poveri perseguitano africani ancora più poveri.
Se si ascolta quel che dicono questi “malati”, si capisce che per loro il povero, soprattutto se è straniero, puzza. E disgusta. La xenofobia è una epifania politica del vomito. In effetti, rimettiamo non solo quando vogliamo espellere dal nostro stomaco qualcosa di disgustoso, ma anche quando vediamo, davanti a noi, qualcosa di schifoso. Gli occhi “mangiano” ciò che guardano, quindi la sola vista di ciò che repelle è già invasione del nostro corpo interno, e va rigettato. Oggi, non osiamo ammettere che la povertà ci disgusta. Vedo un livore di odio in molte persone quando inciampano per strada su barboni, mendicanti, immigrati sbrindellati: la presenza visibile degli indigenti è un attacco al cuore della propria rispettabilità. Come se trovarci vicini a poveri o degradati impoverisse e degradasse anche noi.
C’è poi una xenofobia che chiamerei uberofobia (dal latino uber, ricchezza): l’odio invidioso contro chi è più ricco di me. Ad esempio, sono colpito da come gli italiani settentrionali detestino i nostri vicini svizzeri. Ho sentito anche persone, che difendono i rom e i marocchini in Italia, parlare degli svizzeri in modo assolutamente sprezzante. “Un paese di banche dove tutti i ladri mettono i loro soldi.” “Sanno fare bene solo orologi e cioccolata.” Si raccontano barzellette dove lo svizzero appare sempre stupido e ottuso. Eppure una parte degli svizzeri sono italiani, quelli del Canton Ticino[1]. Secondo me si è svizzero-fobici perché la Svizzera è, tra tutti i nostri paesi vicini, il più ricco e fortunato. Per decenni è stato il paese più ricco del mondo, da secoli non conosce guerre, nemmeno civili. In pratica là non esistono poveri ed è scarsa la corruzione. Oggi varie organizzazioni internazionali stilano elenchi dei paesi più o meno felici, in cui tengono conto di vari fattori, dal PIL alla speranza di vita. Si può credere più o meno alla validità di queste graduatorie. E’ un fatto però che la Svizzera in tutte queste classifiche occupa di solito i primi tre posti tra i 120 paesi considerati, mentre l’Italia appare in queste liste tra il 45° e il 50° posto. C’è poco da fare, in Svizzera si sta molto meglio che in Italia.
La Svizzera è quel che l’Italia vorrebbe essere ma non è. La svizzero-fobia ricorda l’antisemitismo che denunciava “la plutocrazia ebraica” (dal greco pluto, ricchezza), come la chiamava Mussolini.
  1. Il tesoro del povero
Comunque, il “malato xenofobo” fa appello a un diritto elementare: il voler scegliere chi ospitare o meno a casa propria. Non accetta il principio di un’ospitalità indiscriminata. In Scandinavia c’è un motto: “Gli ospiti sono come il bel pesce fresco: dopo due giorni puzza”. E’ gradito il turista di passaggio, ma se vuole restare, puzza. Al fetore della povertà si somma il tanfo dell’essere ospite. Del resto, il Giappone dalla fine della seconda guerra mondiale in poi ha evitato ogni immigrazione, allo scopo, forse, di assicurare ai suoi cittadini la piena occupazione; ma nessuno rimprovera il Giappone di essere xenofobo. La xenofobia non è un diritto?
Per lo xenofobo la propria città, regione, nazione è vissuta come casa propria, Heim. Io invece, come tutti quelli a favore dell’immigrazione, non considero affatto Roma – la città in cui abito – “casa mia”. Il simpatico bangla-deshi che ha aperto un negozietto sotto casa mia dove si trova quasi tutto, che parla dei pakistani come fossero mostri, per me non è un ospite che si è imposto a casa mia, ma un commerciante molto utile, dato che è il primo la mattina ad aprire il negozio e l’ultimo la notte a chiuderlo. Da dove nasce questa disparità di Erlebnisse tra me, che mi suppongo sano, e “il malato”?
Essa, credo, è una differenza di classe. Tutte le inchieste sociologiche mostrano che più si scende di livello economico e culturale, più si è xenofobi. Da tempo i partiti di sinistra europei hanno preso atto con orrore del fatto che una larga fetta della famosa “classe operaia” vota per Le Pen in Francia, per la Lega in Italia, per Alba Dorata in Grecia… Basta un rapido esame delle ultime elezioni dipartimentali francesi del marzo 2015.
