PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
di Paolo F. Peloso

NELL’AREA GRIGIA TRA MEDICINA E GIUSTIZIA, STA LA PERSONA. Pensieri sulla questione OPG, di ritorno da Pontignano. Parte II: … a tentoni nella notte (cercando di non dare facciate).

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16 giugno, 2016 - 14:26
di Paolo F. Peloso
Segue da: Parte I: Il bianco e il nero
 
Nell’area grigia (2). Sono stato, in passato, tra i più convinti sostenitori della necessità di evitare, tra clinica e giustizia, un incontro diretto, una contaminazione, perché la cura ne sarebbe uscita deturpata nei suoi fondamentali presupposti. Credo invece che, oggi, questo incontro controvoglia sia divenuto indispensabile. Non si tratterà più della cura - e credo che sia fondamentale chiarirlo! - si tratterà della “cura possibile” all’interno del dispositivo della misura di sicurezza (finché tale dispositivo esisterà), con tutti i rischi deontologici impliciti nell’inscrivere quelli che sono alcuni contenuti della cura nel contesto di un’azione volta al giudizio, alla difesa sociale, alla retribuzione; e sia pure alla riabilitazione, ma riabilitazione morale e riabilitazione attraverso questa filosofia e questi strumenti. Si tratta insomma per gli uni di rinunciare del tutto alla superstizione di una concezione astratta e meramente contrattualistica del diritto; per gli altri di rappacificarsi con la funzione di pacificazione sociale al servizio dell’ordine per come in quel momento è costituito, che rappresenta una delle inevitabili ambiguità dell’identità psichiatrica e a quel controllo sociale che, come Verde ha ricordato da Manacorda, è prodotto collaterale di ogni intervento istituzionale. Per entrambi, di mettere le mani in pasta e sporcarsi. Come operatori sanitari e come sistema di cura, dobbiamo essere consapevoli della tensione dialettica che ci sarà necessaria per definire con la controparte i confini del rispettivo potere, ma anche del fatto che questo incontro non può essere rinviato. Incontrarsi sul confine, curvarsi insieme sulla persona, sedere insieme intorno a un tavolo, dunque, sono diversi modi di esprimere questa esigenza. Ogni soluzione altra appare semplicistica, riduttiva; alla sanità è chiesto un grande impegno in questa fase per quello che viene definito il “paziente psichiatrico giudiziario”, e la sanità ha bisogno di contare, di portare i propri contenuti tecnici, di non essere considerata solo mero esecutore di decisioni altrui: gli snodi più delicati, mi paiono due. In primo luogo, poter dire in qualche misura la propria sulla definizione di chi entra nel discorso. In psichiatria, è una questione di soglia. Si tratta di stabilire oltre quale soglia la malattia  da curare conta più del delitto da punire, e il reo deve entrare in quest’area di ragionamento, in questo percorso. In secondo luogo, poter dire in qualche misura la propria sui contenuti dei percorsi che sono utili per una determinata persona, quello che è necessario fare e quello che è possibile fare. Il quando, il cosa, il come, il dove che poi, a questo punto, sarà la sanità soprattutto ad attuare.
 
