PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
CORPO E CITTA’: spazialità e corporeità dei dispositivi disciplinari in occasione del G8 genovese. 20 years later - Parte I
19 luglio, 2018 - 02:34
Genova non ha scordato
Perché è difficile dimenticare.
F. Guccini, Piazza Alimonda, 2004
Presentazione - Desidero riproporre on line in queste tre giornate, a 17 anni di distanza, alcuni pensieri che dedicai a caldo al G8 genovese nell’agosto 2001[i] e che nei mesi successivi, accolti gentilmente da Paolo Tranchina, apparvero sulla storica rivista di Psichiatria Democratica: Fogli di Informazione. Documenti e risorse per l’elaborazione di pratiche alternative in campo psichiatrico e istituzionale (n. 190, maggio-agosto 2001, pp. 29-46)[ii]. Nel breve lasso intercorso tra la scrittura e la prima pubblicazione del pezzo, il mondo era già però radicalmente cambiato con l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre e fu dunque necessario aggiungere già allora una breve premessa, che rendesse brevemente conto della nuova ferita che quell’evento apriva e che a 15 anni di distanza - con tutto ciò che ad esso sarebbe direttamente o indirettamente seguito - continua copiosamente a sanguinare. Rispetto a quanto scritto allora, mi sono limitato ad aggiungere, oltre all’esergo e a queste poche parole di presentazione, al termine qualche ulteriore pensiero su come la domanda di un altro mondo possibile rivolta allora agli otto grandi si riveli oggi drammaticamente piena di senso.
L'anno che si è appena concluso è stato segnato da due eventi che dimostrano come nodi che da decenni si vanno avviluppando siano diventati, all'alba del nuovo millennio, ineludibili. Si tratta del complesso di rapporti tra nord e sud del mondo che viene sintetizzato sotto il nome di globalizzazione, esploso in modo più evidente che mai in occasione del luglio genovese; e di quello dei rapporti tra occidente e mondo arabo, evidenziatosi con l'ulteriore complicarsi della questione palestinese e il trascinarsi della sua tragica e costante scia di sangue, e con l'attacco terrorista alle due torri e la guerra afgana. E' sul primo di questi eventi che intendiamo in quest'occasione soffermarci, per andare oltre la cronaca e mettere gli strumenti tecnici dell'analisi delle situazioni di potere propri della lezione di Foucault e Franco Basaglia, e della pratica (auto)critica della psichiatria italiana, al servizio di un tentativo di comprendere, al di là dello sgomento, la violenza nell'atto del suo dilagare e di esplicitarne i meccanismi.
A Genova, tra il 18 e il 21 di luglio, una moltitudine si è mossa; contestava questa globalizzazione e il suo mercato diseguale, e indicava tra l'altro nel dialogo tra le culture e l'equilibrio delle ricchezze i soli strumenti di prevenzione delle stragi e delle guerre, nelle capitali dell'impero come ovunque. Dopo l'11 settembre, questa vicenda rimane di prepotente attualità. Un volume in particolare - tra i tanti saggi e commenti che sono andati accumulandosi sull'argomento dopo l'estate - Obbligo di referto, in edicola e libreria dall'ottobre 2001 - ci riporta all'attualità di quelle drammatiche giornate[iii]. Ne sono autori i sanitari del Genoa social forum (GSF), quei medici e infermieri cioè, in buona parte genovesi, che, mentre altri colleghi operavano più comodamente nel carcere improvvisato di Bolzaneto e gettavano con i loro comportamenti un'ombra grave di sospetto sull'onorabilità della categoria, hanno scelto di stare dalla parte del torto e di esercitare la scienza di Ippocrate per le strade di Genova, dove vari fattori concorrevano a rendere prevedibile che sarebbe scoppiato il finimondo e che si sarebbe forse operato in una situazione di battaglia, rischiando in prima persona l'incolumità. La regola per cui "non si spara sulla Croce Rossa" in questa strana guerra di strada evidentemente non è valsa, se alcuni sanitari del GSF furono tra i primi feriti e leggiamo tra l'altro: «Io stavo medicando una ragazza con una grossa ferita al capo, quando con la coda dell'occhio ho visto un poliziotto piombarmi addosso e con una vigorosa manganellata mi ha preso la schiena» (Testimonianza firmata, p. 51). Questi colleghi hanno scelto un impegno diretto, e oggi a buon diritto alzano la testa e ci offrono quello che definiscono un referto collettivo per tutti i pazienti soccorsi (dimostranti, appartenenti alle forze dell'ordine e semplici passanti), ma in particolare per quelle «persone immerse nel sangue che, per paura [dell'identificazione], non avrebbero potuto fruire del Servizio Sanitario Nazionale e che, quindi, non avrebbero ricevuto nessuna assistenza» (p. 52). Le regole della saggistica e della politica ci hanno offerto finora soprattutto ragionamenti di carattere sintetico sul G8 genovese inteso come scontro collettivo tra gruppi umani, apparati di potere e di contropotere, nei quali il singolo evento tende a perdere concretezza nella panoramica "dall'alto" per essere assunto nella fredda serialità dei numeri o del ragionamento a largo raggio, complessivo. Obbligo di referto è stato scritto direttamente sul campo e appartiene a buon titolo al filone delle microstorie; protagonisti ritornano a essere quindi gli eventi e i corpi nella loro diretta e materiale storicità. In queste pagine che si inseguono trafelate come quelle giornate drammatiche, il corpo ritorna un corpo, il sangue sangue, i colpi colpi, la paura, paura. Agilità e concretezza dello stile narrativo e una costante riluttanza dal giudizio, dall'enfasi, dalla retorica contribuiscono a rendere emotivamente la soffocante contrazione dei tempi e degli spazi nel momento di emergenza.