Al primo turno di voto (in cui ciascuno vota per il partito che gli è più vicino) il 49% degli operai ha votato il Fronte Nazionale di Le Pen, e solo il 23% di loro per i due partiti della sinistra francese (Fronte della Sinistra e Partito Socialista). Mentre la fascia sociale in cui il FN prende in assoluto meno voti (13%) è quella che i francesi chiamano “professioni liberali e cadres superiori [dirigenti manager]”, che invece è quella che maggiormente vota per la sinistra (33%). Il FN è largamente votato anche dai mal pagati impiegati (38%). Se si considera poi il livello di istruzione, l’andamento è quasi speculare al precedente: il 50% di quelli che non dispongono di alcun diploma votano il FN, e solo uno sparuto 13% di loro vota per la sinistra. All’inverso, la sinistra raccoglie più voti (il 31%) tra chi possiede un diploma superiore, laurea o oltre, mentre il FN raccoglie il minimo dei voti (13%) tra le persone più istruite.
Sembra che questa mutazione – la sinistra è sempre più votata da gente benestante e colta, mentre i partiti xenofobi o di estrema destra sono sempre più votati dai più poveri e ignoranti – si produca ormai, in modi diversi, nell’Europa intera. E forse è questa la chiave per capire quel che c’è di essenziale nella xenofobia, che da noi si unisce al rigetto dell’euro e dell’Europa come unità politica.
Chi è povero, poco colto, e lontano dai grandi centri urbani, diffida di ciò che è lontano, diverso, straniero, perché il proprio mondo è molto più ristretto rispetto a quello dei ceti colti e agiati. Questi sono composti da persone che parlano almeno un po’ di inglese e altre lingue, viaggiano, fanno l’Erasmus all’estero, si occupano degli altri paesi, leggono libri, si informano su mondi lontani nello spazio e nel tempo, dagli Assiri agli Indonesiani di oggi. Il loro “mondo” attraversa l’intero pianeta. Invece, poveri, ignoranti e non-urbanizzati non parlano una lingua straniera, la sola attività politica che li affascina di solito è lo sport, non hanno fatto grandi viaggi all’estero, se non qualche crociera frettolosa in comitive organizzate in mostruose navi-grattacieli per crociere. Quando uno di loro gode di prestigio, questo è incollato all’ambiente locale: si può essere “eroi” o “eroine” nel proprio quartiere, nel consiglio comunale del paese, nel pub o nel bar. Noto che gli intellettuali che si occupano delle faccende della loro città, nel mio caso Roma, tendono a focalizzarsi sui poteri politici e culturali cittadini, mentre per le persone umili Roma è essenzialmente il loro quartiere, i mezzi pubblici che li portano al loro posto di lavoro, i vicini di casa, la raccolta della spazzatura. La propria zona di residenza o il paese in cui vivono è la vera polis del povero di danaro e di cultura. La sua polis è un’estensione limitata del proprio oikos (termine che in greco significava la casa domestica). A proposito di Greci antichi, credo che proprio la loro teologia possa offrirci concetti utili per capire i “malati”, ovvero i poveri.
  1. Il focolare e l’angelo
I Greci consideravano una coppia di dei opposti eppure intimamente legati: Hermes ed Estia (Mercurio e Vesta dei romani) – diremmo oggi, l’Angelo e il Focolare. Anticamente venivano raffigurati spesso in coppia. Estia era il nome comune che designava sia il focolare domestico che il focolare comune della Polis[2].
            Estia era il focolare circolare, fissato nel suolo, era l'ombelico attorno al quale la casa si radicava nella terra. Essa ‑ nota Jean-Pierre Vernant[3] ‑ è simbolo e pegno di fissità, immutabilità, permanenza.  E’ il centro fermo a partire dal quale lo spazio umano si orienta e si organizza. Essa non scambia, resta casta: Estia è vergine.
