BUONA VITA
Sostenibile e Insostenibile, tra Psiche, Polis e altre Mutazioni
di Luigi D'Elia

L’epoca dell’amore esitante

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29 marzo, 2016 - 11:58
di Luigi D'Elia
Nulla come la professione di psicoterapeuta consente di affondare lo sguardo nello spirito del tempo e di cogliere o di isolare come fenomeni a se stanti, aspetti della contemporaneità in fieri afferrandone in anteprima elementi salienti e distintivi.

In questa rubrica ho provato a svolgere in molte occasioni questo compito focalizzandomi sull’osservazione dei nostri tempi e approfittando un po’ del privilegio del raccoglitore di storie o se vogliamo dell’estrattore di nuove forme di vita, stupendomi talvolta delle sensibili differenze tra quanto accade oggi e quanto accadeva solo pochi anni fa.

Testimone, spesso attonito, di questo scarto tra epoche contigue e vicinissime, spero non stordito dalla rapidità dei cambiamenti, mi cimento in descrizioni tentando semplificazioni a volte ambiziose, a volte impossibili.

È il caso del tema scelto per questo breve articolo, l’amore, le cui traiettorie il mio psico-sguardo intercetta quotidianamente in moltissime sedute, direi in quasi tutte, connotando a volte intere giornate di lavoro con pazienti diversi.

Dire qualcosa di invariante dell’amore è per me operazione impossibile che lascio volentieri a poeti e artisti, che molto meglio di me possono raccontarci ciò che muove il firmamento interiore dei sentimenti. Da osservatore sociale mi limito a cogliere invece le variazioni sul tema, o se vogliamo le varianti epocali, specialmente quelle culturalmente e socialmente determinate.

Una di queste varianti recenti che mi è capitato di osservare riguarda l’inedita cautela con la quale le ultime generazioni si approcciano alla vita sentimentale: si tratta per lo più di giovani adulti (ma anche non più giovani) che raccontano di non essersi mai innamorati o di aver conosciuto l’amore in rarissime e lontane esperienze giovanili o adolescenziali mai più ripetute, collezionando per il resto del tempo, quando non si tratti talvolta di vite vicine all’ascetismo o all’asessualità, di esperienze che definirei “para-sentimentali” quasi sempre brevi o medio-brevi per le quali non solo il piano progettuale della coppia non appare mai all’ordine del giorno, ma dove l’impegno reciproco in coppia è diventato misurato e dove il coinvolgimento emotivo è deludente e flebile. Talvolta ci si incontra ancora con una certa quota di passione iniziale che si sa già dapprima essere transitoria e fugace e ci si lascia presto senza troppi sussulti emotivi alla prima difficoltà o idiosincrasia caratteriale.

Spesso la vita amorosa viene vissuta come uno spauracchio da maneggiare con estrema cura districandosi tra ferite e cicatrici del passato, soglie al dolore psicologico e alla frustrazione bassissime, aspettative di fregature ricorrenti più che auto-profetiche, ed un sentimento diffuso di inadeguatezza alle vicende amorose come se la vita sentimentale fosse diventata una bella grana di cui si farebbe volentieri a meno.

Si giunge, per le donne in particolare, ma anche per gli uomini, ben oltre la soglia di una fertilità sufficiente con l’idea semidelirante che tanto ci sarà sempre tempo per pensare alla genitorialità. Questo essenzialmente a causa dello scarto, sempre maggiore in questa epoca, creatosi tra percezione di adultità e vita biologica: adultità sine die a fronte di una vita biologica certamente prolungata di alcuni anni, ma pur sempre con un limite. Sensazioni/percezioni senza limite e corpo con un limite. Questo è lo scarto incolmabile dell’oggi; vita psichica immaginifica (alimentata da codici sempre più immaginifici veicolati dai nuovi media) e vita biologica di fatto inalterata.

 Non è raro incontrare ultraquarantenni con il progetto futuro di un figlio, vissuto incongruamente come un qualcosa di là da venire, ma del tutto privi/e di minime coordinate emotive e sentimentali per l’incontro con l’altro e completamente impreparate ad una vera condivisione della vita di coppia (che come sappiamo bene richiede autosuperamento e fiducia).

E se per i 30-40enni questa impreparazione appena descritta è già frequente, per le generazioni ancora precedenti la frequenza con la quale si intercettano giovani del tutto analfabeti (e quindi anche demotivati) rispetto alla vita sentimentale e di coppia è molto maggiore.