Le premesse: il dispiegamento di un apparato disciplinare degli spazi.
Gli antefatti del G8 genovese sono noti, e un breve richiamo sarà quindi sufficiente: gli otto governanti dei più potenti paesi della terra destinati a riunirsi a Genova; il ribaltamento del governo della nazione ospitante appena due mesi prima dell’evento, a macchina ormai avviata; il radicalizzarsi dell’opposizione sociale allo strapotere statunitense sul mondo e alla sperequazione nord-sud, già manifestatasi a Seattle, in occasione del vertice di Goteborg dove la polizia ha sparato sui manifestanti[iv]. A far da condimento a questi dati di fatto, veniva evocato un inquietante quadro internazionale da guerre stellari, destinato ad apparire allora - prima dell'11 settembre - ai più inverosimile e forse pretestuoso, che andava dai missili di Bin Laden agli attacchi dal mare, ai palloncini di sangue infetto, e contribuiva a determinare un'assoluta preminenza della prospettiva militare su quella politica. Un ulteriore tassello di questo scenario apocalittico era offerto dalla diffusione, pochi giorni prima dell'evento, della poco tranquillizzante notizia di stampa dell’acquisto di 300 bare da parte degli organizzatori.
Impossibile pensare all’occupazione militare capillare di tutta una città di oltre settecentomila abitanti. Ecco allora delinearsi, in previsione di disordini la cui ineluttabilità è parsa rappresentare per i governanti la sola incrollabile certezza, una strategia spaziale articolata intorno ad alcuni nodi fondamentali, che ci pare di poter identificare nei seguenti:
- la spinta forte agli abitanti a lasciare la città e rinunciare per quei quattro giorni al lavoro (favorita dal periodo vacanziero), a "togliere il disturbo" rinunciando a qualsiasi dialogo con la composita popolazione degli antiglobali e a consentire che le proprie strade, case e botteghe divenissero campo di una battaglia che non li riguardava tra manifestanti e Forze dell’ordine;
- la salda improvvisa recinzione nella "città proibita"[v] dell'intero centro cittadino, all’interno del quale tenere ingabbiati protagonisti e testimoni designati del vertice insieme ai pochi, spauriti e increduli abitanti rimasti, oltre naturalmente a un soverchiante numero di agenti di PS, carabinieri e finanzieri;
- l’attacco alla viabilità ordinaria, in particolare con l’inclusione a sorpresa del nodo rappresentato da Piazza Corvetto nel recinto, con il conseguente isolamento del ponente cittadino, luogo dei quartieri popolari e delle fabbriche, legato ormai al levante soltanto dall’esile cordone rappresentato dalla strada a monte;
- la designazione del levante cittadino, con la maggiore visibilità del territorio che la sua struttura architettonica permette, come luogo di "accoglienza" dei manifestanti, scenario delle manifestazioni ed eventuale teatro del confronto militare tra gli stessi e le Forze dell’ordine;
- il rigoroso controllo delle vie di comunicazione, con l’isolamento aereo, navale, ferroviario e stradale della città e il risparmio di pochi corridoi facilmente controllabili, paradossalmente riservati da un certo momento in poi ai manifestanti decisi a raggiungere Genova comunque: la stazione Brignole e i corridoi verso le strutture di accoglienza della Valbisagno e del levante; la stazione di Quarto e due caselli autostradali per le comunicazioni verso Roma; la stazione di Bolzaneto, quella di Voltri e pochi altri caselli autostradali, chiusi e aperti a discrezione, per gli accessi dal nord e dal ponente;