Anche Hermes è una divinità che abita vicino ai mortali. Ma vi abita come angelos, il messaggero, è sempre pronto a ripartire. "Non c'è niente, in lui, di fisso, di stabile, di permanente, di circoscritto, né di chiuso. Egli rappresenta, nello spazio e nel mondo umano, il movimento, il passaggio, il mutamento di stato, le transizioni, i contatti tra elementi estranei. Nella casa,..., protegge la soglia, respinge i ladri perché è lui stesso il Ladro (...), per il quale non esistono né serrature, né recinto, né confine."[4]  Egli è presente ovunque gli uomini, fuori della loro casa privata, entrano in contatto per lo scambio - nelle discussioni e nel commercio -, o per la competizione, come nello stadio. Hermes è inafferrabile, ubiquitario.  In Atene c’è una statua di Hermes in tutti gli incroci importanti, statua itifallica, perché Hermes è anche il pene eretto in quanto “si aliena” nel commercio sessuale.
E’ strano che il termine Hermes abbia dato poi origine al termine moderno “ermetico” che significa il contrario, qualcosa di chiuso come Estia.
Possiamo dire che da qualche secolo la nostra società, divenuta industriale e capitalista, sembra essersi votata completamente a Hermes; la cosiddetta globalizzazione è l’ultima tappa di quella che potremmo chiamare l’ermetizzazione dell’esistenza. Free exchange, free market, free sexual intercourse. Ed Estia? Essa è relegata negli strati detti “reazionari”: come fedeltà etnica ai vecchi costumi, chiusura rispetto ai traffici del mondo, ritorno all’antico o alla sua perpetuazione, rifiuto di usare il computer e internet. Estia è in parte ciò che Ferdinand Tönnies chiamò Gemeinschaft, la “comunità” opposta all’hermetica Gesellschaft, “società”.
Allora, la xenofobia, il razzismo e l’anti-europeismo sono le figure moderne di culto di Estia, dea del focolare domestico? Sembra che dalla lotta di classe siamo passati alla lotta Hermes versus Estia, tra un ceto “che sta nel sistema” (benestante, colto, mobile) e un ceto che è ai margini del sistema mondiale o ne è escluso (povero, poco istruito, localista). Oggi la lotta, anche politica, sembra focalizzarsi tra gli “hermetici” e gli “estiaci”; tra chi accetta l’immigrazione anche massiccia e chi la rigetta con orrore.
  1. Il focolare diffuso
 Ma tra Hermes ed Estia ci deve essere per forza lotta? Gli Antichi, molto perspicuamente, li consideravano due divinità non opposte, ma complementari. Non ci può essere Hermes senza Estia, ed Estia non può esserci senza Hermes. Vernant[5] dimostra che, in fin dei conti, Estia ed Hermes sono due momenti o istanze di una stessa divinità a doppia faccia, di cui un polo è la chiusura del proprio focolare e l’altro polo ciò che ci porta a uscire dal nostro focolare, magari per andare in un altro.
Si prenda chi scrive, nella misura in cui sono un esemplare forse alquanto banale dei miei lettori. Mi considero “cittadino del mondo”, cosmopolita, sono visceralmente anti-nazionalista; non ammiro particolarmente il mio paese, di cui vedo tutte le magagne. A differenza della maggior parte degli italiani, non sogno di morire in un letto ubicato nel posto dove sono nato, Napoli. Mi andrebbe bene anche morire in Nuova Zelanda. Sono quindi totalmente hermetico?
In realtà ho anch’io il mio focolare, un oikos di cui sono parte. E’ però un focolare diasporico; i miei migliori amici non necessariamente abitano nel mio quartiere, ma a Londra, a San Francisco o a Kiev. Gli intensi scambi hermetici attraverso email e internet costituiscono il diletto villaggio de-localizzato dove abito. Oggi si usa dire “la comunità scientifica”, “la comunità filosofica”, ecc., e la Comunità, Gemeinschaft, dispersa per il mondo, è Estia accentratrice di chi fa scienza o filosofia. Non mi interessa molto quel che pensa di me la vicina di casa o il mio panettiere, mi interessa moltissimo quel che pensa del mio ultimo scritto il collega di Helsinki o quello di Buenos Aires. E nell’ambito di queste comunità trasversali, anche noi intellettuali cosmopoliti siamo xenofobi. Lo xenos più estraneo a noi è lo xenofobo. Noi cosmopolitici siamo appunto xenofobi-fobi.