Difficoltà di capire le coordinate delle scelte di partnership dovuta ad una prevalenza di modalità proiettive su criteri fondati sulla verifica e l’esperienza. Difficoltà a leggersi dentro emotivamente, a leggere anche i segnali del corpo, ad integrarli ad una vita psichica affettivamente composita, parti di sé mantenute scisse, specie quelle relative alla sessualità ed impossibilità di utilizzare la sessualità come forma evoluta di conoscenza di sé e dell’altro e quindi impossibilità a capire con chi si ha a che fare e chi si ha veramente di fronte a sé.

Si pensava fino a poco tempo fa che gli innamorati fossero in grado di spostare le montagne, che l’amore che sboccia liberi quantità di energie psichiche inaspettate che fondano e fertilizzano la mente e il corpo. Dobbiamo revisionare questo immaginario dell’amore se non proprio archiviarlo.

Oggi la scena che troviamo di fronte a noi appare del tutto cambiata. L’amore (eros, sentimento e spirito) non è più esperienza così accessibile e non fertilizza più il tessuto sociale come non fertilizza più i corpi e le menti dei giovani con la sua componente trasformativa.

Gli amori esitanti stanno sorpassando di numero quelli coraggiosi e fondativi. Quale tipo umano ci riserva il futuro a partire da queste premesse?

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Commenti

Dall'osservatorio privilegiato dello psicoterapeuta, D'Elia fotografa -anche con attenzione sociologica - le modalità nelle quali il cosiddetto 'amore' si dipana nel nostro tempo. Provvisoriamente conclude notando che "gli amori esitanti stanno sorpassando di numero quelli coraggiosi e fondativi" e si / ci chiede quale tipo umano ci riserva il futuro a partire dalle premesse osservate.
Domanda stimolante, alla quale però vorrei premetterne un'altra: quale tipo umano è sotteso alle modalità stesse?Forse è utile evidenziare che le relazioni amorose del nostro tempo (riferendomi, in accordo con D'Elia, alla fascia dei 30-40enni ) rappresentano modalità ascrivibili a strutturazioni di personalità di tipo narcisistico, oggi ampiamente diffuse. Nella mia esperienza clinica, vedo da almeno dieci anni soggetti (anche quelli almeno apparentemente adattati al mondo della produzione), con relazioni assenti o instabili, prevalentemente impauriti dal coinvolgimento emotivo sentito come potenziale rischio di annullamento di sè, come probabile caduta in una dipendenza affettiva. Se un tratto emergente della personalità borderline è la ipersensibilità al parametro 'distanza', non ci stupisce che alcuni dei 30-40enni cerchino o intrattengano relazioni on line, che sembrano salvaguardare da un concreto contatto, e che paiono quindi configurare la 'distanza ottimale'.. vicini e lontani allo stesso tempo. Altri, di converso, come paradossale rimedio ai rischi sopradetti, si immergono in relazioni amicali simbiotiche, a volte non riuscendo a scorgerne la crescente dipendenza.... Non volendo dilungarmi, avanzo - in termini junghiani - una lettura possibile: che ci sia nei soggetti osservati una integrazione non raggiunta tra Animus ed Anima, ovvero tra fattori maschili e femminili, intesi sia in senso intrapsichico sia interpersonale. Questo mi sembra essere il quadro delle relazioni nel nostro tempo di Narciso.... Forse gli amori forti e coraggiosi, anche ribelli e trasformativi, appartengono maggiormente al tempo di Edipo....?.

Non so, Simonetta, temo che il nostro approccio riparatorio e integrativo come terapeuti rivolto a fattori interni della personalità rischi di risultare velleitario (e a volte anche incongruo) a fronte della percezione di pericolosità e di svantaggio che l'esperienza amorosa trasmette oggi agli amanti che vogliano avventurarsi in un impegno più ampio rispetto alla coppia. La realizzazione di sé attraverso l'incontro con l'altro e attraverso la realizzazione autonoma di tappe maturative (attraverso la coppia) sembra aver da tempo lasciato il posto, nell'immaginario collettivo, alla realizzazione di sé in quanto sovrani del proprio regno felice. L'altro appare sempre meno nell'orizzonte della nostra felicità e realizzazione e se compare porta sempre più problemi che altro.
Questo mi sembra che abbiano acquisito le generazioni di cui parlo nell'articolo. Bisogna andarci molto cauti, sembrano dire gli attuali amanti, perché l'altro non solo ci porta a sviluppare una penosa dipendenza da lui/lei (ed infatti le dipendenze affettiva sembrano dilagare) ma anche perché l'altro non si familiarizza mai, rimane sempre sul bordo della nostra personalissima ricerca di felicità in quanto estraneo, non combaciante con il mio ideale di realizzazione di me stesso di cui è custode la mia famiglia di origine per conto mio.

