Dagli archivi de GLI ARGONAUTI: DIRE DI SI'

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25 gennaio, 2016 - 10:30
articolo pubblicato su Gli Argonauti, 146 settembre 2015 pag. 11-25. Carocci editore, Roma.

Il paziente, che chiamerò Enea, arriva curvo, con passo lento e un po’ trascinato: sembra proprio un signore molto vecchio e molto stanco. Resto assai stupita quando mi dice la sua età, intorno alla sessantina e ancor di più quando, più avanti nella terapia, mi racconta di molte conquiste femminili del passato, frutto della sua bellezza: a vederlo ora, tanto bello non sembra. Tuttavia, in una seduta di parecchio tempo dopo, sorridendo si leva gli occhiali e mi dice: “la mia bellezza mi ha causato solo guai”, e improvvisamente vedo l’uomo bello di cui mi sta parlando. Lo tiene nascosto. Indago allora sul perché abbia fatto sparire bellezza ed età sotto una coltre di lentezza e vecchiaia. “Ha mai letto Bartleby lo scrivano?” mi risponde: lui ha ammirazione per Bartleby, per il suo “preferirei di no” costante e reiterato, si riconosce in lui. Nel rapido riassunto che mi fa Enea, emerge chiaramente che, nel racconto di Melville, Bartleby si distingue per un inossidabile “preferirei di no” che oppone a richieste e proposte del suo datore di lavoro, e poi gradatamente a tutto il mondo e alla vita stessa. Non conoscendo il testo, mi limito a cercare di comprendere come mai quel “no” abbia tanto fascino per Enea, pensando che forse è perché nella sua vita i molti sì che ha detto l’hanno impantanato in relazioni decisamente distruttive. Il primo sì è stato verso la madre, donna depressa e ritirata che ha fatto del figlio il suo innamorato consolatore, e poi i silenziosi sì alle percosse che il fidanzato della sorella, delegato dal padre, gli infliggeva quando non studiava abbastanza, e ancora i sì a una donna molto disturbata e alcolista della quale si è occupato, curando lei, le sue figlie e l’ex marito, anch’egli alcolista. Unastoria, quest’ultima, che è durata a lungo e lo ha prosciugato emotivamente, fino a quando, anni dopo, è stata compensata dall’incontro con la sua attuale compagna, donna vivace, vitale e intelligente, alla quale peraltro Enea tende comunque ad opporre il suo “preferirei di no” che sconfina in un “va bene” rassegnato e non partecipe. Ciò che ho pensato nel corso delle sedute, prima di leggere il testo di Melville, mi convinceva però solo fino a un certo punto: quel fascino del “preferirei di no” mi pareva andare oltre la sorta di riscatto che avevo notato. Trovato il mio tempo, lessi il libro che nel frattempo Enea mi aveva regalato. Il testo di Melville racconta di un copista, Bartleby appunto, che progressivamente ed in modo sempre più radicale oppone un “preferirei di no” a qualsiasi richiesta-proposta gli venga fatta, mantenendo un contatto con il mondo soltanto attraverso il consumo di biscotti allo zenzero, suo unico alimento. Intorno a lui si attiva un personaggio, il suo datore di lavoro e voce narrante, tutto preso dal tentativo di smuoverlo, di trovare qualcosa al quale possa dire “preferirei di sì”. Questo rifiuto radicale e sommesso affascina e coopta l’altro, ma conduce Bartleby, immobile di fronte a un muro, a morirne. Enea era riuscito a dirmi ciò che non poteva dirmi, mi aveva indirettamente spiegato che cosa c’era dietro la sua simulata vecchiezza, il suo passo strascicato, il suo pacato e irremovibile “preferirei di no”: era il no alla vita. Lo ritrovavo nei “preferirei di no” detti alla sua compagna, mai del tutto espliciti e avversativi, ma segreti e silenziosi, come una non presenza nella presenza. Decido di vederlo in vis à vis, sia perché Enea ha già fatto una lunga analisi sul lettino sia perché mi appare evidente, confortata in questo da una serie di episodi che mi racconta, che Enea ha bisogno di contatto con una presenza viva e un po’ trasgressiva: il lettino, in questo caso, non appare la scelta migliore perché rischierebbe di facilitare il suo ritiro nel mondo solitario e avitale che si è costruito. Infatti, per tutto il primo anno di terapia analitica Enea è un po’ tramortito dai miei interventi, dal mio interloquire con lui direttamente, dalle associazioni che mi suggerisce e che io gli restituisco. Mi guarda come se io fossi un po’ marziana, vedo che palesemente il mio modo di stare in relazione con lui lo inquieta e al contempo lo affascina: sembra che si siano capovolte le parti e non sia Bartleby ad affascinare l’interlocutore, ma il contrario. D’altro canto, come afferma Lopez, per noi analisti “l’essenziale è essere consapevoli della nostra funzione in primo luogo di seduttori e, successivamente, di liberatori ed emancipatori”. È infatti “l’uso consapevole e raffinato della seduzione che permette allo psicoanalista di vincere le resistenze del paziente, in modo lieve e adeguato alla conoscenza del grado, del livello e dell’intensità delle sue resistenze caratteriali” (Lopez, 1988). Grazie a questo periodo di fascinazione, verso la fine del primo anno di analisi Enea riesce a dirmi del suo sentimento di inferiorità rispetto alla attuale compagna, soprattutto per quanto riguarda la fantasia e la rapidità di pensiero associativo: lui, che scriveva racconti e poesie, ha coartato completamente queste facoltà, le ha buttate fuori, nel mondo al quale dice “preferirei di no”. Io, dal canto mio, mi diverto assai: il suo sguardo affascinato, il suo dirmi ”piano, piano” peraltro seguendo con passo