GLI ARGONAUTI
Psicoanalisi e Società
di la redazione degli Argonauti

MADRI CATTIVE

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18 ottobre, 2016 - 11:12
di la redazione degli Argonauti
“Non ti piacevo, vero? Cercavi solo di darmi una sistemata? Se è così, io sono contento.
Ma la tua contrizione, madre, non ha origine da ciò che sono divenuto nel tempo, ma da  
ciò che sono sempre stato, per come ero fatto di partenza .” 
(Maurizio Maggiani, Il romanzo di una nazione)
                                     

“non voglio più essere incinta. Provo orrore per quella carne estranea.      
Mi cresce in grembo contro la mia volontà.”
(Anne Marie Garat, Quaderno ungherese)     

 

Siamo abituati a pensare a cattive madri, quelle che, per intenderci, sono inadeguate al cosiddetto mestiere di genitore. Qualcuna, ad esempio, è molto capace nei primi tempi di vita della prole, ma diventa inetta quando i segni dell’emancipazione infantile cominciano a farsi sentire: l’elaborazione del distacco e l’andare oltre la fusionalità sono spesso impediti dal prevalere della posizione simbiotica materna. Al contrario, alcune madri “inadeguate” sono in forte difficoltà di fronte all’estrema bisognosità dell’infante, ma  diventano ottime madri quando il bimbo o la bimba crescono: spesso, questa inadeguatezza iniziale è determinata dal terrore delle proprie componenti simbiotiche proiettate sulla prole. Che poi le cose si complichino ulteriormente a seconda del genere cui appartiene il figlio o la figlia, è cosa ovvia: nella storia personale di ciascuna madre si annida il motivo del timore o del piacere di avere un figlio maschio o una figlia femmina, faccenda questa che può rendere molto difficile il rapporto con il bambino o la bambina del genere “sbagliato”. E dunque, di madri “inadeguate”, cioè di cattive madri, ne possiamo vedere con notevole frequenza: prima di essere madri, queste donne sono soggetti con, appunto, una loro storia, più o meno sana, più o meno elaborata sul piano degli affetti. Non a caso, Winnicott ha parlato di madri “sufficientemente buone”, offrendo giustamente una via d’uscita all’iconografia della “mamma sacrificale e santificata”, sempre perfetta e sicuramente capace “per istinto”.
Decisamente più complesso è parlare non di cattiva madre, ma di madre cattiva. E’ difficile perché l’idealizzazione ne blocca, letteralmente, persino il pensiero: tutti noi abbiamo bisogno di pensare di essere stati voluti, accolti con gioia e soprattutto amati. Magari possiamo tollerare che la nostra mamma fosse un po’ incapace, ma mai, mai, che fosse cattiva, volutamente cattiva, che ci odiasse. La difesa da questa possibilità è una delle principali componenti dell’idealizzazione della figura materna: “son tutte buone le mamme del mondo” non è solo il verso di una vecchia canzone, è l’essenza stessa del  rifiuto a pensare una mamma “cattiva”.
  Eppure, se una donna avesse avuto in sé una quota di distruttività prima di avere figli, magari coscientemente autogiustificata, possiamo seriamente pensare che la maternità l’abbia trasformata al punto da renderla costruttiva, amorevole, sana e disponibile alla relazione? Certamente la maternità è un’esperienza a tal punto potente da avere un potere trasformativo di grande entità, ma fino a quel punto?! Fino a rendere una donna del tutto differente rispetto a “prima”?  da renderla un’altra persona? Per quanto sia difficile, dobbiamo poter pensare che esistono donne per le quali la maternità è un giogo intollerabile, attivatore di odio antico e di rabbia pertinace. Donne che portano anche nella maternità una corrente di distruttività che, pur provenendo anche da molto lontano, permane inalterata nel rapporto con la prole.
Il secondo scoglio che si incontra nel parlare di madri cattive non è più però pertinente al termine madri, bensì riguarda l’aggettivo “cattive” posto dopo il sostantivo. Cattiveria, se non può venire tradotta in “inadeguatezza”,  sembra proprio un termine un po’ arcaico e soprattutto in odore di moralismo giudicante. Forse può essere più accettabile se lo decliniamo sul versante della distruttività? Questa sorta di sinonimo, sicuramente corretto e preciso, può sciogliere il blocco del pensiero e farci uscire dalle sabbie mobili del nostro stesso terrore che il luogo per definizione “più sicuro del mondo”, l’abbraccio della madre, possa essere in realtà un luogo assai pericoloso, volutamente intriso di rifiuto e di vendetta.
 Essendo io psicoanalista, mi risulta relativamente facile parlare di cattiveria senza caricare questo concetto di un giudizio morale: la psicoanalisi ha giustamente preso le distanze dal moralismo giudicante che, se fosse presente nell’analista e tracimasse nella seduta, impedirebbe al paziente qualsiasi autenticità, e ha prodotto così termini più neutri, come sadismo o distruttività, termini che possono più facilmente collocarsi nell’area della patologia, cioè nell’area (auspicabilmente o illusoriamente) esente dalla valutazione valoriale.