- la pianificazione di un rigoroso apparato sanitario, articolato intorno ai presidi di San Martino e del Galliera, gli ospedali maggiori della città prospicenti la zona designata per gli scontri, con il presidio di Sampierdarena a far da riserva. La rete sanitaria genovese, sul cui ruolo ritorneremo per la particolare delicatezza del problema, si trovava così da subito accorpata in posizione ancillare a un apparato disciplinare complessivo, rispetto al quale i margini di autonomia, già ridotti, erano destinati ad affievolirsi ulteriormente;
- l’altrettanto rigorosa pianificazione di un apparato carcerario che, risparmiando le prigioni cittadine perché sovraesposte, prevedeva due terminali di permanenza in città per i fermati, le caserme di Bolzaneto e San Giuliano significativamente dotate a propria volta di presidi sanitari garantiti dalla medicina penitenziaria, luoghi di smistamento verso le carceri più vicine del Piemonte e della Lombardia;
- la scelta di costringere il Genoa Social Forum – a fronte di tanti proclami di disponibilità a un dialogo in realtà mai incominciato - alla confusione, lesinando i posti letto previsti nelle strutture di accoglienza (destinati a ridursi ulteriormente per la pioggia), e gli spazi nei quali era previsto il concentramento dei cortei (in un caso addirittura la medioevale Piazza Sarzano, insufficiente a contenere anche la sola testa del corteo del giovedì, nell'altro una Piazza Sturla la cui ridotta capienza ha costretto ad anticipare di tre ore la partenza di sabato mattina).
Questo nuovo disegno degli spazi, che estrometteva la prospettiva politica lasciando assolutamente egemone quella militare (un’infelice uscita mediatica del leader delle Tute Bianche aveva dato a sua volta un contributo in questo senso), già rigorosamente costretto e controllato, sarebbe andato incontro nei giorni del vertice a continui rimodellamenti ottenuti mediante il posizionamento di container, tanto da rendere impercorribile, attraverso interventi continui persino sulla viabilità pedonale, la propria città anche per un genovese. Il giovedì, con la chiusura di tutti gli accessi dal centro-ponente a Piazza Sarzano ad eccezione di una controllatissima via Fieschi. Venerdì e sabato, attraverso la chiusura della piazza antistante la stazione Brignole e improvvisi blocchi col dispiegamento di agenti in assetto di carica, che chiudevano e aprivano strade principali e secondarie dispiegando una tattica del territorio imprevedibile che ha rappresentato, per molti disorientati naufragi non genovesi dai propri gruppi di affinità e dai cortei, una trappola fatale.
Lo scenario: il reciproco travisamento dei soggetti.
Sul versante opposto rispetto al governo ospitante il G8 stava il Genoa Social Forum (GSF), un coordinamento di oltre 700 sigle italiane e straniere[vi], dotato di scarso insediamento locale e cresciuto improvvisamente a dismisura, al cui potenziamento in Italia hanno dato un ulteriore contributo la distanza che il popolo della sinistra avvertiva dal nuovo governo dopo la sconfitta elettorale e il disorientamento dei partiti della sinistra sconfitta (il tentennamento sul partecipare o meno da parte del maggiore di essi si è significativamente dimostrato ininfluente sulla partecipazione della gente). Questo movimento, dotato di esilissima consistenza organizzativa e forse non incolpevole di qualche ingenuità, aveva però costantemente avvertito governo e polizia della propria incapacità a garantire dei comportamenti di quanti avrebbero scelto di essere a Genova, ma non aderivano alle sigle da esso coordinate e ai codici di comportamento al suo interno concordati. Il problema non è stato affrontato preventivamente né dal governo né dal GSF, che si sono così ritrovati dopo i fatti a rimpallarsi l’un l’altro questa grave responsabilità.
Tra il nuovo governo e il GSF le sensibilità e la cultura non avrebbero potuto del resto essere in quel momento più distanti. Di qui una serie di fraintendimenti reciproci.