incerto “la sua compagna di viaggio analitico”, mi conferma che da qualche parte cova un sé vitale e curioso, rappresentato in primo luogo proprio dall’aver scelto una partner e una analista piuttosto attive e presenti nella relazione. Enea, infatti, mi ha proprio scelto: ha letto qualcosa dei miei scritti e ha pensato che era necessario per lui affrontare il rapporto con la madre, lasciato un po’ in disparte nella sua prima analisi che si era concentrata soprattutto sulla figura paterna, indiscutibilmente persecutoria e svalutante. Più avanti nell’analisi con me (perché di analisi si tratta, anche se abbiamo fatto a meno del lettino), mi racconterà di un suo disperato tentativo adolescenziale di chiedere aiuto: sapendo della pistola che il padre possedeva, e spaventato dalle sue stesse fantasie di utilizzarla contro i genitori, scrisse una lettera al medico di famiglia, descrivendogli la sua paura di passare all’atto. Nessuno parlò con lui di questo, ma fu prontamente inviato in collegio. Forse questa è stata una mossa giusta o quantomeno gli ha permesso di sottrarsi alla intollerabile pressione famigliare, ma al contempo la clausura del collegio ha rinforzato la via che aveva già imboccato: un distacco dalle cose, una, più o meno simulata, indifferenza verso la vita. Un rendersi invisibile ben rappresentato dal suo nascondersi, la sera, al ritorno del padre. Ma questo schermo di invisibilità non ha potuto alcunché con la madre: figlio-fidanzato, figlio-tenero consolatore, è stato intrappolato nella fantasia di guarirla, ripararne le ferite, fornirle sostegno e complicità. Se, da una parte, odiava la propria bellezza che attirava le donne, che cioè riattivava l’attenzione ossessiva della madre e gli impediva l’agognato anonimato, dall’altra, manteneva il suo ruolo di consolatore-riparatore, totalmente agito nel rapporto con la donna alcolista con la quale intrattenne un lungo rapporto.
Io e Bartleby
Devo confessare che alla prima lettura del testo di Melville ho provato un fastidio piuttosto accentuato, soprattutto nei confronti dei personaggi che si affollano intorno allo scrivano. La sudditanza del suo datore di lavoro e la passiva accettazione del “preferirei di no” di Bartleby lasciano in effetti costernati: perché questo avvocato accetta un copista, Bartleby appunto, che non lavora affatto, dorme e vive nello studio dell’avvocato, non risponde in alcun modo ai richiami del suo datore di lavoro, si colloca al centro della sala e mette in imbarazzo clienti e colleghi? Il fascino che Bartleby esercita sulll’avvocato e sui molti analizzatori dello scritto di Melville è in primo luogo il fascino dell’armadio chiuso, che proprio in quanto tale stimola le più varie fantasie, alle quali è sottesa l’idea che debba per forza contenere un mistero da svelare. Infatti, sono innumerevoli i commenti che “si affollano intorno al silenzio di Bartleby, nel tentativo di fargli rendere l’anima, di decifrarlo, possederlo, come se il no, il rifiuto senza una motivazione rintracciabile, definibile, richiedesse continui sforzi tesi a negare la possibilità del non senso o della perdita di senso”(Balsamo, 2014).
è qui che si incista “l’illusione decifratoria” che ostinatamente conduce a tentativi di esegesi del testo di Melville. Sono debitrice a Maurizio Balsamo per la sua accurata disamina di tali commentari critici, in particolare per quelli orientati a rilevare un significato di ribellione-rivolta nel “preferirei di no” di Bartleby: Camus, Žižek e in parte Deleuze, ad esempio, tendono a rintracciarvi, infatti, una opposizione alternativa alla rivolta, l’espressione contestativa di una condizione umana a cui è stata sottratta la possibilità di parola, il radicale rifiuto della società che lo circonda. Per quanto vi sia nel “preferirei di no” dello scrivano una rottura della copia e della ripetizione, elemento in sé distintivo e oppositivo all’omologazione passiva, tuttavia giustamente Balsamo fa notare che “è dubbia l’esegesi rivoluzionaria”, perché il suo è “un ritornello, una formula che si ripete nella sua pura identità, senza variazioni, toni affettivi, trasformazioni” (ibid.).Se Bartleby porta l’incertezza nella passiva trasmissione sociale, se pure spezza il senso della mera adesione alle ingiunzioni del super io sociale, tuttavia mi pare evidente che egli non rientra affatto nei “no” che hanno fatto storia, piccola o grande che sia: la vera rivolta nutre sempre un sì, insieme a un no selettivo e orientato, un sì all’alternativa, un sì che semmai non ha alcuna esitazione né limitazione verso il sogno più o meno realistico che la ispira. L’uso del negativo in funzione sovversiva può essere inteso come spirito critico e come spinta al cambiamento, ma la pressione indomabile del negativo indirizza lo sguardo più verso ciò che si distrugge che non verso ciò che può essere rielaborato, cambiato, sviluppato (Jullien, 2012). Da questo vertice, la rottura di senso rappresentata dalla formula dell’apparentemente mite Bartleby, con tutte le conseguenze disaggreganti rispetto al fluire del mero copiare, “disattiva anche gli altri atti linguistici con i quali un padrone può comandare, un amico benevolo porre domande, una persona fidata promettere” (Deleuze in Balsamo, 2014). In modo meno raffinato, potremmo dire che Bartleby butta via il bambino con l’acqua sporca e che, nella sospensione temporale e relazionale del non senso, paralizza ben più significative funzioni vitali.
