Presentazione Saggio La morte dentro la vita La pulsione di morte nella teoria, nella clinica e nell'arte

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10 dicembre, 2016 - 10:08
Autore: Rossella Valdrè
Editore: Rosenberg & Sellier
Anno: 2016
Pagine: 245
Costo: €16.15
In queste pagine, con piacere, riannodo un dialogo con Rossella Valdrè che è iniziato ormai da alcuni anni, attraverso lo scambio dei nostri scritti e di pensieri nascenti.  
In questi anni la psicoanalisi sembra riaccostarsi alla consapevolezza di essere inclusa nel mondo degli eventi e delle cose “fuori del setting”, che era propria di S. Freud. Per alcuni decenni, direi intorno agli anni ‘80 del secolo scorso, ci siamo concentrati sul mondo interno e sulle sue vicissitudini tenendo un po' di lato il moto delle cose, il “fuori”. Ora ci ritroviamo a pensare che ciò che è fuori è anche dentro, nel senso che influenza le nostre teorie, i pazienti e le nostre stesse convinzioni e attitudini cliniche. Il fuori penetra la psicoanalisi, così come penetra la filosofia e la ricerca in generale.    
Mi sembra di poter dire che questo libro di Rossella Valdrè sulla pulsione di morte è frutto proprio di un contatto con un “fuori” che si addensa di violenza e che rende difficile il compito vitale di dare significato agli eventi che attraversano il mondo in cui viviamo. La pulsione di morte (come la di sublimazione cui Rossella ha dedicato un precedente lavoro)   è un concetto poco di moda, inconsueto per la letteratura psicoanalitica attuale, salvo quella francese che Valdrè cita ampiamente. Si tratta di un concetto intrigante, ambiguo, come l’A sottolinea, ma nel panorama attuale Rossella Valdrè si caratterizza proprio per l’invito che rivolge a tutti noi di sostare su questo tipo di concetti, di non liquidarli come obsoleti e scandalosamente meta-psicologici. Ma la meta-psicologia è proprio la dimensione  che ci porta accanto alla realtà.  
Non presenterò qui il libro, perché l’Autrice lo fa egregiamente nella sua “Introduzione”, mi limiterò a soffermarmi su alcune parole chiave che muovono anche i miei interessi di questi anni.  



Rossella Valdrè si chiede quali possano essere i motivi dello scarso interesse verso la “pulsione di morte” che, fin dalla sua apparizione, ha suscitato perplessità e divisioni tra gli psicoanalisti. Un disinteresse strano visto che morte e vita non sono polarità antitetiche ma dimensioni che convivono in una dialettica conflittuale e complementare insieme. A partire dal suicidio cellulare (l’apoptosi descritta dall’immunologo Jean Claude Ameisen nel 1999) ricorda Valdrè, fino alle più sorprendenti creazioni artistiche, la morte si mescola con la vita. Scrive Rossella: senza pulsione epistemofilica, di vita, non esisterebbe alcuna creazione artistica; ma senza pulsione di morte non ci sarebbero quelle indagini del dolore umano, senza veli sugli occhi, che i grandi artisti sono in grado di compiere. E questo, io sottolineo, non vale solo per gli artisti e gli uomini di genio, ma è l’intreccio che sostiene la capacità di amare e di lavorare, la possibilità di individuarsi e soggettivarsi di ciascuno di noi.   
La morte non è una eccezione, non è una eventualità, è la linea che segna il limite dell’orizzonte  individuale.  La morte come evento concreto, e la sua presenza dentro di noi come pulsione, inquietano, fino alla posizione di tante persone che incontriamo nei nostri studi che affermano: ma perché crescere, svilupparsi, fare tanta fatica, se poi si muore?  
Questa presenza, inscritta nel corpo e  nel nostro funzionamento psichico, è la dimensione dura e ineludibile dell’impatto con la “realtà”, con il lutto per i limiti e le mancanze cui essa ci espone, con il nostro bisogno di illusioni dinanzi ad essa. Freud aveva individuato proprio nella percezione o rigetto della realtà il criterio di discrimine tra funzionamento sano e patologico, un criterio che non ci consente di tracciare una linea netta,  percezione e rigetto si mescolano infatti nel nostro rapporto con le cose. Percezione e illusioni intessono il nostro contatto con le cose e con le persone, e il nostro sviluppo culturale, cioè le costruzioni, opzioni, creazioni, sublimazioni, con cui tentiamo di dare significato alle nostre esperienze.  