Modelli per l’incontro. Ma quali possono essere le modalità per questo incontro? Dovrebbero essere modalità attraverso le quali sanità e giustizia si muovono entrambe per consentire che, a parlarsi, siano direttamente il giudice che decide il destino giudiziario del reo, e i clinici che all’interno delle decisioni prese dal giudice avranno il compito di mettere in campo di un progetto di “cura possibile”. Questi due soggetti direttamente implicati nella questione: il clinico che spesso ha già un’esperienza diretta della presa in carico del soggetto, se è in carico, e può utilizzarla, e che sarà in ogni caso il responsabile della sua presa in carico nel percorso giuridico e clinico insieme, alla cui definizione avrà potuto così prender parte; e il giudice che, valendosi eventualmente del perito che lo supporti, lo giudica. Questo auspicava, come ho ricordato, Emilio Lupo subito contraddetto già in quell’occasione peraltro da un esponente di Magistratura Democratica che optava invece per l’UFPF.
L’UFPF, l’idea cioè che la psichiatria clinica possa essere rappresentata nell’interfaccia col giudice da una sua componente “specializzata” in materia forense individuata all’interno del DSM, l’Unità Funzionale di Psichiatria Forense (UFPF), non mi pare sufficiente a consentire questo incontro. E’ troppo poco; rischia anzi, nonostante le migliori intenzioni, di essere d’impiccio e di ostacolo perché, soprattutto nei DSM di grandi dimensioni, crea una realtà terza destinata a interporsi, ancora una volta, tra il giudice che decide e lo psichiatra (il gruppo di lavoro psichiatrico) che concretamente si misurerà poi con la praticabilità e le difficoltà delle sue decisioni, un modo nuovo, insomma, di evitare rendendola formale e non sostanziale quell’interlocuzione diretta tra giustizia e cura della quale si avverte la necessità. Mi pare, insomma, che l’UFPF rischi di essere l’ennesima cortesia che il mondo della sanità fa a quello della giustizia (e in questa vicenda ne sono già state fatte tante) perché possa passare indenne attraverso il processo di chiusura dell’OPG, senza minimamente rivedere prassi operative e organizzazione. Ma perché l’incontro possa avvenire nei termini nei quali è necessario bisogna che siano entrambi i soggetti a curvarsi, uno solo non basta.   
A Pontignano i colleghi statunitensi hanno illustrato un modello che appare per alcuni aspetti speculare all’UFPF, nel quale è soprattutto la giustizia ad adattarsi, ed è quello della “Mental Health Court” (MHC) usata negli Stati Uniti con il compito  di giudicare i rei affetti da malattia mentale e di seguirne il percorso penale in stretta relazione con gli operatori sanitari direttamente coinvolti nella presa in carico. Gli strumenti giuridici attraverso i quali per lo più opera questo modello sono le diverse alternative alla pena delle quali è ricca la legislazione di molti degli Stati Uniti, condizionate dal rispetto di alcune prescrizioni riferite alla cura; quelli clinici, imposti attraverso la "leva legale",  consistono spesso in una versione modificata dell’Assertive Community Treatment (ACT), che è il modello di presa in carico più diffuso in quel contesto, il Forensic ACT. Oltre a permettere la partecipazione al tavolo dei soggetti direttamente coinvolti nella presa in carico sanitaria, questa soluzione potrebbe essere anche più rispettosa di un principio di “uguaglianza nella differenza” specializzando nel senso delle conoscenza dell’assistenza psichiatrica un settore del mondo giuridico, e non in senso forense una parte del mondo psichiatrico come nella UFPF, garantendo al giudice, che in definitiva sarà colui che decide, maggiori capacità di ascolto ed esperienza in quel campo particolare che è la malattia mentale, con le intermittenze e discontinuità delle quali è necessario tener conto, la possibile coesistenza di aspetti contraddittorio, le difficoltà prognostiche e poi il significato di concetti come presa in carico, comunità terapeutica, TSO, farmaci depot ecc. Un giudice esperto di quella particolare cosa che sono la psichiatria, i pazienti psichiatrici, ancorché divenuti giudiziari, e gli psichiatri. E una situazione nella quale, come diceva Lamberti, lo psichiatra possa non solo "riferire al" giudice, ma possa anche, almeno in qualche misura, "discutere con" il giudice. Forse bisognerebbe farci un pensiero.
 