Una digressione ci riporta al punto
In questi giorni, una manifestazione pacifica è stata funestata dagli interventi dei B-block, ampiamente riprodotti dai media, che hanno devastato proprio la via dove si trova il mio studio, incendiando alcune auto che si trovavano esattamente davanti al mio portone di ingresso. Alla ripresa delle sedute, i pazienti hanno quasi sempre portato un sentimento di disagio nei confronti di quella che è stata vissuta come una sorta di effrazione all’intimità analitica, al luogo famigliare e vitale che lo studio rappresenta. Nella più diversificata lettura del fatto, ovviamente articolata lungo i tracciati traumatici personali, dominava però costantemente il riferimento alla distruttività a tutto tondo, senza obiettivo specifico né alternativa proponibile. Il senza pensiero (in questo caso, politico) ha lasciato tutti interdetti e infastiditi, richiamando per ciascuno i propri aspetti distruttivi a seconda del punto di evoluzione in cui si trova l’analisi: chi ne ha rintracciato con angoscia una rappresentazione del sé, chi si è identificato con le vittime della distruzione “bloccate” dai danni, chi ha elogiato la polizia “che ha contenuto senza ammazzare”, chi ha cercato di capire, di sondare il vuoto agito dai B-block, chi infine ha colto soprattutto l’operazione successiva di “riparazione” che “ha ripulito”, pur se “di quegli sfregi restano gli aloni”. I miei pazienti hanno cioè articolato la lettura intorno al loro punto sensibile, manifestando contemporaneamente il bisogno di rassicurazione e conforto (“ah dottoressa, per fortuna che lei non c’era!”), di messa in sicurezza delle parti sane del sé rispetto alla devastazione operata dalla distruttività senza obiettivo. Enea, che porta il suo vecchio e stanco sé sulle spalle, così come l’eroe virgiliano portava il proprio padre, ha commentato che, in fondo, i B-block non avevano distrutto proprio tutto, che le cose possono essere riparate. Sapevamo entrambi di cosa stesse parlando, sapevamo entrambi che mi stava parlando del recupero dei suoi aspetti vitali, non del tutto distrutti. Non a caso, alla seduta successiva mi ha portato un suo racconto pubblicato molti anni prima: in forma di favola, egli narradi un principe che, per conquistare il cuore dell’amata, si presta a prove indicibili. Terribilmente deluso dal fatto che l’amata comunque lo tradisce, si rifiuta finalmente di sottoporsi a nuove imprese volte a cambiare le cose: accetta il non amore e non cerca più di forzarlo. In quel momento, un piccolo pesciolino rosso che gli aveva teso il tranello dell’ennesima prova, si trasforma nella bella fanciulla con la quale l’eroe vive felice da quel momento in poi. Un po’ scherzando, gli dico che allora un lieto fine èpossibile, che in fondo lui l’ha sempre saputo. Solo l’accettazione del fatto che l’amore non c’è stato, l’amore per lui come specifica persona, per il suo peculiare e irripetibile sé, l’ha distolto dalla ripetizione mortifera tesa tra una riparazione impossibile e un ritiro avitale. Ma accettare questo “non amore” è faccenda estremamente dolorosa. Riprendere il contatto con il sé infantile traumatizzato è sentito, in questi casi, come grave minacciaall’integrità del sé: eliminare emozioni e affetti che lo riguardano è un’attività vissuta come difesa fondamentale e al contempo come inesauribilefonte di sottrazione energetica (Zorzi, 2012). Per Enea non c’era più energia sufficiente non dico per scrivere e fantasticare, ma neppure per vivere. Salvare o proteggere quel che resta dopo scorribande distruttive da parte degli oggetti originari è un’impresa che impegna e debilita, che talvolta può spingere verso un indiscriminato e totalizzante “preferirei di no”.
Un no che non conosce sì
Talvolta, il dire “no” è quindi un modo per dire “il mondo è contro di me, non posso che essere contro il mondo” (Pontalis, 1981). Per noi psicoanalisti, il no più frustrante e spesso vissuto come inappellabile rifiuto è la reazione terapeutica negativa. Anche se non è questo il caso di Enea, sempre presente e partecipe alle sedute, gradualmente disposto ad aprirsi portando frammenti affettivi e concreti della sua storia e del suo presente, alcune considerazioni che partono dalla reazione terapeutica negativa vengono in soccorso a proposito delbartlebyano “preferirei di no”. Pontalis scrive che il no distruttivo e totale è l’unico no che il paziente conosce, impersonale e automatico: “Sono stato fatto così totalmente ciò che sonoché non mi è stata lasciata una parola, né permesso un pensiero per dire
o pensare altrimenti”. Si tratta dunque di un no al no agito dalla madre, un limite posto all’imago materna come corpo estraneo che fa effrazione e violenza, un tentativo di controllare, forse guarire, la madre dentro di sé, quella madre che ha impedito un no personale al proprio figlio. Questo no personale è il no selettivo, il no strutturante, il solo no che permette di dire un sì che non sia sottomissione (Press, 2014).