- Da parte della gente del GSF, soprattutto, l’incapacità assoluta di comprendere quanto radicalmente lo scenario politico si fosse trasformato non solo dai tempi dei governi dell’Ulivo, ma anche da quelli della Democrazia Cristiana di Andreotti. Non si è compreso, cioè, che il nuovo governo avrebbe dato mandato alle Forze dell’ordine di difendere la Zona rossa con la stessa inossidabile rigidità delle proprie griglie, e non avrebbe avuto la flessibilità culturale necessaria per comprendere concetti caratteristici della sinistra (come la differenza tra invasione militare e invasione “simbolica”), non sarebbe quindi stato per nessuna ragione al “gioco” dell’invasione e non avrebbe concesso neppure mezzo metro all’avversario - una ferita narcisistica che invece non vi è alcun dubbio che Andreotti sarebbe stato intelligentemente disposto a tollerare da una folla in gran parte di donne e anziani, in cambio di una qualche pacificazione degli animi. Erano invece evidenti in tutte le uscite pubbliche più e meno recenti, da parte in particolare delle due formazioni di governo principali alleati del partito di maggioranza relativa, meccanismi arcaici di percezione dell’”altro” che precludevano la strada alla mediazione e affondano rispettivamente le origini genetiche nel fascismo, e nella rozzezza di un “buon senso comune” trasformato in proposta politica senza la mediazione del pensiero.
- Da parte del governo e delle Forze dell’ordine è stata invece evidentemente sovrastimata la capacità organizzativa del GSF, credendo (o fingendo in malafede di credere, ma ciò non può essere oggetto della nostra analisi) che davvero questo fosse in grado di garantire, attraverso un servizio d’ordine da sindacato degli anni migliori, l’omogeneità dei comportamenti nei propri cortei e di frenare infiltrazioni e sbandamenti. Che le forze di governo, anche locale, fossero lontanissime dall’immaginare la fragilità organizzativa del proprio interlocutore, sorpreso e travolto esso per primo dalla numerosità ed eterogeneità dell’adesione alla proposta di “essere a Genova”, lo ha ben dimostrato la presidente della Provincia di Genova, quando nel corso della sua audizione in Parlamento ha dichiarato candidamente di attendersi da parte del GSF la registrazione degli ospiti delle strutture da lei rese disponibili, quasi che si trattasse della hall di un Grand Hotel. Chi ha curato la disposizione in campo delle Forze dell’ordine si è poi rifiutato - forse anche facendo propri gli stereotipi culturali di alcuni nuovi governanti per cui chiunque sia di sinistra è perciò stesso infido, cattivo e pericoloso - di prendere in considerazione l’ipotesi che occorresse differenziare sul campo una pluralità di soggetti diversi, e la necessità quindi di strategie differenziate di intervento. In un caso, quella di una contrapposizione frontale, ampia e relativamente flessibile a un avversario che avrebbe proceduto per cortei, determinato ma pacifico e soprattutto rispettoso della città, che si sarebbe verosimilmente accontentato di visibilità mediatica e vittorie simboliche; e che solo se costretto dalla necessità di reagire a un attacco violento avrebbe potuto a malincuore e disomogeneamente alzare il livello dello scontro. Nell’altro, quella di una contrapposizione, con le tecniche della guerriglia urbana, a un nugolo di gruppetti - anarchici, generici casinisti, antiglobali estremisti, fascisti o infiltrati dei servizi nazionali e internazionali e della polizia, o forse di tutto questo un po’, indistricabile e segreto come i loro visi nascosti - operanti in modo l’uno dall’altro indipendente, con scarsa prevedibilità degli obiettivi (non certo la Zona rossa), rapidi nei movimenti ed eccezionalmente capaci di mimesi. Per questa seconda operazione, poliziotti e carabinieri in assetto di carica, con la stessa disposizione dei romani al Trasimeno - Alexander Barley riporta la tattica delle moderne polizie antisommossa a quella delle falangi macedoni del 330 a.C.[vii] - in una moderna città dove il nemico sfreccia in motorino ai lati e dentro un corteo di centinaia di migliaia di persone a designare sempre nuovi fronti e nuovi obiettivi, si muovevano impacciati come l’elefante a caccia del topo. Di questo evidente errore di impostazione strategica ha dato una buona riprova, senza dare neppure segno di avvedersene, il generale Siracusa di fronte alla Commissione parlamentare, quando ha distinto tra carabinieri in fase operativa e altri in fase logistica (a questo secondo gruppo sarebbe appartenuta la camionetta da cui è partito lo sparo); e ciò come se operatività e logistica potessero valere negli incroci guerreggiati di una città, dove chiunque capirebbe che sono destinate a confondersi e continuamente intrecciarsi tra di loro.