Notizie dal Tavolo tematico n. 11 - Un altro momento importante dell’incontro di Pontignano è stata l’esposizione, per sommi capi, da parte di Ugo Fornari della bozza di relazione finale del Tavolo tematico n. 11 “Misure di Sicurezza” degli “Stati Generali dell’Esecuzione Penale” attivati presso il Ministero della Giustizia, che lo ringrazio per avermi reso poi disponibile.
Il documento parte, per quanto è di nostro interesse, dall’esigenza di una migliore definizione dell’imputabilità, che da una parte tagli fuori dal filone principale di ragionamento sulle misure di sicurezza la seminfermità, e si concentri sulla infermità totale sforzandosi di delimitarla all’area dei disturbi psicotici e dei “gravi” disturbi della personalità[i].
Prosegue riaffermando con forza il principio della coercizione come “extrema ratio” per quello che viene definito “paziente psichiatrico giudiziario” e in questo senso propone, in riferimento alla gravità del reato, una gradazione estremamente interessante delle misure di sicurezza: dalla semplice segnalazione al DSM, fino alla REMS (qui ridenominata “Servizio Psichiatrico per Pazienti Giudiziari”), passando per “misure obbligatorie di cura e controllo”, estremamente flessibili e da stabilirsi caso per caso e da scontarsi in relazione con il circuito psichiatrico ordinario[ii]. E’ una parte che nel suo insieme rappresenterebbe un reale passo avanti!
Compie uno sforzo di armonizzazione delle diverse disposizioni in materia di “misure cautelari psichiatriche e di misure provvisorie di cura e controllo”, obiettivo molto condivisibile purché, come a tratti parrebbe, non corra il rischio che a un miglioramento della situazione della possibilità di accedere a luoghi più idonei per la cura psichiatrica dei soggetti sottoposti a misure di sicurezza definitive, non corrisponda un movimento in senso opposto per quelli sottoposti a misure provvisorie; ma su ciò ritorneremo.
Affronta la questione dei limiti di durata delle misure giudiziarie di cura e controllo, che ha costituito uno dei più evidenti problemi nella storia dell’OPG.      
Pone il problema della profonda crisi in cui versa la categoria giuridica della pericolosità sociale nel caso dei pazienti psichiatrici giudiziari, e propone soluzioni al riguardo.
Pone l’esigenza, pienamente condivisibile, di un regolamento per le REMS distinto da quello penitenziario.
Affronta, infine, altre questioni cruciali quali quella del trattamento sanitario obbligatorio per i soggetti assegnati alla REMS, per esempio.
Tutti punti fondamentali, credo, in merito ai quali vengono proposte soluzioni che mi pare perseguano, soprattutto, in una materia che è andata nei decenni incontro a tanti ripensamenti che manca ormai addirittura la struttura muraria fondamentale intorno alla quale tutto l’articolato era stato costruito, coerenza e razionalizzazione e che in non rari casi propone soluzioni intelligenti e feconde a questione che vanno da tempo trascinandosi.
 
PostOPG: che cos’è la cura possibile? Un ultimo stimolo, poi, vorrei cogliere ancora dalla conferenza di Pontignano nell’intervento di Alfredo Verde, il quale anziché del problema di “dove” collocare le persone, ha affrontato quello di “cosa” fare per curarle, della possibilità cioè di creare una “bola” terapeutica in un contenitore che in sé terapeutico certo non è. La chiusura degli OPG ha restituito ai servizi - nel territorio, nelle strutture, negli SPDC, nelle REMS - ormai diverse centinaia di soggetti, “révénents” prima dimenticati in quel contesto, rimossi in quei luoghi separati, per una difficoltà dei servizi ad affrontare il loro rapporto con il reato compiuto o le difficoltà poste più in generale dalla presa in carico. Essi rappresentano un campo nuovo, in buona parte, per la clinica, un campo nel quale ci stiamo cimentando e stiamo cercando di darci, non sempre con successo, buone pratiche. E di questa esperienza quotidiana, come operatori dei servizi e delle strutture impegnate, dell’esigenza di modelli operativi e di riflessione sul proprio operare, Alfredo sottolineava la necessità di cominciare a fare in modo più diffuso materia di formazione e di confronto.
 