In alcuni casi di reazione terapeutica negativa, il no del paziente può infatti rappresentare una risposta all’attesa del terapeuta e alla sottomissione implicata dal desiderio troppo evidente dell’analista (Pontalis), evocatore del sì spersonalizzante imposto dalla madre. Come scrive Zucconi nella sua critica a Rosenfeld, si profila un no al bisogno dell’analista che pretende riconoscimento e gratitudine, che si aspetta un sì pieno di ammirazione. C’è poi un sottile distinguo che Pontalis ci offre, la distinzione tra resistenza e difesa: la prima viene suscitata dal movimento dell’analisi, mentre la seconda è una modalità di comportamento psichico che può ripetersiin analisi. In questo distinguo c’è un monito significativo a non liquidare come reazione terapeutica negativa ciò che è risposta controtransferale del paziente al transfert dell’analista, in questi casi troppo voglioso di gratificazione e riconoscenza.
Ecco dunque che, dalla reazione terapeutica negativa, possiamo trarre suggerimenti sul “preferirei di no” di Bartleby e di Enea: “colui che ha potuto soltanto inscrivere le parole dell’altro nella sua carne, senza mai riuscire a inventarsi”, colui che è “un territorio occupato dalla notte dei tempi [...] non chiede altro che di respirare all’aria aperta” (Pontalis, 1981). Questa “possessione fredda” descritta da Pontalis rimanda a “un oggetto primario inafferrabile che esclude il soggetto da sé dopo avere segnato la sua storia con una inaccessibilità senza appello” (Press, 2014). ”Ti chiedo di consolarmi, ma non puoi riuscirci”: questo doppio messaggio, così sconfortante e alienante, è in sunto il messaggio della madre di Enea che, non a caso, spariva per mesi interi per rifugiarsi dal proprio fratello, vero consolatore e oggetto desiderato. Enea era solo un sostituto dello zio, un surrogato a cui era sbarrata la strada che gli veniva chiesto di percorrere. L’inaccessibilità dell’oggetto primario, infatti, non si evidenzia solo con i netti rifiuti o l’indifferenza tout court, bensì anche con il pervicace ignorare la soggettività del figlio, ridotto così a spoilt child, espropriato di sé e occupato dai bisogni della madre. “Vasti oceani di vuoto, un sentimento di essere pietrificato nel tempo, un non essere assoluto” (Koritar, 2014), questa la condanna. Ma Enea questa condanna l’ha cercata, l’ha vissuta come spazio desiderato, come luogo di pace, come tentazione: essere vecchio, anzi vecchissimo, significava sfuggire alla pressione del mondo esterno, alle richieste di reazione e di energia, ma soprattutto significava sfuggire alle proprie pressioni interne, sia cioè al desiderio del sé libidico, pericolosa fonte di nuove delusioni, sia soprattutto al bisogno di riparazione che lo ha sospinto costantemente verso le prove raccontate nella sua fiaba. Ovviamente, queste operazioni riparative erano condannate in partenza al fallimento: la inconscia precisione nella ricostruzione del contesto relazionale, pur se per correggerlo, per guarirlo, non poteva che portare al medesimo risultato negativo. Che cosa gli restava dunque, se non il ritiro, lo spegnimento, il preferirei di no?
Questa è una seconda risposta al fascino che viene esercitato da Bartleby: oltre all’armadio chiuso fantasticato come forziere, lo scrivano rappresenta il deserto che spegne la vita, auspicato regno di silenzio e di assenza. Provare terrore per ogni movimento che indica circolazione del sangue porta a distruggere ogni tentativo di rianimazione, a sentirlo come minaccia, come anticamera di una nuova, definitiva, delusione. A ciò risponde il sé vitale dell’altro, anche ostinatamente, prepotentemente, invasivamente: a ciò non riesce a resistere chi non tollera quel vuoto assoluto, quella distruttività senza obiettivo specifico (cioè la vera distruttività, e non la distruzione che prelude alla costruzione). Perché è così difficile resistervi? è l’imago della morte (Foscolo, non a caso, scriveva “forse perché della fatal quiete tu sei l’imago a me sì cara vieni, o sera”) o piuttosto la sensazione che quell’abbandonarsi all’assenza sia una tentazione che alberga da qualche parte dentro ognuno di noi? Anche la psicoanalisi fa riferimento alla necessità dell’assenza, ma spesso dovendo ricorrere ad un avverbio privativo: il “senza speculare né ruminare” di Freud, il “senza memoria e senza desiderio” di Bion, cioè, come suggerisce Jullien, l’attenzione senza intenzione. Non è solo questione di termini il poter parlare della posizione di base dell’analista, come suggerisce ancora Jullien (2012), senza ricorrere al negativo: parlare di “disponibilità”, fuori da qualsiasi connotazione generica e benpensante, “qualifica questa risorsa in modo unitario e insieme positivo”. La disponibilità implica effettivamente l’assenza di pregiudizi, implica “fare posto a”, implica una stabilità del sé aperta e al contempo selettiva, non irrigidita da attese pre-orientate, e soprattutto implica una posizione interna del terapeuta positiva, non segnata dalla “mancanza di”, cioè da qualcosa che a sua volta evoca perdita o peggio ancora sforzo di eliminazione. L’esempio dell’analista di fronte alla reazione terapeutica negativa, nei casi cui ho accennato, è invece la risposta di chi sente minacciato il proprio sé non soltanto professionale e lo difende ingaggiando una battaglia contro le ombre o, se vogliamo, contro i mulini a vento. “Tu metti in discussione il senso stesso del mio essere qui, di ciò che, in questo momento, fa di me ciò che io sento di essere”: fondamentalmente questo è il vissuto che può attivare nel terapeuta una risposta insistente e “offesa”, e quindi liquidatoria, nei confronti del paziente che ostinatamente dice “preferirei di no”. Ma allora, come si può rispondere a questo sconfortante rifiuto, quello senza rabbia e senza attacchi palesi, quello che semplicemente dice “preferirei di no”, quello che si colloca più verso la difesa che non verso la resistenza?