L'anno che si è appena concluso è stato segnato da due eventi che dimostrano come nodi che da decenni si vanno avviluppando siano diventati, all'alba del nuovo millennio, ineludibili. Si tratta del complesso di rapporti tra nord e sud del mondo che viene sintetizzato sotto il nome di globalizzazione, esploso in modo più evidente che mai in occasione del luglio genovese; e di quello dei rapporti tra occidente e mondo arabo, evidenziatosi con l'ulteriore complicarsi della questione palestinese e il trascinarsi della sua tragica e costante scia di sangue, e con l'attacco terrorista alle due torri e la guerra afgana. E' sul primo di questi eventi che intendiamo in quest'occasione soffermarci, per andare oltre la cronaca e mettere gli strumenti tecnici dell'analisi delle situazioni di potere propri della lezione di Foucault e Franco Basaglia, e della pratica (auto)critica della psichiatria italiana, al servizio di un tentativo di comprendere, al di là dello sgomento, la violenza nell'atto del suo dilagare e di esplicitarne i meccanismi.
A Genova, tra il 18 e il 21 di luglio, una moltitudine si è mossa; contestava questa globalizzazione e il suo mercato diseguale, e indicava tra l'altro nel dialogo tra le culture e l'equilibrio delle ricchezze i soli strumenti di prevenzione delle stragi e delle guerre, nelle capitali dell'impero come ovunque. Dopo l'11 settembre, questa vicenda rimane di prepotente attualità. Un volume in particolare - tra i tanti saggi e commenti che sono andati accumulandosi sull'argomento dopo l'estate - Obbligo di referto, in edicola e libreria dall'ottobre 2001 - ci riporta all'attualità di quelle drammatiche giornate[iii]. Ne sono autori i sanitari del Genoa social forum (GSF), quei medici e infermieri cioè, in buona parte genovesi, che, mentre altri colleghi operavano più comodamente nel carcere improvvisato di Bolzaneto e gettavano con i loro comportamenti un'ombra grave di sospetto sull'onorabilità della categoria, hanno scelto di stare dalla parte del torto e di esercitare la scienza di Ippocrate per le strade di Genova, dove vari fattori concorrevano a rendere prevedibile che sarebbe scoppiato il finimondo e che si sarebbe forse operato in una situazione di battaglia, rischiando in prima persona l'incolumità. La regola per cui "non si spara sulla Croce Rossa" in questa strana guerra di strada evidentemente non è valsa, se alcuni sanitari del GSF furono tra i primi feriti e leggiamo tra l'altro: «Io stavo medicando una ragazza con una grossa ferita al capo, quando con la coda dell'occhio ho visto un poliziotto piombarmi addosso e con una vigorosa manganellata mi ha preso la schiena» (Testimonianza firmata, p. 51). Questi colleghi hanno scelto un impegno diretto, e oggi a buon diritto alzano la testa e ci offrono quello che definiscono un referto collettivo per tutti i pazienti soccorsi (dimostranti, appartenenti alle forze dell'ordine e semplici passanti), ma in particolare per quelle «persone immerse nel sangue che, per paura [dell'identificazione], non avrebbero potuto fruire del Servizio Sanitario Nazionale e che, quindi, non avrebbero ricevuto nessuna assistenza» (p. 52). Le regole della saggistica e della politica ci hanno offerto finora soprattutto ragionamenti di carattere sintetico sul G8 genovese inteso come scontro collettivo tra gruppi umani, apparati di potere e di contropotere, nei quali il singolo evento tende a perdere concretezza nella panoramica "dall'alto" per essere assunto nella fredda serialità dei numeri o del ragionamento a largo raggio, complessivo. Obbligo di referto è stato scritto direttamente sul campo e appartiene a buon titolo al filone delle microstorie; protagonisti ritornano a essere quindi gli eventi e i corpi nella loro diretta e materiale storicità. In queste pagine che si inseguono trafelate come quelle giornate drammatiche, il corpo ritorna un corpo, il sangue sangue, i colpi colpi, la paura, paura. Agilità e concretezza dello stile narrativo e una costante riluttanza dal giudizio, dall'enfasi, dalla retorica contribuiscono a rendere emotivamente la soffocante contrazione dei tempi e degli spazi nel momento di emergenza.
Le premesse: il dispiegamento di un apparato disciplinare degli spazi.
Gli antefatti del G8 genovese sono noti, e un breve richiamo sarà quindi sufficiente: gli otto governanti dei più potenti paesi della terra destinati a riunirsi a Genova; il ribaltamento del governo della nazione ospitante appena due mesi prima dell’evento, a macchina ormai avviata; il radicalizzarsi dell’opposizione sociale allo strapotere statunitense sul mondo e alla sperequazione nord-sud, già manifestatasi a Seattle, in occasione del vertice di Goteborg dove la polizia ha sparato sui manifestanti[iv]. A far da condimento a questi dati di fatto, veniva evocato un inquietante quadro internazionale da guerre stellari, destinato ad apparire allora - prima dell'11 settembre - ai più inverosimile e forse pretestuoso, che andava dai missili di Bin Laden agli attacchi dal mare, ai palloncini di sangue infetto, e contribuiva a determinare un'assoluta preminenza della prospettiva militare su quella politica. Un ulteriore tassello di questo scenario apocalittico era offerto dalla diffusione, pochi giorni prima dell'evento, della poco tranquillizzante notizia di stampa dell’acquisto di 300 bare da parte degli organizzatori.