Personalmente, però, ritengo che possiamo anche parlare liberamente di cattiveria, così come facciamo quando utilizziamo i suoi sinonimi più neutri, e pensarla come componente che in taluni soggetti  appartiene al bisogno, alla modalità di espressione di sé, frutto di una storia certo, ma altresì di una scelta posteriore nella quale identificarsi. Dietro a questa scelta più o meno camuffata c’è disagio, rabbia, frustrazione, vendetta e quant’altro, c’è anche sofferenza, imprinting dolorosi, terrore, ma qui intendo occuparmi soltanto del risultato di questo percorso, cioè della cattiveria per come si esprime, e per che cosa esprime, nella relazione madre-infante.
Come può esprimersi tale cattiveria? Non certo nell’infanticidio, laddove l’atto è davvero frutto di patologia e totale mancanza di autocontenimento e di autoprotezione, né si esprime, come si è detto più sopra, nella incapacità a gestire la fase iniziale della vita del neonato o la prima fase del distacco. La cattiveria si esprime piuttosto nel rifiuto  mascherato e infiltrato nelle “piccole cose”, nel rifiuto di quell’essere lì, di quella creatura, proprio quella. Promettere e sorridendo sottrarre, senza motivazione alcuna. Oppure far sentire costantemente sbagliata la figlia o il figlio, perché tossisce, perché ha il naso, o la statura o gli occhi, che “non vanno bene”, perché (quando) va bene a scuola e sontemporaneamente perché (quando)va male, perchè ha un fidanzato o fidanzata e anche se non l’ha. Farlo o farla sentire costantemente incapace, e sottolineare questa creata incapacità per mantenere lo stato di asservimento e tenere per sé quello di potente dominatrice. Comunicare, anche senza parole, un “essere di troppo”, un “essere scomodo o scomoda”, un non essere affatto voluto o voluta, comunicazione che avviene spesso sotto le vesti del sacrificio materno (“ho rinunciato per te..”, “ah, se tu non fossi nata..”)
In certe sedute con chi ha avuto una madre del genere, si avverte una presenza francamente nefasta profondamente interiorizzata. La si avverte nel modo in cui questi soggetti parlano di se stessi, sempre con  un vago sentore di disprezzo  che giunge talvolta al vero e proprio disgusto, come se il sentimento di essere sbagliati fosse così radicale da rappresentare una presenza costante e attivissima. Uno strapotere distruttivo materno, per nulla corretto (né tantomeno bilanciato) da una sia pur minima presenza bonificante paterna, ha dominato nel mondo interno di questi figli e figlie, sussurrando senza sosta il loro non avere posto nel mondo. Accenno soltanto la disperata condizione di questi soggetti che finiscono inevitabilmente per colludere con la distruttività materna, affannandosi a cercare una approvazione che non avranno mai o, se l’avranno, sarà soltanto per vedersela sottrarre all’improvviso con effetti ancor più devastanti.
Perché tutto ciò? Nella mia esperienza, ho rilevato un’area di motivazioni  indifferente all’identità di genere della prole, e una motivazione invece specificatamente legata al  fatto che si tratti di una figlia femmina.
Prendendo in considerazione in primo luogo la motivazione trasversale ai generi, si profila la rabbia e l’odio di una donna che non voleva figli e che ne ha avuti perché “così si fa”, perché non ha avuto (forse non ha potuto avere)  la consapevolezza di non desiderarli. Il figlio o la figlia diventano così l’ingombro negativo, immerso nella totale “colpa” di aver rovinato la vita della madre. Uno stillicidio di cattiverie assume il ruolo di scarica dell’odio e della frustrazione: far pagare alla prole la non-scelta della madre e l’insofferenza per essersi ritrovata in una condizione non voluta e anzi vissuta negativamente. E’ questa cattiveria a costituire un luogo identitario, un posto in cui la madre custodisce alle soglie della coscienza l’odio per il proprio sbaglio e lo trasforma nel “figlio-figlia sbagliato/sbagliata”. Analogamente, si tratta talora di donne che hanno avuto figli perché così voleva il marito e hanno continuato a sentirli come “figli del marito”, senza mai riuscire ad ammettere che stavano spostando sui propri stessi figli la rabbia che provano verso di lui. Tutto ciò dà ragione ad esempio di alcuni casi di abuso incestuoso dei quali la madre è complice o addirittura promotrice: il figlio o la figlia non sono anche “della madre” che li ha partoriti, sono solo del padre, che ha dunque pieno diritto di farne ciò che vuole, soddisfacendo così anche il desiderio materno di vendicarsi sulla prole del proprio stesso incarceramento.
Possiamo comprendere come il senso di essere intrappolate sia talora devastante e come possa originare, o più facilmente riattivare, sentimenti di frustrazione e odio vero e proprio, ma ciò che colpisce in questi casi è la strada intrapresa, e mantenuta, di identificazione in questi sentimenti. La consapevolezza pare del tutto assente, le “colpe” sono inesorabilmente del marito e dei figli, mai la loro mente è sfiorata dal dubbio di avere concorso alla costruzione della gabbia in cui si trovano imprigionate. Queste madri covano i loro sentimenti di odio e rancore e costruiscono intorno a questo agglutinamento negativo la loro stessa identità, come se dalla missione di distruggere i figli e le figlie (o uno ,o una, tra loro) potessero ricavare un senso di energia e di contenuto progettuale per la loro vita.