Misure di sicurezza: tra rischi di “sanitarizzazione” e di “carcerizzazione”. Il manicomio criminale fu oggetto della discussione degli psichiatri fondatori della Società Freniatrica (oggi SIP) negli anni ’70 dell’800. Su molto altro avevano pareri diversi, ma su una questione erano unanimi: il carcere non è un buon luogo per la cura[iii]. Il carcere con le sue rigidità, la tendenza intrinseca ad omologare le situazioni, gli infiniti problemi che già di per sé presenta e la storica e costante precarietà della sua situazione sotto il profilo sanitario, che non sappiamo se e in che misura il passaggio della sanità in ambito penitenziario alle ASL abbia risolto. Il carcere, insomma, com’era allora, come lo conosciamo e com’è (inutile, e trovo anche un po’ ipocrita, fare invece riferimento nella discussione sull’OPG al carcere come dovrebbe essere, o come vorremmo che fosse). Ancora Rotelli, nello scritto già ricordato che pare davvero cogliere pienamente tutte le sfaccettature della questione, è lapidario: sanzione non significa necessariamente detenzione, e “resta fermo che cura e detenzione, in qualsivoglia istituzione chiusa, restino irrapportabili”.
La gestione dei rei affetti da infermità di mente e in senso giuridico pericolosi attraversa certo,  dopo la chiusura dell’OPG, un momento di difficoltà. Sono circa 550 i soggetti che hanno trovato collocazione nelle 23 REMS esistenti, quasi metà dei quali raccolti nell’originale e problematica “REMS multimodulare” di Castiglione delle Stiviere, assai distante già nelle dimensioni dallo spirito che ha animato la riforma; e sono una settantina quelle ospitate nei 3 OPG che restano aperti, e un centinaio quelli “in coda” per entrare in REMS, che stazionano per lo più in strutture sanitarie o nel carcere[iv]. Tra le ragioni di questa situazione si potrebbero individuare:
1.      l’eterogeneità nei tempi e modi con la quale le Regioni hanno recepito la nuova normativa, che fa sì che siano pochissime quelle che si sono fatte trovare pronte al momento della chiusura (ci sono Regioni che utilizzano REMS distanti dal proprio territorio, altre che ancora non ne prevedono, o che hanno proposto soluzioni discutibili).
2.      la sostanziale  sordità di una parte della Magistratura, in particolare di quella giudicante, alla legge 81/2014, che fa sì che la REMS non sia colta come la soluzione eccezionale per i pochi casi per i quali il normale circuito della salute mentale non darebbe sufficienti garanzie di sicurezza (l’extrema ratio), ma come il surrogato più umano dell’OPG.
3.      il fatto che una funzione non secondaria che storicamente negli ultimi anni l’OPG si è trovato a svolgere fosse quella di rispondere, quando i loro comportamenti arrivavano ad avere un rilievo giudiziario più o meno importante, a soggetti che l’organizzazione dei servizi - intendo i nostri CSM, gli SPDC, le strutture residenziali e i DSM nel modo in cui articolano tra loro queste funzioni - non era in grado di gestire. Un problema certo di risorse, come viene spesso giustamente richiamato, ma anche di modelli organizzativi e di culture di non facile soluzione, io credo, che la legge 81 non ha certo risolto per magia.  

Questa situazione di difficoltà e in parte anche di confusione, pone al centro del dibattito due questioni: la prima riguarda cosa fare, prima dell’assegnazione piena alla misura di sicurezza, di quei soggetti che vi sono provvisoriamente destinati. La seconda quale debbano essere gli standard di “tenuta” delle REMS, intese sia come strutture sanitarie che come strutture reclusive, e di conseguenza cosa fare di quei soggetti per i quali questi standard si dimostrino, sull’uno o sull’altro versante, insufficienti.
 