Impossibile pensare all’occupazione militare capillare di tutta una città di oltre settecentomila abitanti. Ecco allora delinearsi, in previsione di disordini la cui ineluttabilità è parsa rappresentare per i governanti la sola incrollabile certezza, una strategia spaziale articolata intorno ad alcuni nodi fondamentali, che ci pare di poter identificare nei seguenti:
- la spinta forte agli abitanti a lasciare la città e rinunciare per quei quattro giorni al lavoro (favorita dal periodo vacanziero), a "togliere il disturbo" rinunciando a qualsiasi dialogo con la composita popolazione degli antiglobali e a consentire che le proprie strade, case e botteghe divenissero campo di una battaglia che non li riguardava tra manifestanti e Forze dell’ordine;
- la salda improvvisa recinzione nella "città proibita"[v] dell'intero centro cittadino, all’interno del quale tenere ingabbiati protagonisti e testimoni designati del vertice insieme ai pochi, spauriti e increduli abitanti rimasti, oltre naturalmente a un soverchiante numero di agenti di PS, carabinieri e finanzieri;
- l’attacco alla viabilità ordinaria, in particolare con l’inclusione a sorpresa del nodo rappresentato da Piazza Corvetto nel recinto, con il conseguente isolamento del ponente cittadino, luogo dei quartieri popolari e delle fabbriche, legato ormai al levante soltanto dall’esile cordone rappresentato dalla strada a monte;
- la designazione del levante cittadino, con la maggiore visibilità del territorio che la sua struttura architettonica permette, come luogo di "accoglienza" dei manifestanti, scenario delle manifestazioni ed eventuale teatro del confronto militare tra gli stessi e le Forze dell’ordine;
- il rigoroso controllo delle vie di comunicazione, con l’isolamento aereo, navale, ferroviario e stradale della città e il risparmio di pochi corridoi facilmente controllabili, paradossalmente riservati da un certo momento in poi ai manifestanti decisi a raggiungere Genova comunque: la stazione Brignole e i corridoi verso le strutture di accoglienza della Valbisagno e del levante; la stazione di Quarto e due caselli autostradali per le comunicazioni verso Roma; la stazione di Bolzaneto, quella di Voltri e pochi altri caselli autostradali, chiusi e aperti a discrezione, per gli accessi dal nord e dal ponente;
- la pianificazione di un rigoroso apparato sanitario, articolato intorno ai presidi di San Martino e del Galliera, gli ospedali maggiori della città prospicenti la zona designata per gli scontri, con il presidio di Sampierdarena a far da riserva. La rete sanitaria genovese, sul cui ruolo ritorneremo per la particolare delicatezza del problema, si trovava così da subito accorpata in posizione ancillare a un apparato disciplinare complessivo, rispetto al quale i margini di autonomia, già ridotti, erano destinati ad affievolirsi ulteriormente;
- l’altrettanto rigorosa pianificazione di un apparato carcerario che, risparmiando le prigioni cittadine perché sovraesposte, prevedeva due terminali di permanenza in città per i fermati, le caserme di Bolzaneto e San Giuliano significativamente dotate a propria volta di presidi sanitari garantiti dalla medicina penitenziaria, luoghi di smistamento verso le carceri più vicine del Piemonte e della Lombardia;
- la scelta di costringere il Genoa Social Forum – a fronte di tanti proclami di disponibilità a un dialogo in realtà mai incominciato - alla confusione, lesinando i posti letto previsti nelle strutture di accoglienza (destinati a ridursi ulteriormente per la pioggia), e gli spazi nei quali era previsto il concentramento dei cortei (in un caso addirittura la medioevale Piazza Sarzano, insufficiente a contenere anche la sola testa del corteo del giovedì, nell'altro una Piazza Sturla la cui ridotta capienza ha costretto ad anticipare di tre ore la partenza di sabato mattina).