Bartleby e l’avvocato
Come si può comprendere da ciò che ho scritto, propongo di utilizzare Bartleby come metafora di una posizione psichica e relazionale improntata a un disperante e sommesso “preferirei di no” nei confronti della vita, poiché quest’ultima, proprio in quanto tale, è troppo dolorosa, rumorosa, ustionante. Mi vengono alla mente certi gatti randagi terrorizzati che si arroccano in un angolo e rifiutano qualsiasi cibo, per quanto affamati siano. Dietro il cibo c’è l’inganno, il nemico, la minaccia di morte. Tutto sommato, Bartleby potrebbe far pensare a questo, ma gli manca tuttavia la reazione vitale di difesa, quella che graffia, urla, in qualche modo risponde: il suo sguardo è vuoto e cerca il vuoto. Anche Enea non aveva reazioni aggressive, però seguiva attentamente i miei movimenti con lo sguardo guardingo del gatto che non sa se avvicinarsi o meno, non sa se il cibo così allettante che gli viene offerto è alimento avvelenato o nutriente. Questa potrebbe essere la grande differenza tra Bartleby ed Enea: nel primo non sembra esserci quella scintilla di vita che Enea invece ha manifestato fin dai primi colloqui. Eppure anche lo scrivano, all’esordio del racconto, cerca un rifugio, si presenta e si fa assumere dall’avvocato e inizialmente collabora fattivamente con lui. Poi, qualcosa si rompe.
Ciò che si rompe può essere rintracciato soltanto nella relazione con l’avvocato, la voce narrante che, dall’inizio alla fine, non comprende ciò che accade né con Bartleby né tantomeno con se stesso. Bisogna dunque approfondire la conoscenza di questo avvocato, per avvicinarsi alla dinamica mortifera che conduce lo scrivano alla morte vera e propria. Lui stesso si descrive come avvocato privo di ambizioni, le cui caratteristiche principali sono prudenza e metodo, che “mai corteggia il pubblico applauso” e cerca piuttosto “la pace di un comodo studio” nel quale occuparsi “tranquillamente di obbligazioni e dividendi delle persone facoltose”. Tuttavia lascia intendere altresì una considerevole piaggeria e bisogno di considerazione da parte di personaggi che ritiene importanti, quelli che hanno nomiche “possiedono un timbro sonoro e squillante, da lingotto d’oro”. Inoltre, questione ancor più pregnante, egli ha appena subìto una grave delusione: sperava in una carica all’Alta Corte, ma tale carica è stata abolita proprio quando era a un passo dal raggiungerla. L’avvocato proviene dunque da una notevole frustrazione narcisistica e non a caso, quando incontra Bartleby per la prima volta, lo descrive come “sbiadito nella sua decenza, disperato nella sua solitudine”: è evidentemente lo specchio dell’avvocato stesso, e proprio per questo nello scrivano c’è qualcosa che lo tocca, lo sconcerta, lo disarma in modo incomprensibile. Poco alla volta, l’avvocato ne resta affascinato in una escalation di collusione sempre più accentuata: “con lui (Bartelby), io posso acquistare con una spesa irrisoria il delizioso senso di comportarmi generosamente”, con lui “io accumulo un delizioso balsamo per la mia coscienza” a tal punto che dichiara di “ardere dal desiderio di essere nuovamente disobbedito”.
Questa dinamica che si autoalimenta mi pare evidenziare in modo straordinariamente chiaro il concetto lopeziano di collusione narcisismo-masochismo, un concetto a mio parere irrinunciabile in quelle patologie che si strutturano intorno a movimenti sacrificali e oblativi: quel buono e generoso schiavo dell’altro coincide con l’immagine di chi proietta il proprio stesso narcisismo vampirizzante sull’oggetto (in questo caso lo scrivano) e vi si asservisce nel tentativo di colmarlo e placarlo, tenendo per sé il ruolo di colui che dà, onnipotentemente ricco e generoso (Lopez, 2003). D’altro canto, Bartleby stesso si presta a rappresentare assai efficacemente il narcisismo vampirizzante, poiché nel suo silenzio e nel suo ritiro, nel suo “preferirei di no” c’è tutta la sfida ricattatoria ad essere raggiunto e stanato. Nel caso di Enea, la collusione si alternava nel gioco dei doppi ruoli: talvolta era l’avvocato riparatore (ad esempio con la donna alcolista alla quale aveva dedicato cure e attenzioni), talaltra era Bartleby (ad esempio con la sua attuale compagna, alla quale opponeva silenziosi e ribaditi “preferirei di no”).