Penso che una prima linea di risposta alla domanda posta da Rossella sul  perché ci sia tanta diffidenza verso questo concetto, stia nel fatto che qui Freud sfalda la fiducia verso il progresso, individuale e collettivo, verso il lieto fine, inteso come ritrovata armonia, sintesi, tra le cose e tra gli uomini.  L’idea di progresso nutre l’illusione che la vita individuale e la storia dei popoli troveranno comunque una loro risoluzione, che l’infelicità e la violenza alla fine potranno essere trasformate per costruire un mondo migliore, di pace e di benessere per tutti. Questa idea (accreditata nella visione cattolica e, con altri costrutti, in quella illuminista), si conserva dentro di noi anche quando sul piano razionale l’abbiamo messa in discussione. Anche il progresso sembra una illusione di cui abbiamo bisogno per restare vivi: strappare all’uomo le sue illusioni, scrive Rossella, è come strappargli ogni aspettativa di benessere e felicità. Fare della morte, della spinta distruttiva, una pulsione interna agli uomini ferisce la fiducia nel progresso, e ne rivela appunto il carattere illusorio. La pulsione di morte sancisce il carattere ineludibile della violenza nelle vicende umane, quelle interne a ciascuno e quelle storiche. Pone la dimensione della violenza al centro di un  lavoro per elaborare, pensare, trasformare che dura quanto la vita, di cui non è possibile sbarazzarsi delegandolo alla legge e all’apparato giudiziario, come scrive Freud ad Einstein. Esso ci torna indietro.    
Freud era però esitante e addolorato ogni volta che si apprestava a strappare il sipario di una qualche illusione. E, ogni volta, si impegnava a non demonizzare le illusioni. Esse, egli dice nel 1927, non sono menzogne, né deliri, ma ci parlano di bisogni, della ricerca di una protezione dinanzi alla realtà che non possiamo guardare troppo da vicino: la testa potrebbe esplodere e frammentarsi, abbiamo bisogno di una bandana-illusione che la tenga insieme, per riprendere la bella descrizione di Rossella di David  Wallace e della sua bandana. Guardando agli artisti, abbiamo l’impressione che la sublimazione (pur contenendo anch’essa una dimensione illusoria) sia diversa dall’illusione-bandana, che ci consenta di accostarci nudi a cercare il senso delle cose, ma lo fa con una intensità e una vicinanza alle cose che non dà pace. Lo scrittore non ha pace lontano dai suoi fogli, il pittore lontano dalle sue tele, come se la sublimazione incalzasse.... perché c’è sempre un resto intraducibile in qualunque nostra creazione.  Tanto che, come descrive Valdrè nei suoi bei capitoli sull’arte, si avverte il bisogno di spegnere, di rallentare, di rifugiarsi nel (quotidiano) ritmo ondulatorio fatto di pensiero-non pensiero, creazione-coazione a ripetere, ricerca del senso-rifiuto del senso.    
Auschwitz, oltre che la memoria di terribili avvenimenti storici, è divenuta per noi la cifra del limite della nostra capacità di dare significato, dopo Auschwitz, si è detto, la filosofia dovrebbe tacere. 
Nei nostri anni assistiamo alla invasiva presenza della violenza, sia nel suo versante più rumoroso, bombe, attentati e massacri, sia in quello più silenzioso, muto, che esita in suicidi, tossicomanie e comportamenti autolesivi, in quel disinvestimento che è la malattia della nostra epoca, come scrive Valdrè.   
Il disinvestimento è la nostra malattia, esso non è nemmeno elusione della realtà sulla spinta di illusioni salvifiche, esso esprime uno stato in cui la realtà non raggiunge e non tocca l’individuo. Non si tratta di tristezza, né propriamente di depressione, sono d’accordo con queste affermazioni di Rossella, piuttosto sembra un senso pervasivo di impotenza e di incertezza, un senso di minaccia oscura proveniente dal mondo e dagli altri.  Sembra trattarsi di una impossibilità ad investire libidicamente qualcosa, qualche aspetto della realtà o qualche oggetto. Qui, in questi territori mentali, il bisogno di protezione non si soddisfa con una bandana, ma nutre la fantasia di quiete, una quiete inalterata, un tran tran indisturbato. In questo disinvestimento la realtà interiore viene massacrata, non vi è lotta pulsionale, né conflitto,  perché è smontato il luogo psichico in cui questi potrebbero animarsi.  