Il rischio, coglibile, è che si continui - nel nostro tempo di Narciso - ad imbastire relazioni costitutivamente fragili perchè l'essere in due - nel rapporto amoroso - appare dimensione alquanto critica e 'spaventosa'. Ne abbiamo accennato, qui, alcune configurazioni, ed il panorama attuale non ci conforta .. ma premettendo che sono portatrice di un realismo che non perde di vista le opportunità contigue ai rischi... credo che qualcosa si possa fare. Di nuovo considero l'esperienza clinica degli ultimi dieci anni, e vedo alcuni (pochi) soggetti (certamente le personalità sufficientemente integrate), condurre relazioni attraverso anche crisi e criticità, non smarrendo il progetto di vita e di famiglia. Altri, (più gravi), man mano che rompono lo schermo vitreo dell'isolamento narcisistico, e con la conquista faticosa di confini rassicuranti attorno al proprio sè, osano man mano relazionarsi: questo avviene quando si è acquisita una adeguata certezza della propria individualità, e non si sente più come deterrente il rischio di una invasione / annullamento. Insomma, D''Elia, credo che il nostro approccio, quello che tu chiami riparatorio e integrativo, non sia sempre velleitario.. arduo certamente; ma abbiamo mai noi creduto che il nostro fosse un lavoro facile...?

Forse si comincia a capire, magari grazie all'impatto della psicanalisi, che l'innamoramento è un inganno narcisistico, se va bene, o una copertura dell'odio, se va male. Da qui la prudenza in amore, perché quello autentico è raro e mai radicato nell'innamoramento, anzi, è fondato sempre più sull'intimità del quotidiano. François Jullien ha scritto belle pagine in proposito. Cfr. F. Jullien, Sull'intimità. Lontano dal frastuono dell'Amore (2013), trad. R. Prezzo, Cortina, Milano 2014.
Antonello Sciacchitano

L'intimità dell'amore è infatti una dimensione quasi sconosciuta, nel momento in cui la si comincia a sfiorare e frequentare si connota talvolta di elementi perturbanti: l'altro diventa all'improvviso l'estraneo, lo sconosciuto, l'inquietante. Persa la dimensione dell'innamoramento si disperde anche la familiarità dell'altro.

Ritrovo, Luigi, in questo post molti elementi che mi riportano ai miei pazienti.
Tu accenni giustamente al procrastinarsi sine die dell'accesso alla pienezza dell'età adulta come elemento che ci aiuta a comprendere l'infertilità dei corpi e delle menti. Ma, come tu stesso adombri nel tuo post, questa impostazione 'sociologica' non è sufficiente a spiegare il fenomeno. A mio avviso un altro elemento che si ritrova in molti neo-adulti (ma anche in adulti senza 'neo', come dici) é il passaggio da una forma d'amore basata sull'andare verso l'altro ad una, oggi prevalente, incentrata sull'attesa che l'altro venga da me; potremmo dire sul passaggio dal modo anancastico di amare e quello anaclitico, peraltro spesso incentrato su quelle 'modalità proiettive' cui tu fai riferimento. Ma anche questo non basta a spiegare quella 'anoressia affettiva' che mi pare essere il fulcro del tuo discorso; quella 'stasi' che anch'io ritrovo in molti miei pazienti.
Ciò che mi pare di intravedere in alcuni uomini neo-adulti è come un senso di replezione dovuto ad un percorso di crescita tutto incentrato sulla corrispondenza piena ed appagante con l'oggetto d'amore primario, che nella famiglia affettiva spesso è avvenuta senza alcuno 'spargimento di sangue'.
Non so se mi sono spiegato.
Comunque molto interessante! Dino Angelini

Certo che se il mio egocentrismo emotivo è saturante e mi aspetto che il mondo mi giri attorno, la vedo difficile che io mi incammini verso qualcosa o qualcuno da cui dover in qualche modo dipendere, seppure in cambio di amore. L'idea stessa di sottopormi a una qualunque forma di dipendenza di cui non conosco le coordinate è di per sé fonte di terrore.

Carotenuto nel suo libro sulla seduzione avanzava l'ipotesi che nell'etimo della parola 'sedurre' fosse riscontrabile (anche) la radice "sed\ducere" = menar(si) in un luogo 'altro': qualcosa cioè indicativa di un incontro e di uno scambio che 'mena' ad un incontro con un oggetto scentrante.
Qui ci troviamo invece di fronte a soggetti che, nella migliore delle ipotesi, aspettano di essere confermati da una fotocopia di sè. Nei casi cui tu alludi - e che anch'io ritrovo - ad un 'menarsela' sic et simpliciter, per paura dell'altro, ma anche dell'incontro con la fotocopia di sè.
Nei miei casi questa propensione alla stasi mi pare prevalentemente maschile. Su questo mi piacerebbe sapere ciò che avete riscontrato voi, Luigi e Simonetta ...


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