Tornando a Melville, è doveroso chiedersi fino a che punto il bisogno narcisistico dell’avvocato, slatentizzato dalla delusione della carica sfumata, abbia alimentato la posizione di chiusura di Bartleby. Come ho detto, all’inizio lo scrivano si presta a svolgere correttamente il suo lavoro, vive a stento, ma vive. Poi, come avesse intuito il bisogno dell’avvocato, come avesse percepito di aver trovato un partner disposto a colludere, si lascia andare senza alcun limite alla sua disperazione, al suo vuoto, forse anche però alla sua richiesta di una risposta efficace, vera, di un cibo che sia quello giusto per lui. Alla fine del racconto, Bartleby finisce in carcere per vagabondaggio e rifiuta i pasti: l’avvocato allora chiede al secondino di procurargli il miglior cibo possibile, quello di una buona trattoria nei dintorni e paga profumatamente questo servizio. Ancora una volta, il bisogno narcisistico dell’avvocato di sentirsi buono e generoso contribuisce alla condanna a morte di Bartleby: lo scrivano, da sempre, mangiava solo biscotti allo zenzero. Di questo aveva bisogno, del cibo adatto a lui, di quello che poteva riconoscere come nutrimento buono, di un segno di essere nella mente dell’altro ricordato e colto nel proprio essenziale linguaggio. è nel biscotto allo zenzero che si nasconde il desiderio autentico di essere visto e conosciuto, così come per Enea si nascondeva nel richiamo denunciato dalla pistola. In quell’occasione, prima di essere inviato in collegio, l’arma rimase nel cassetto: un ultimo rifiuto di vedere il disagio, di cogliere soprattutto la realtà di quel disagio. Non gli hanno creduto, lo hanno sfidato a mettere in atto il suo proposito, come dire “tanto non ne hai il coraggio!”. Fortunatamente, Enea non ne ha avuto davvero il coraggio, se così si può chiamare, perché l’obiettivo non era distruggere ma cercare di non essere distrutto. “Come è possibile che tu non mi abbia visto, com’è che mi hai negato il diritto di esistere?”, così Press descrive il vissuto di chi guarda all’oggetto con l’angoscia dell’assenza. “Non hai visto, oppure sai e non hai fatto nulla?”: un’alternativa senza speranza, nella quale l’altro, l’oggetto, per non sprofondare nell’assenza può giocare soltanto il ruolo del persecutore indifferente o sadico, “creato” sulle tracce antiche e proiettato volta a volta sul mondo esterno.
La storia di Melville dunque, come afferma Bollas (1974), potrebbe riguardare più il narratore che il narrato, più l’avvocato che Bartleby. Nella sua lettura del testo egli vede infatti lo scrivano come oggetto di identificazione ambivalente da parte dell’avvocato: alla base, ci sarebbe dunque un tentativo di integrazione tra aspetti scissi del sé da parte dell’avvocato stesso. Se in parte l’affermazione di Bollas è vicina alla dinamica di proiezioni soggettive e oggettive dei doppi ruoli nella collusione narcisismo-masochismo, tuttavia ritengo che gli aspetti di realtà della relazione non possano venire sottovalutati: Bartleby non è solo il sogno dell’avvocato, il depositario della sua identificazione. è attivo, nella sua passività, così come lo è il suo datore di lavoro: “possiamo condurre i pazienti verso l’altro senso rimosso o misconosciuto, di un vissuto. Non possiamo squalificare il loro essere” (Pontalis, 1981). Il punto di rottura, per questi pazienti che si ritirano dalla vita, va appunto riconosciuto, anche se talvolta il trauma (o meglio la relazione traumatica originaria) diventa il punto intorno al quale si coagula una stentata forma di identità, l’unica alla quale sembra possibile aggrapparsi. “Preferirei di no” diventa allora “preferirei non guarire” perché guarire significa dire di sì alle parti sane di sé, spesso sentite con disprezzo come adattamento a richieste di normalizzazione e sottomissione, ripetizione mortifera dell’espropriante richiesta materna (Mariotti, 2012). Non si può, cioè, sottovalutare il fascino che il potere negativo esercita su chi si è sentito inerme e impotente, un fascino che illude di esercitare il dominio sull’oggetto attuale e che appare come capovolgimento dei ruoli: ora, l’impotente è l’altro al quale, pervicacemente e ostinatamente, si oppone il “preferirei di no”. Come scrive Zorzi (2009) a proposito di una paziente in reazione terapeutica negativa, talvolta “la fantasia del diritto al risarcimento perpetuo incista il paziente sul trauma” e rende dominante “il fascino per la potenza già sperimentata sull’ambiente circostante”. Nel caso di Enea, la potenza negativa non si esprimeva con l’attivazione dell’altro, come accade invece inBartleby, bensì con lo spegnimento, la sottrazione invisibile e il ritiro: là dove andava non poteva raggiungerlo nessuno, sicché poteva sentirsi più forte e potente di tutti gli altri in una sorta di anoressia affettiva.