Così ci troviamo nel paradosso di essere immersi in una cultura che impone agli individui il compito di realizzarsi e di essere creativi, come scrive Valdrè, senza sostenere né indicare i mezzi psichici necessari. Il percorso di soggettivazione si incaglia.     
La pressione dei dispositivi ideologici neo-liberisti sembra incrementare l'insicurezza e l'angoscia, questi sembrano considerare l'individuo post-moderno come una superficie liscia, costituita da moduli che, a volte, bisogna perfezionare perché non funzionano bene: una macchina performatrice che non vede perché si dovrebbe cercare il senso della sua angoscia (M. Benasayag 2015).  
In definitiva sembra che il movimento radicale della post-modernità sia la de-costruzione dell'interiorità dell'individuo, che rimane disperso, fatto di tratti isolati, un uomo senza qualità , un quasi-individuo (Benasayag ibid. pg.33).  
L’illusione che il capitalismo avrebbe comportato maggior benessere e maggior uguaglianza per tutti è caduta. In questi anni dobbiamo fare i conti con tante illusioni perdute e con l'apparente incapacità di costruirne di nuove. Abbiamo smarrito  l'illusoria fiducia in un progresso lineare e benevolo, nella possibilità di realizzare un mondo migliore, più etico ed egualitario. Abbiamo perduto la fiducia che l'individuo possa smorzare la sua violenza e creare un mondo di pace. E' caduta perfino l'illusione di un rapporto trans-generazionale pervaso di pietas e amore, al suo posto troviamo un passaggio denso di odio e di pulsioni omicide tra le generazioni libere di agire.   
La caduta delle grandi illusioni-ideologie ha lasciato sul campo un senso di sconfitta ancora oggi poco elaborata.  
La soggettivazione allora degrada in ricerca di distinzione sul piano dei comportamenti sociali: avere i tatuaggi o l’abbigliamento più hard, il cellulare più recente.... “Che cosa vuole l’Io? Che lo si lasci in pace”, scrive Rossella, citando A. Green, per sottolineare come la pulsione di morte sembri talora consistere proprio nella aspirazione ad uno stato di ineccitabilità, in una ricerca della libertà dal desiderio, e dunque, dagli oggetti che possono fare nascere emozioni.  
Pulsione de-oggettualizzante per antonomasia, slegante.  
Ma, in questo atteggiamento di disinvestimento, può celarsi un rifiuto delle ideologie e dei valori dominanti?  M. Balsamo (2014) interpreta la figura di Bartleby, frutto della fantasia di Melville, come un potenziale ricercatore di altre alternative,  di altri modi di vivere, di altri valori condivisi, momentaneamente muto, fermo solo sul “preferirei di no”. Ma, di qui, appunto si apre per noi il discorso sulle altre valenze della pulsione di morte, sul fatto che anch’essa, come ogni pulsione, può avere diversi destini, come dice Valdrè. Ed è proprio nello slegare, nella rottura, che possiamo cogliere un movimento indispensabile alla soggettivazione e alla crescita. Il rifiuto e la rottura del legame può promuovere la curiosità, la ricerca di significati più personali. Anche la stessa coazione a ripetere, segnale per antonomasia della pulsione di morte,  può avere una valenza elaborativa, può costituire una tenace ricerca di aspetti scissi, di istanze personali, muti perché in attesa di essere riconosciuti e ascoltati.  