Qualche anno fa una mia amica ucraina, donna bella e colta, e che conosce bene l’Italia, parlando degli “schiavi” cinesi che lavorano nel tessile di Prato si lasciò sfuggire “i cinesi dovrebbero restare in Cina, non venire in Europa!” E’ un caso che, pur non volendo ripudiarla come amica, dopo quell’uscita di fatto non ci siamo visti più? Anche io mi scopro xenofobo-fobo.
Altri xenoi per me hermetico sono quelli che non la pensano affatto come me nel mio campo scientifico, in politica, in psicoanalisi, in arte e letteratura… Si prenda il profondo disprezzo che tantissimi italiani nutrono nei confronti di tutti quelli che hanno votato per Berlusconi, o che addirittura lo hanno ammirato e amato. Una volta una brava signora, un po’ innamorata di Berlusconi, disse stupita e offesa a degli amici che evidentemente erano tutt’altro che berlusconiani “ma perché voi disprezzate tanto noi che stiamo con Berlusconi?” Era vero, nel fondo era disprezzata, anche se era una brava donna, si faceva finta di niente e si cercava di essere lo stesso gentili. Matteo Renzi, l’attuale primo ministro, lo ha ben capito, difatti ha vinto le elezioni smettendo di attaccare personalmente Berlusconi, ovvero di dire a chi lo aveva votato “sei solo un imbecille!” Quanto a me, non ho nessun problema a lavorare in una rivista assieme a un nero o a un mussulmano, ma non lavorerei mai con un certo tipo di filosofi o di politici o di psicologi per me xenoi. Certi filosofi per me puzzano. In quella piovra distesa sul pianeta in cui si articola il mio focolare – la mia Estia – non c’è posto per molta gente, li lascerei affondare nel mare intellettuale con i loro miseri barconi culturali. E’ difficile che io possa invitare a cena un “leghista”, ovvero uno che vuole buttare a mare i migranti che sbarcano in Italia da vecchie carrette del mare, che vuole uscire dall’euro e vuole abolire il trattato di Schengen.
Sarebbe un errore identificare le posizioni di sinistra come “progressiste”, hermetiche, e quelle di destra come “focolariste”. Il punto è che sinistra e destra – fin là dove l’opposizione ancora regge, ma abbiamo visto che le divisioni ormai si situano altrove – distribuiscono diversamente la loro focolarità e la loro hermeticità. I socialisti sembrano radicalizzare il cosmopolitismo, parlano di solidarietà internazionale, del superamento delle nazioni, appoggiano le migrazioni di massa. Ma allo stesso tempo diffidano profondamente del libero scambio, del free market, del liberismo economico, e di fatto invocano un’istanza materna, protettiva, focolarista, come lo Stato. Lo stato per la sinistra è l’Estia che deve salvarci dalle ineguaglianze, che sarebbero effetto della pura mobilità hermetica del danaro e dei commerci. La sinistra è un hermetismo tutto incluso nell’enorme focolare, potenzialmente universale, di uno Stato mondiale. L’Estia di sinistra è planetaria. Un focolare con un centro e nessuna periferia.
Le differenze politiche non sono quindi una opposizione semplice tra Hermes ed Estia, tra la mobilità angelica e l’immobilità della Vergine della casa, ma dipendono da dove abbiamo fissato il nostro focolare, e da che cosa o verso che cosa ci muoviamo. Perché anche lo xenofobo anti-europeista ha il suo lato hermetico. Non a caso, per lo più, è un liberista: vuole meno Estia Stato, più hermetico free market. Proprio perché egli pensa di saper bene a cosa appartiene – il borgo, la cittadina, la regione, la sua religione – si può permettere di entrare in competizione con altri, di evadere le tasse, di comprare l’auto più veloce. Gli immigrati italiani in America che non tollerano gli immigrati in Italia – che ho presentato all’inizio - hanno pur sempre una dimensione hermetica, dato che hanno cambiato lingua e continente. Hanno attraversato gli oceani per trovare il loro focolare.
Certo non è un caso che Estia sia femmina e vergine, e che Hermes sia maschio e fallico. Estia ricorda la Vergine Maria, che pure è madre (mi chiedo anzi se il culto cattolico di Maria non sia stato una trasposizione cristiana del culto di Estia), una chiusura materna che esclude il commercio sessuale. Ma Hermes non è paterno, anche se è virile. E’ la fallicità intesa come mobilità e alienazione. Anche se indubbiamente per gli Antichi Estia ed Hermes erano una coppia ossimorica.