L’analista e i biscotti allo zenzero
Parliamo dunque del giusto cibo, di quello che il paziente necessita e soprattutto riconosce come alimento nutriente. Alla scoperta dei campi di concentramento nazisti, gli americani che vi entrarono, sconvolti e inorriditi, distribuirono a piene mani cioccolato e scatolette iperproteiche: abituati al terribile digiuno, molti prigionieri morirono. Il cibo giusto, per chi ne è stato privo fin dall’origine, non può dunque essere eccessivo e indiscriminato, non “compatendo e compiangendo” (Zorzi) si offre l’alimento cercato. Solo biscotti allo zenzero, cioè ciò che preconsciamente percepiamo come adeguata risposta al bisogno del paziente. Mentre Bollas (1974), ad esempio, parla della “simpatia che l’avvocato ci muove”, io, francamente, questa simpatia non l’ho proprio provata, bensì, come ho cercato di chiarire, ho semmai sentito il bisogno cieco e narcisistico dell’avvocato di colmare sé tramite interposta persona, come quegli americani che, mossi dal bisogno di scacciare il fantasma di sofferenze inconcepibili, portavano inconsapevolmente alla morte chi necessitava di soli biscotti allo zenzero.
Quale è dunque il giusto cibo per Bartleby-Enea? La mia risposta controtransferale è stata orientata in una doppia direzione: una certa sonnnolenza che talvolta Enea mi procurava e al contempo un senso di divertimento di fronte al suo stupore nella relazione con me. La sonnolenza ha matrici ben chiare, risponde alla volontà di addormentare anche me, di spegnermi per rimanere nel limbo vitale che Enea si era costruito. Il divertimento sicuramente rispondeva al mio rifiuto di essere addormenta, spenta. Ma non solo, nel divertimento c’era anche il winnicottiano insegnare al paziente a giocare e c’era altresì la risposta alla richiesta di una madre vitale, capace di divertirsi con lui non come “sostituto di”, ma proprio come compagno di giochi specifici e scelti appositamente. Una madre eccitante vitale contro una madre eccitante mortifera. A piccole dosi, naturalmente, per non incorrere nel rischio di una eccitazione a vuoto, frustrante e nuovamente disillusiva.
Questo clima aveva creato tra noi una corrente vivace, nella quale io nuotavo come il pesciolino rosso della sua favola, invitando il paziente a giocare con me, e aveva reso possibile il suo accomodarsi sulla poltrona, spostando il cuscino e riposizionandolo poi alla fine della seduta. Attentamente, lo rimetteva esattamente come lo aveva trovato, con i disegni orientati nella medesima direzione. Questi gesti in fine seduta stavano tra la ripetizione dell’assenza, come ad esserci senza lasciare traccia alcune nella mente dell’altro, e la bonificazione della propria presenza: l’oggetto può non essere distrutto né dall’identificazione con gli aspetti mortiferi materni né dall’invidia attivata da sentimenti di inferiorità. L’introiezione dell’oggetto vitale e non distrutto gli ha permesso di commentare, a proposito dei B-block, che non tutto era stato devastato, di ritrovare cioè quella scintilla vitale che avevo percepito nel vecchio e triste signore delle prime sedute. “Per me”, scrive Ogden (2015), “questo è un bisogno universale: il bisogno di ogni persona di rivendicare, o asserire per la prima volta, ciò che di sé è andato perduto; nel fare questo realizza l’opportunità di diventare la persona che ha ancora la potenzialità di essere”.
Gli ho offerto i suoi biscotti allo zenzero? Evidentemente sì, grazie alle sue indicazioni a proposito delle proprie preferenze, grazie soprattutto a una sua segreta insistenza sul valore del no: ascoltandolo, mi appariva chiaramente il bisogno del no personale di cui parla Pontalis. Enea, infatti, si sottometteva alle richieste del mondo circostante con la rassegnata indifferenza che lo spingeva a invidiare Bartleby: non era la negazione freudiana che nel negare implica una presenza specifica, cioè l’affermazione proprio di ciò che viene negato. Il suo era un no generico, impersonale, a trecentosessanta gradi. Così era anche il suo sì, senza vita e senza scelta. La possibilità di un no personale, discriminante, si è profilata gradatamente, masticando le mie interpretazioni e i miei commenti, riuscendo qualche volta a sputarle e più spesso a digerirle. Lo invitavo a dire no alle richieste che non gli piacevano e poco alla volta si è affacciata anche la rabbia quando si ritrovava a fare cose che non gli garbavano. Per capirci, dire veramente no è diventato possibile quanto dire veramente sì, “senza se e senza ma”, senza padre e senza madre, soltanto quando la rabbia non lo spaventava più e il proprio “no”, divenuto personale e selettivo, non ha coinciso più con l’uccidere l’oggetto. In altre parole, possiamo dire che si è rotto il circolo vizioso “distruzione-(angoscia)-riparazione”, al quale Enea aveva cercato di sfuggire ritraendosi dalla vita.