In ogni epoca le nuove generazioni hanno il doloroso compito di emanciparsi da quanto viene loro trasmesso, questo significa in parte rimodellare la tradizione consegnata, in parte lasciarla letteralmente cadere. Emanciparsi non solo da credenze e idee e memorie, ma soprattutto dal funzionamento psichico delle generazioni precedenti che si trasmette attraverso i ritmi e le modalità di accudimento precoce. Infatti i genitori, la famiglia allargata, il gruppo di riferimento, trasmettono ai nuovi nati il loro funzionamento psichico, il loro modo di trattare-elaborare.eludere il dolore, i limiti, le mancanze, il bisogno e l’universo del desiderio. Trasmettono anzitutto il valore che accordano alla vita psichica per affrontare la realtà, o i modi per aggirare il senso dell’esperienza fino ad evacuarla. A volte si ha l’impressione che trasmettano un mondo interno in agonia, come morto,  di cui il bambino si impregna precocemente, arrivando a farlo proprio. Come scrive Freud a proposito di Dostoeskii, nel 1927, nel suo amore-odio appassionato per lui, il figlio si identifica con il padre morto. Da Ferenczi a Green abbiamo molte descrizioni di queste configurazioni in cui le aree morte delle vecchie generazioni si trasmettono mute, come buchi, come nuclei sospesi fuori del tempo, alle nuove generazioni che se ne trovano impregnate, le avvertono come dimensioni interne, eppure estranee. Da queste impregnazioni occorre emanciparsi, e per fare questo occorre avere a propria disposizione le risorse aggressive, la rabbia e l’odio, e la spinta vitale a “dire di no”.  Uno dei destini della pulsione di morte. 
Qui il “dire di no” si esprime come disponibilità a tradire, come ha scritto M. Badoni (2016), le intimità familiari. Si tratta di un percorso doloroso che fa sentire sul bordo dell’abbandono e di un isolamento insostenibile. Per questa via cogliamo la funzione soggettivante della pulsione di morte, su cui Rossella Valdrè ci porta a riflettere con un percorso affascinante tra artisti e dolore, tra casi clinici e dolore, coazione e derive masochistiche che si installano là dove l’emancipazione sembra impossibile.    
In assenza di lavoro psichico la tensione critica dell’individuo si dissolve, la caduta delle illusioni non può essere elaborata e lascia il singolo con un eccesso di realtà senza alcun mezzo per contenerlo, per elaborare dei possibili significati.  
In queste condizioni scompare il futuro: nessuna tribù, infatti, né in occidente né in oriente, sembra oggi avere i mezzi per indicare un orizzonte da cui potrebbe nascere qualcosa che dia speranza. La prospettiva di un futuro non è più possibile per gli occidentali, che riescono solo a mimarla, e non è  possibile per le tribù musulmane che si sono agganciate al passato (idealizzato e ricombinato)  per ritrovare una loro posizione nel mondo, che pensano che il mondo ideale sia già qui. In una sorta di  “incestuale politico” (Benslama op. cit. pg. 58) essi si definiscono come i realizzatori della Umma, della comunità dei giusti. La parola Umma ha la radice um, che significa madre, la comunità impersona la nostalgia dell'unione con la madre, piena e tutta tonda, tale da immunizzare dal male e dalla disperazione.  
L'aspettativa dei giovani occidentali di avere un proprio tranquillo mondo, in cui non essere disturbati, non ha forse le stesse risonanze? 
Il problema è che c'è un punto di de-soggettivazione a partire dal quale si scatena la distruttività, la pulsione di morte rumorosa, come la chiama Rossella, rumorosa sia quando si spara e si mettono bombe, sia quando ci si fa fuori.  
In questo stato di de-soggettivazione, quasi-individui, e di disinvestimento, si diffonde un senso  di inerzia e passività psichica che accresce la rabbia, fa montare l’odio, apre la via alla corruzione, all’attacco verso la comunità e verso se stessi. La violenza sembra allora proporsi come una stampella per il vuoto identitario. Sentendosi senza possibilità di parola, gli individui tendono a cancellare il volto e la parola dell'altro, dello straniero, del diverso. La perdita della parola politica rischia di far cadere gli individui in un torpore disperato per cui sembra desiderabile morire trascinando con sé il mondo intero, tutti i testimoni del proprio fallimento, come fanno i giovani occidentali che si fanno fuori, come fanno i terroristi islamisti. Uccidere tutti i testimoni viene vissuto come un modo di difendere se stessi e le illusioni perdute.  