A queste dinamiche distruttive si affiancano, in taluni casi, elementi differenti che riguardano una vera e propria visione utilitaristica della prole, che “servirà” esclusivamente alla propria vecchiaia. Il figlio o la figlia deve dunque rimanere dipendente totalmente dalla madre, la quale “pretende” dedizione assoluta: per ottenere ciò sa come schiacciare, umiliare e colpire con freddezza e particolare acume i punti deboli del figlio o della figlia. “Sei incapace, senza di me non puoi fare nulla” è il messaggio trasmesso, non come frutto dell’odio e della rabbia, ma come vera e propria strategia di dominio atta a garantirsi una sorta di cavalier servente con funzioni infermieristiche ad vitam. La cattiveria è qui funzionale ai propri interessi, è, appunto, una strategia all’interno della quale la prole non ha una propria esistenza autonoma ma è piuttosto una “funzione” di sostegno e accompagnamento.
All’inizio di questo lavoro ho accennato al fatto che vi è anche una dinamica specificatamente orientata  alla figlia femmina. Si tratta di qualcosa che è presente in ogni rapporto madre-figlia, ma che in questi casi assume il ruolo principale nella dinamica relazionale: l’invidia. Ogni madre infatti, di fronte all’infanzia della propria bambina, spesso pensata come più felice della propria, e allo sbocciare dell’adolescente che ha di fronte ancora tutte le scelte e la libertà di metterle in atto, può provare una punta di invidia, che il più delle volte si capovolge nel contrario, cioè nella gioia e nella soddisfazione di vedere la propria figlia andare nel mondo con serenità  e passo fermo, avendone di ritorno la gratificante sensazione di essere stata parte attiva nel promuoverne la graduale emancipazione. Ma talora l’invidia è troppo potente per essere elaborata e si esprime dunque con la tipica distruttività del “se non io, neanche tu”: sembra, in questi casi, che la madre guardi con occhio malevolo i traguardi raggiunti dalla figlia, che cerchi in tutti i modi di svalutarli e renderli del tutto insignificanti, se non addirittura negativi. “Io tutto questo non l’ho avuto” è il pensiero dominante, “a questo non ho potuto giungere” è il fondo sotteso a un vissuto improntato a sentimenti di inferiorità e inadeguatezza. L’invidia certamente si nutre sempre del sentimento di inferiorità, della volontà di “tirare giù” l’altro per poterlo sentire al proprio stesso livello o, ancor meglio, a un livello inferiore, e queste madri  sono particolarmente identificate nel compito di “tirare giù” la figlia ricorrendo a corrosivi commenti su qualsiasi sogno, qualsiasi passione, ella manifesti. E’ l’odio per un periodo della vita, particolarmente l’adolescenza, che non è stato vissuto appieno e che  diventa oggetto dello spiare e del nutrirsi di ogni dettaglio per  meglio poterlo degradare o distruggere.
Tale dinamica può ulteriormente acuirsi quando un figlio maschio, contrariamente alla sorella, manifesta  difficoltà o patologie franche. Il proprio sentimento di inferiorità spinge la madre a identificarsi nel bambino “malato” e ad attaccare, invidiosamente appunto, la sanità della figlia. Sanità, e magari bellezza, intelligenza e successo, diventano una colpa, un tradimento e vanno distrutti. Tale distruzione avviene sia nel sottolineare verbalmente, affettivamente e concretamente che il danno del fratello implica il diritto ad essere costantemente risarcito e centralizzato rispetto alla sorella, ma curiosamente non di rado la malattia o la difficoltà del figlio vengono spesso utilizzati come elementi di “superiorità”: la dislessia è sinonimo di intelligenza superiore, la psicosi è segno di superiore sensibilità, il problema organico implica una superiore maturità. In questi casi l’identificazione con il figlio maschio e malato rende ancor più facile l’agire l’invidia distruttiva sulla figlia, femmina e sana, poiché ne fornisce una subdola veste positiva di “protettività” e sostegno nei confronti del più debole.
Questa breve carrellata di dinamiche, dalle quali la “cattiveria” materna emerge con chiarezza nei suoi denotati di volontà distruttiva, invidia, possesso e dominio e nei suoi strumenti d’azione (umiliazione, svalutazione, negazione, mancanza di riconoscimento), ha il proprio principale significato  non certo nella criminalizzazione di un sentimento, e di chi ne è portatore, che appartiene al genere umano nel suo complesso (l’odio, ad esempio), quanto piuttosto nel de-idealizzare il ruolo materno nella sua accezione più rigidamente costrittiva e nell’allentare dunque quella gabbia dorata che inchioda la donna alla maternità “obbligata” e ai contenuti  che ne sanciscono oblatività e bontà a tutto tondo. 

di Gabriella Mariotti

(lavoro letto alla Casa delle Donne, Milano, il 12 ottobre 2016)

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