Una postilla aggiuntiva
Quando ho chiesto a Enea l’autorizzazione a scrivere questo lavoro, mi ha risposto immediatamente di sì (!), esortandomi a non censurare alcunché. Era contento, e gli veniva alla mente il titolo di un libro che aveva perduto, ma che l’aveva molto colpito parecchi anni prima: Ogni vita merita un romanzo. Evidentemente, si era sentito riconosciuto, valorizzato e narcisisticamente gratificato. Alla seduta successiva, tuttavia, non lo vedo comparire senza avermi avvertita per tempo. In diversi anni era la prima volta che accadeva: capisco che l’essere oggetto di un mio scritto aveva scatenato una reazione, forse, mi chiedo, è il suo modo per dirmi “preferirei di no”? Dieci minuti prima dell’ora dopo la sua, suona il campanello e un po’ agitato mi dice che si era confuso, e che poi gli era venuto il dubbio di avere lasciato passare l’orario giusto. La settimana seguente ha cercato le sue antiche difese e si è giustificato con una “amnesia da anziano”. Ovviamente questo tentativo regressivo è stato rapidamente superato e quando ho collegato il suo atto mancato a ciò di cui avevamo parlato, al mio scritto su di lui, ha commentato che effettivamente c’era un collegamento: aveva passato la settimana a cercare su Internet il libro di cui mi aveva parlato, voleva riceverlo e portarmelo, ma non glielo avevano ancora consegnato.
Tra sbronza narcisistica, eccesso di gratitudine, bisogno di compensarmi, desiderio di infilarsi nella porta che gli avevo aperto (i biscotti allo zenzero gli avevano stuzzicato la fame atavica?), si era evidentemente sentito in debito. Un eccesso di riparazione per il mio tempo dedicato a lui, lasciandomi libera un’ora intera? Dei suoi eccessi di riparazione sappiamo già tutto, ma questa volta Enea aggiunge che nella sua prima analisi la fiaba era stata interpretata in tutt’altro modo: “non sembra proprio possibile la relazione con una donna” gli aveva detto l’analista, riferendosi al fatto che la fanciulla ex pesciolino rosso era una sorta di sirena. Al contrario, io gli avevo detto che finalmente l’oggetto d’amore era stato raggiunto, grazie al fatto che aveva scelto di non sottoporsi più a prove estenuanti per inseguire l’amore negato. La differente interpretazione, certo legata a fasi diverse nell’emancipazione di Enea, rimanda però anche alla netta differenza di lettura del pesciolino rosso-sirena: illusione per fuggire dalla realtà oppure preconscia speranza? Personalmente, ritengo che uno dei compiti della psicoanalisi sia cercare “di restituire al paziente il gusto di vivere”, lavorando “per la messa in movimento del desiderio” (Thanopulos, 2015),desiderio che, sul filo del tempo, si lega a sua volta alla speranza come espressione di Eros, contrapposta alla rassegnazione mortifera (Pellizzari, 2015). Credo che la ricerca del libro introvabile (ma poi trovato) sia stata, per Enea, il recupero del suo “romanzo di vita” e al contempo la ripetizione delle antiche prove e del loro superamento (il libro poi non lo ha portato): in fondo, l’amore analitico è l’amore per la sirena della sanità e per chi la rappresenta . è al contempo un amore necessario e impossibile. Nel transfert si è giocata così l’opportunità di “tradurre la non cosa in un’assenza rappresentabile” (Vecchio, 2009): nel lutto della perdita di ciò che non c’era mai stato, si è gradualmente definito un sì che, come dice Pontalis, poteva nascere solo da un no autentico e personale.

Bibliografia
Balsamo M. (2014), Avrei preferenza di no. Psiche, 2, luglio. Bollas C. (1974), Melville’s Lost Self: Bartleby. American Imago, 4. Jullien F. (2012), Cinque concetti proposti alla psicoanalisi. La Scuola, Brescia 2014. Koritar E. (2014), De la mort à la vie. Psychanalyse en Europe, 68. Lopez D. (1988), Lo psicoanalista grande seduttore. gli argonauti, 36, marzo. Lopez D. (2003), Sulla persona. Rivista di psicoanalisi, 4. Mariotti G. (2008), Il trauma dell’insight. Quaderni de gli argonauti, 16, dicembre. Mariotti G. (2012), Paura di guarire e paura del benessere. gli argonauti, 134, settembre. Melville H. (1853), Bartleby lo scrivano. Einaudi, Torino 2006.
Ogden T. H. (2015), La paura del crollo e la vita non vissuta. Rivista di psicoanalisi,
61, 1. Pellizzari G. (2015), Due aspetti dell’azione terapeutica: speranza e metafora.Rivista di piscoanalisi, 1.
Pontalis J. B. (1981), No, due volte no. Perdere di vista. Borla, Roma 1993. Press J. (2014), Il transfert del negativo. Psiche, 2, luglio. Thanopulos S. (2015), La cura analitica. Rivista di piscoanalisi, 1. Vecchio S. (2009), Dalla negazione al lavoro del negativo. Quaderni de gli argonauti,
17, giugno. Zorzi L. (2009), Un’attrazione infernale. Quaderni de gli argonauti, 17, giugno. Zorzi L. (2012), L’incubo come intermittenza dissociativa. In: D. Lopez, L. Zorzi,
La sapienza del sogno. Mimesis, Milano. Zucconi S. (2009), La reazione terapeutica negativa. Quaderni de gli argonauti, 17, giugno.

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