Sicchè anche l'incontro con lo straniero, il Mosè egizio, le tribù dell'altro lato del Mediterraneo, in queste condizioni, non favorisce scambi e spiazzamenti, non apre conflitti e pensosità in modo da produrre cultura.  L'incontro avviene all'insegna della chiusura e della immunità, ciascuna tribù vuole proteggersi dal contagio con i problemi e le difficoltà delle altre. L'incontro, determinato dall'immigrazione massiccia di masse in fuga dalla guerra e dalla fame, non sembra generare alcuna prospettiva di progetto condiviso, al contrario il campo si colora di una violenza senza progetti.  
Per acquisire una chiave progettuale la confusione, insieme apatica e sanguinaria, che stiamo vivendo, dovrebbe trovare uno spazio nella mente (dei singoli e dei gruppi) in cui ci sia l'agio di riprendere un lavoro intimo e condiviso di elaborazione della mancanza, dell'incompletezza, del senso delle illusioni e delle disillusioni.  Cioè un lavoro interiore capace di indicare i bisogni e i desideri di cui le illusioni ci parlano, gli orizzonti cui alludono come prospettive possibili.  
La elaborazione del lutto, in luogo della astiosa reazione immunitaria, avvia la pensosità e restituisce al singolo la parola, forse perfino quella politica. Per avviare questa elaborazione c'è bisogno di individui che riprendano in mano un loro progetto di individuazione, che ripartano dalla loro pur piccola specificità. Come dice, nel suo modo scoppiettante, Zizek: “si dovrebbe apprezzare sopra ogni altra cosa libertà, uguaglianza e zuppa di granchio” (Zizek op. cit. pg.46), piuttosto che, aggiungo, libertà, uguaglianza e couscous, o orecchiette alle cime di rapa. Si dovrebbe cioè calare le idee astratte nelle circostanze e nelle particolarità delle vicissitudini  e delle idiosincrasie individuali e delle singole culture.  
Per ripopolare lo spazio pubblico non è pensabile attendere nuove ideologie, peraltro il capitalismo ha dimostrato di essere in grado di macinarle e assorbirle tutte. Piuttosto si tratta di inventare-trovare “nuovi luoghi di umanità” come li definisce E. Donaggio (2016 pg. 144). Incontri di minoranze, di piccoli gruppi che, uscendo dalla solitudine dell'ego-sistema, possano cercare gesti, idee ed emozioni difformi ed estranei rispetto all'andamento dominante. Piccoli luoghi in cui, faccia a faccia, ci si incontra per fare altrimenti, per mettere in comune, senza omologarli, le storie e i gusti, piccoli luoghi in cui cominciare a dire di no. In fondo per me il libro di Rossella Valdrè rappresenta proprio questa occasione di piccoli incontri per scambiarsi idee, per cercare idee che possano indicare come “fare altrimenti”: uscire dalle ideologie implicite, tracciate e perpetuate  per sostenere fragili identità individuali e gruppali, ibridare la nostra disciplina con l’esperienza del fuori,  cercare compagni di strada anche al di fuori delle proprie ristrette competenze professionali. Incontri che possono generare una esperienza di ospitalità reciproca senza pretendere di integrare-assimilare, omologare al proprio.  Attraverso la ripresa della inquietante nozione di pulsione di morte questo libro ci incoraggia in queste direzioni autenticamente profane Gaburri  (1999), vive e  fuori dal coro.      

 
Bibliografia 
Balsamo M. (2014) Avrei preferenza di no. Letture di Bartleby lo scrivano: una storia di Wall Street di Melville.  Psiche 2, 395-420 
Benasayag M. (2015) Oltre le passioni tristi Milano Feltrinelli 2016  
Benslama F. (2002) La psicoanalisi alla prova dell'Islam. Milano Il Ponte tempo libro 2012 
Badoni M. (2016) Tradimento e corruzione. Sul potere corruttivo dell'amore materno e sul buon uso del tradimento. In Corruttori e corrotti L. Ambrosiano M. Sarno (a cura di) Milano Mimesis 
Freud S. (1927) L'avvenire di una illusione. OFS 10 
Freud S. (1927 b) Dostoevskij e il parricidio. OSF 10 
Gaburri E. (1999) Per un’etica profana. In Scritti scelti Milano Mimesis 2015 
Valdrè R. (2014) On sublimation. Trad. it. Mimesis Milano 2015 
Zizek S. (2014) Evento Novara De Agostini 

 
 
 
 
 

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