 
  1. La rivendicazione dell’errore
C’è un elemento decisamente hermetico nella xenofobia in quanto ogni xenofobo e razzista oggi sa che esserlo oggi “è male”. Ciò che è considerato “cattivo” dall’establishment morale esercita una profonda attrazione, soprattutto tra i giovani. Alcuni giovani europei si lasciano convertire dall’Islam più radicale e magari partono per combattere con l’ISIS perché sanno che è proprio quello che non dovrebbero fare. Era un po’ quel che accadeva quando, da giovani, molti di noi intellettuali diventammo comunisti, in un’epoca in cui il regime sovietico era il nemico per noi occidentali. Certamente sostenevamo che il comunismo era molto più buono del capitalismo, che la nostra era la scelta etica giusta; ma questa era la superficie. In effetti sapevamo anche del Gulag, delle purghe staliniane, delle repressioni sovietiche in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia; sapevamo che c’era anche del veleno incistato nella dolce torta del socialismo. Ma era proprio questa ambiguità a sedurci: ci si costruisce una teoria del Bene per sdoganare le proprie pulsioni distruttive, per giustificare il proprio essere “cattivi”, ovvero per godere di essere tra coloro che sbagliano.
Inutile perciò sforzarsi a dimostrare agli xenofobi che le nostre economie hanno bisogno anche degli immigrati per funzionare, che le nostre società invecchiano mentre gli immigrati portano una ventata demografica giovane, che anche noi italiani un tempo eravamo emigranti nelle Americhe come loro lo sono ora, che solo frange di immigrati si dedicano alla criminalità… Tutti questi bei discorsi non li convincono proprio perché chi li ascolta sa che sono “giusti”, e proprio per questo li rigetta. C’è un godimento hermetico nell’essere dalla parte dei reprobi: “avere torto” è un modo di rivendicare la propria eccentrica individualità contro ogni sottomissione universalista alla Ragione. Per molti la Ragione è qualcosa di oppressivo, perché praticarla appare un privilegio da cui, date le proprie origini sociali, si è esclusi. Gli xenofobi, essendo per lo più persone di basso livello sociale, sanno che i discorsi degli intellettuali di sinistra sono corretti, logici, universalisti: ma il rivendicare cocciutamente la propria idea, chiusa e definita, è proprio il modo più forte di opporsi alla Ragione dei “ricchi”. Ragione e bontà sono dei beni che tanti poveri non possono, e quindi non vogliono, permettersi. Il povero si incorona con la rozza tiara della xenofobia rivendicando quindi il suo diritto all’errore e al biasimo. In questa sua dissidenza dai valori universali delle classi elevate consuma quindi un atto squisitamente hermetico di uscita dal focolare delle Buone Cause.


[1] Stranamente i nostri vicini austriaci non godono della stessa ostilità, anche se Austria e Svizzera sono due nazioni alpine molto simili. Eppure dal 1848 al 1918, e poi dal 1943 al 1945, gli italiani hanno fatto ben cinque guerre contro l’Austria. Forse perché l’Austria risulta un impero smembrato, mentre la Svizzera è visto come un impero economico vincente.
    [2]Cfr. Mario Vegetti, "Akropolis/Hestia. Sul senso di una metafora aristotelica" in Aut aut, n. 220‑21, 1987, Cfr. S. Benvenuto, “Hestia-Hermes. La Filosofia tra focolare ed angelo”, Dialegesthai, 2002, http://mondodomani.org/dialegesthai/sb01.htm, Eng. Tr. Hermes/Hestia: The Hearth and the Angel as a Philosophical Paradigm", Telos. A Quarterly Journal of Critical Thought, 96, Summer 1993, pp. 101-118.
 
    [3]J.‑P. Vernant, "Hestia‑Hermes. Sull'espressione religiosa dello spazio e del movimento presso i Greci" in Mito e pensiero presso i Greci, pp. 147‑200, Torino, Einaudi 1978, p. 149.
 
    [4]Ibid., p. 150.
[5] Ibid.
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