Questo nuovo disegno degli spazi, che estrometteva la prospettiva politica lasciando assolutamente egemone quella militare (un’infelice uscita mediatica del leader delle Tute Bianche aveva dato a sua volta un contributo in questo senso), già rigorosamente costretto e controllato, sarebbe andato incontro nei giorni del vertice a continui rimodellamenti ottenuti mediante il posizionamento di container, tanto da rendere impercorribile, attraverso interventi continui persino sulla viabilità pedonale, la propria città anche per un genovese. Il giovedì, con la chiusura di tutti gli accessi dal centro-ponente a Piazza Sarzano ad eccezione di una controllatissima via Fieschi. Venerdì e sabato, attraverso la chiusura della piazza antistante la stazione Brignole e improvvisi blocchi col dispiegamento di agenti in assetto di carica, che chiudevano e aprivano strade principali e secondarie dispiegando una tattica del territorio imprevedibile che ha rappresentato, per molti disorientati naufragi non genovesi dai propri gruppi di affinità e dai cortei, una trappola fatale.
Lo scenario: il reciproco travisamento dei soggetti.
Sul versante opposto rispetto al governo ospitante il G8 stava il Genoa Social Forum (GSF), un coordinamento di oltre 700 sigle italiane e straniere[vi], dotato di scarso insediamento locale e cresciuto improvvisamente a dismisura, al cui potenziamento in Italia hanno dato un ulteriore contributo la distanza che il popolo della sinistra avvertiva dal nuovo governo dopo la sconfitta elettorale e il disorientamento dei partiti della sinistra sconfitta (il tentennamento sul partecipare o meno da parte del maggiore di essi si è significativamente dimostrato ininfluente sulla partecipazione della gente). Questo movimento, dotato di esilissima consistenza organizzativa e forse non incolpevole di qualche ingenuità, aveva però costantemente avvertito governo e polizia della propria incapacità a garantire dei comportamenti di quanti avrebbero scelto di essere a Genova, ma non aderivano alle sigle da esso coordinate e ai codici di comportamento al suo interno concordati. Il problema non è stato affrontato preventivamente né dal governo né dal GSF, che si sono così ritrovati dopo i fatti a rimpallarsi l’un l’altro questa grave responsabilità.
Tra il nuovo governo e il GSF le sensibilità e la cultura non avrebbero potuto del resto essere in quel momento più distanti. Di qui una serie di fraintendimenti reciproci.
- Da parte della gente del GSF, soprattutto, l’incapacità assoluta di comprendere quanto radicalmente lo scenario politico si fosse trasformato non solo dai tempi dei governi dell’Ulivo, ma anche da quelli della Democrazia Cristiana di Andreotti. Non si è compreso, cioè, che il nuovo governo avrebbe dato mandato alle Forze dell’ordine di difendere la Zona rossa con la stessa inossidabile rigidità delle proprie griglie, e non avrebbe avuto la flessibilità culturale necessaria per comprendere concetti caratteristici della sinistra (come la differenza tra invasione militare e invasione “simbolica”), non sarebbe quindi stato per nessuna ragione al “gioco” dell’invasione e non avrebbe concesso neppure mezzo metro all’avversario - una ferita narcisistica che invece non vi è alcun dubbio che Andreotti sarebbe stato intelligentemente disposto a tollerare da una folla in gran parte di donne e anziani, in cambio di una qualche pacificazione degli animi. Erano invece evidenti in tutte le uscite pubbliche più e meno recenti, da parte in particolare delle due formazioni di governo principali alleati del partito di maggioranza relativa, meccanismi arcaici di percezione dell’”altro” che precludevano la strada alla mediazione e affondano rispettivamente le origini genetiche nel fascismo, e nella rozzezza di un “buon senso comune” trasformato in proposta politica senza la mediazione del pensiero.