Nel limbo: prima delle misure di sicurezza. Intorno a Pontignano, dopo Pontignano, mi è capitato di leggere documenti pubblici di Società scientifiche dell’area psichiatrica e frequentare incontri pubblici tra esponenti delle associazioni che con più energia hanno sostenuto il processo di chiusura. L’aria che si respira - ed esprimo qui una preoccupazione, consapevole del fatto che sia probabilmente minoritaria e dissonante - non mi pare buona per quanto riguarda i soggetti in misura di sicurezza provvisoria che rischiano un restringimento, o un’abolizione, della possibilità di accedere alle REMS (per “l’esecuzione” della misura di sicurezza). Del resto, lo spostamento dei circa 150 internati in misura di sicurezza provvisoria che occupano oggi le REMS consentirebbe l’ingresso dei circa 100, in attesa scongiurando i timori di chi è preoccupato di alleggerire il carico sulle REMS in termini di responsabilità e del riverbero dalle difficoltà delle REMS sul circuito psichiatrico ordinario, come di chi teme un aumento incontrollato e inflattivo dei loro posti letto.
Già, ma spostamento dove? Perché si obietta pure che neppure le strutture del circuito psichiatrico ordinario, che rischierebbero di vedere posti letto impropriamente occupati per lunghi periodi ed essere snaturate nella loro funzione, sarebbero una buona soluzione. E non senza ragione….
Mi pare così che rischi di crearsi, per i soggetti in misura di sicurezza provvisoria, un meccanismo a tenaglia che restringa, da un lato, le possibilità d’ingresso nelle REMS e dall’altro tenda a tagliar la strada del ricovero in strutture psichiatriche ordinarie, limitandola a situazioni eccezionali o di emergenza. Avverrebbe così che la sanitarizzazione, insomma, dei soggetti in misura di sicurezza definitiva, sia pagata con la carcerizzazione di quelli in misura di sicurezza provvisoria (che poi sono in gran parte gli stessi soggetti, nel primo anno, che vada bene, della vicenda giudiziaria).
Si tratterebbe di una soluzione che, dal punto di vista giuridico, avrebbe indubbiamente una logica: il soggetto in misura di sicurezza provvisoria non è un infermo (non è ancora stato dichiarato tale), e vive una sorta di limbo; è perciò, rispetto a quello in misura di sicurezza definitiva, certo meno tutelato formalmente. Ma dal punto di vista sanitario (e dovrà pure contare pure questo qualcosa, qualche volta), mi pare che le cose stiano diametralmente all’opposto. Infatti, se è di malati veri e di reati gravi che si parla, mi pare evidente che la fase di cognizione che segue immediatamente il fatto corrisponderà a quella nella quale l’acuzie clinica, nel corso della quale il più delle volte il fatto si inscrive, è ancora presente o più vicina, e le emozioni scatenate dal fatto stesso sono più intense. Allora, semmai, sarà proprio nella fase di cognizione che maggiore sarà, il più delle volte, il bisogno di cura adeguata in luogo adeguato. La distinzione tra misura di sicurezza provvisoria e definitiva, tra fase di cognizione e di espiazione, del resto, è di natura giuridica. Queste due fasi nella clinica non trovano altro riscontro, se non quello citato.
Credo che dovremmo insistere allora, come clinici, sul fatto che l’accesso alla REMS come al circuito psichiatrico ordinario non debba essere organizzato per grandi categorie (provvisori vs definitivi, p.e.), ma piuttosto rifarsi alla filosofia di una grande sentenza della Corte costituzionale, la n. 253 del 2003, che ha rappresentato un tassello importante nella preistoria della chiusura dell’OPG con lo stabilire che nell’applicazione (provvisoria o definitiva a noi non interessa) della misura di sicurezza il giudice sia libero di perseguire, fatte salve le esigenze della sicurezza, nel modo e nel luogo migliore possibile la salute, un bene costituzionalmente tutelato. Semmai, aprendo anche in questo caso alla riflessione comune col clinico nel senso che abbiamo più volte richiamato. Perché fermo dovrebbe rimanere per tutti (e quindi anche  per chi è ancora in misura provvisoria), il principio ispirato sempre al minimo di coazione e al più possibile di cura, che dovrebbe ispirare coerentemente tutta l’evoluzione normativa in atto, senza contraddizioni.
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Nella REMS, e oltre la REMS. Le REMS rappresentano fin dal loro apparire strutture anfibie e ambigue, e la stessa definizione di “struttura sanitarizzata”, e non “sanitaria”, appare molto eloquente al riguardo. Perché pare alludere a un essere per sua natura altro (custodiale), ed essere poi “resa sanitaria” (credo che questo significhi “sanitarizzata”) nelle forme, nei modi, nelle modalità nelle quali questo primitivo mandato si esercita. Centrale, in tutto questo, è la questione, quella della loro “tenuta”[v] che mi pare presenti a considerare due versanti, entrambi complessi. Il primo è quello della tenuta sanitaria, se esse, cioè, debbano essere autosufficienti nell’imporre, quando occorra, le cure a chi le rifiuta o se quest’atto debba essere effettuato altrove (in SPDC). Il  Tavolo tematico n. 11 recepisce il problema e propone una soluzione. Il secondo profilo riguarda la tenuta che le REMS debbano avere in quanto struttura custodiale, della capacità e liceità, cioè, per il sistema sanitario di costringere, quando necessario, il soggetto a rimanere obbligatoriamente in quel luogo che l’autorità giudiziaria impone, e dei delicati profili di responsabilità eventuali a questo riguardo. Un compito che con la sanità è discutibile quanto abbia a che fare, ma al quale abbiamo visto le Regioni - man mano che nel corso del processo di superamento al mondo penitenziario veniva permesso di defilarsi - rassegnarsi precipitandosi, quale più rapidamente quale meno, dal ferramenta a fare acquisti di chiavistelli, porte blindate e telecamere nell’illusione di rendere così le cose più asettiche, minimizzando l’intervento diretto del personale sanitario in un ambito che forse non si era proprio del tutto convinti che fosse di propria pertinenza. E in relazione alla quale sono forse stati sottovalutati i livelli di responsabilità che scivolavano insensibilmente, insieme alla sanitarizzazione in atto delle misure di sicurezza sui cui rischi per l’operatore sanitario Roberto Catanesi ha cercato di richiamare l’attenzione in quella fase, sul nostro personale chiamato ad applicare misure di sicurezza giudiziarie. In un recente intervento il portavoce di Stop OPG, Stefano Cecconi, del resto, sottolineava proprio l’eterogeneità ed estemporaneità delle soluzioni adottate, che vanno da luoghi e momenti di attenzione più intensiva e maggiore collaborazione con le forze dell’ordine ricavati all’interno di istituzioni psichiatriche “normali”, a soluzioni quasi paracarcerarie gestite da personale in divisa bianca anziché azzurra. Da cui l’esigenza di un regolamento quadro per le REMS (o per diversi livelli di REMS progettati come percorso, e non sorti casualmente) avvertita nella relazione del Tavolo tematico n. 11, della quale si è detto.
La questione degli standard di tenuta, del resto, ha sotto entrambi i profili (sanitario e giudiziario) ricadute concrete importanti: mi pare evidente che REMS a maggiore tenuta saranno caratterizzate da maggiore autonomia organizzativa, mentre REMS più fragili si troveranno più facilmente nella necessità di cercare sostegno sui due versanti opposti dell’SPDC o forse anche del carcere (e semmai quando dell’uno e quando dell’altro?).
 