- Da parte del governo e delle Forze dell’ordine è stata invece evidentemente sovrastimata la capacità organizzativa del GSF, credendo (o fingendo in malafede di credere, ma ciò non può essere oggetto della nostra analisi) che davvero questo fosse in grado di garantire, attraverso un servizio d’ordine da sindacato degli anni migliori, l’omogeneità dei comportamenti nei propri cortei e di frenare infiltrazioni e sbandamenti. Che le forze di governo, anche locale, fossero lontanissime dall’immaginare la fragilità organizzativa del proprio interlocutore, sorpreso e travolto esso per primo dalla numerosità ed eterogeneità dell’adesione alla proposta di “essere a Genova”, lo ha ben dimostrato la presidente della Provincia di Genova, quando nel corso della sua audizione in Parlamento ha dichiarato candidamente di attendersi da parte del GSF la registrazione degli ospiti delle strutture da lei rese disponibili, quasi che si trattasse della hall di un Grand Hotel. Chi ha curato la disposizione in campo delle Forze dell’ordine si è poi rifiutato - forse anche facendo propri gli stereotipi culturali di alcuni nuovi governanti per cui chiunque sia di sinistra è perciò stesso infido, cattivo e pericoloso - di prendere in considerazione l’ipotesi che occorresse differenziare sul campo una pluralità di soggetti diversi, e la necessità quindi di strategie differenziate di intervento. In un caso, quella di una contrapposizione frontale, ampia e relativamente flessibile a un avversario che avrebbe proceduto per cortei, determinato ma pacifico e soprattutto rispettoso della città, che si sarebbe verosimilmente accontentato di visibilità mediatica e vittorie simboliche; e che solo se costretto dalla necessità di reagire a un attacco violento avrebbe potuto a malincuore e disomogeneamente alzare il livello dello scontro. Nell’altro, quella di una contrapposizione, con le tecniche della guerriglia urbana, a un nugolo di gruppetti - anarchici, generici casinisti, antiglobali estremisti, fascisti o infiltrati dei servizi nazionali e internazionali e della polizia, o forse di tutto questo un po’, indistricabile e segreto come i loro visi nascosti - operanti in modo l’uno dall’altro indipendente, con scarsa prevedibilità degli obiettivi (non certo la Zona rossa), rapidi nei movimenti ed eccezionalmente capaci di mimesi. Per questa seconda operazione, poliziotti e carabinieri in assetto di carica, con la stessa disposizione dei romani al Trasimeno - Alexander Barley riporta la tattica delle moderne polizie antisommossa a quella delle falangi macedoni del 330 a.C.[vii] - in una moderna città dove il nemico sfreccia in motorino ai lati e dentro un corteo di centinaia di migliaia di persone a designare sempre nuovi fronti e nuovi obiettivi, si muovevano impacciati come l’elefante a caccia del topo. Di questo evidente errore di impostazione strategica ha dato una buona riprova, senza dare neppure segno di avvedersene, il generale Siracusa di fronte alla Commissione parlamentare, quando ha distinto tra carabinieri in fase operativa e altri in fase logistica (a questo secondo gruppo sarebbe appartenuta la camionetta da cui è partito lo sparo); e ciò come se operatività e logistica potessero valere negli incroci guerreggiati di una città, dove chiunque capirebbe che sono destinate a confondersi e continuamente intrecciarsi tra di loro.
Nel video allegato: Manu Chao, Clandestino
Segue parte II.
[i] Il tema del G8 è stato affrontato a caldo su POL. it in uno scritto di Rossella Valdré, Genova, il G8, lo smarrimento di una città; e l’anno successivo in un altro: La memoria e la speranza: Genova un anno dopo. L'uno e l'altro costituiscono rispettivamente una preziosa testimonianza di quello che è stato l'impatto immediato del G8 sulla città, e della prima elaborazione a breve distanza.
[ii] Fu successivamente ripubblicato sul Notiziario del Centro di Documentazione di Pistoia (n. 32, 2001, 175, pp. 1-14) e da Gemma Brandi sulla rivista Il reo e il folle (n. 21-23, 2002-03, pp. 183-206).
[iii] Sanitari del Genoa Social Forum, Obbligo di referto (a cura di M. Battifora, C. Novelli, M. Costantini), Genova, Fr.lli Frilli Editori, 2001.
[iv] Oltre alla voluminosa bibliografia ormai disponibile sui movimenti antiglobali, ricordiamo una efficace sintesi pubblicata a Genova nei giorni immediatamente precedenti il G8 che, ove avesse incontrato maggior fortuna editoriale, avrebbe potuto contribuire in modo intelligente e costo contenuto alla comprensione da parte dei cittadini della realtà antiglobale e alla contestualizzazione di quanto alla loro città stava avvenendo: Marradi C., Ratto E., Da Seattle a Genova. "G"li 8 non valgono una moltitudine, Genova, Fr.lli Frilli Ed., 2001.
[v] Si veda sul tema il bel saggio di Benedetto Vecchi, Zona rossa, in: I giorni di Genova, Roma, Manifestolibri, 2001, pp. 143-155.
[vi] Sulla eterogeneità di composizione e consonanza di sensibilità e di obiettivi del movimento antiglobale genovese e la sua evoluzione dopo luglio si rimanda agli interventi di Riccardo Moro, Elisa Marincola, Francesco Caruso, don Vitaliano della Sala, Mauro de Bonis, Luca Rastello, Francesco Martone su Limes, 4/2001.
[vii] In: I giorni di Genova. Cronache, commenti e testimonianze dai giornali di tutto il mondo, Roma, Indice Internazionale, n. 17, 2001.