In conclusione. Abbiamo cercato, così, di riflettere in modo forse un po’ frammentario su aspetti di difficoltà, dubbi, timori, possibili soluzioni a oltre un mese dalla conferenza di Pontignano, un’occasione nella quale merito di chi la ha organizzata è stato quello di offrire, davvero, materiale per conoscere insieme e per riflettere, per individuare soluzioni concrete a problemi concreti e attuali. Non è stata certo uno dei tanti eventi scientifici o pretesi tali fatti per appagare il narcisismo oratorio di chi parla o la necessità di punti ECM di chi ascolta a cui capita spesso di partecipare. Credo che il momento attuale sia delicato e chieda alla psichiatria intelligenza, responsabilità, coraggio e generosità nell’aprirsi e mettere a disposizione luoghi, risorse, saperi perché i propri pazienti che sono andati incontro all’esperienza del reato possano essere curati dove e come è più possibile curarli, rinunciando ad atteggiamenti di chiusura miope e corporativa. E chieda alla giustizia di aprirsi a sua volta e rinunciare all’estrema discrezionalità e al grande potere che la Legge nell’interesse generale le conferisce, condividendoli in qualche misura, e nel rendersi disponibile a modificare prassi e modelli operativi quando necessario. All’una e all’altra chieda di essere all’altezza della situazione. E, insomma, di curvarsi, abbandonando il rassicurante bianco e nero della propria identità, sulla persona e cercare insieme soluzioni pragmatiche e utili a garantire, nella sicurezza, di volta in volta le condizioni migliori, nei luoghi migliori possibili, per la cura.

 
 
 
Nell’immagine: S. Cosma, patrono dei medici. Affresco nella cappella della Certosa di Pontignano



[i] Una scelta, questa, curiosamente opposta quella che, secondo quanto Liliane Daligand ci ha detto alla conferenza, è in atto in Francia dove, con forse maggiore attenzione alla realtà clinica, la tendenza è da anni verso un uso più estensivo della seminfermità e del tutto eccezionale della infermità totale. Delle radici della difficoltà a delimitare la figura del folle reo nella grande zona grigia delle anormalità ci si è occupati in questa rubrica in: DIFFICILE SEPARARE, DIFFICILE TENERE INSIEME. Félix Voisin, la costruzione dell’anormale come campo unitario e alcune questioni odierne sui confini della psichiatria
[ii] Verrebbe così superata in questi casi la libertà vigilata, con i problemi cui sta dando luogo alla luce dei limiti imposti relativamente alla sua combinazione con l’obbligo di dimora da recenti interventi della Corte di Cassazione.
[iii] Rinvio a: P.F. Peloso, F. Paolella, Dei claustri, e altro. Le origini del manicomio criminale nella psichiatria italiana dell’Ottocento, in: Il policlinico della delinquenza (a cura di G. Grassi e C. Bombardieri), Milano, Franco Angeli, 2016, pp. 15-71.
[iv] Non potendo riprendere più completamente qui queste questioni rimando ad accenni in: Peloso P.F., Liberi (proprio) tutti? Un confronto tra la chiusura degli Ospedali Psichiatrici e degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in Italia, L’arco di Giano, 85, 2015, pp. 15-28.
[v] Ricordo che su di essa ci siamo già parzialmente soffermati nel corso di un precedente intervento su questa rubrica:  LA CHIUSURA DELL’OPG E I SERVIZI. Note a proposito di psichiatria, controllo, quanto controllo.
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