PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
di Paolo F. Peloso

POLITICHE MIGRATORIE. Preoccupazioni dalla svolta estiva

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23 agosto, 2017 - 07:33
di Paolo F. Peloso

 

1.  Sbarco in Italia, o sbarco in Europa?
 
Partiranno. Sono decisi a partire, e lo faranno comunque. A ogni costo. Anche a prezzo di rischiare la vita. I più saranno soccorsi, e approderanno. Qualcuno non ce la farà. Percentualmente pochi, numericamente molti. Ma, comunque, partiranno.
Bisogna fermarli. Prima che tocchino terra in Europa. Dopo, diventeranno immediatamente più forti nei diritti. Sempre deboli, ma un po’ più forti. Bisogna fermarli prima. Anche a prezzo di rischiare la vita (la loro vita). Anche a costo che muoiano, nell’acqua o nella sabbia. Anche a costo di consegnarli alle bande criminali che comandano in Libia.
Si sa che l’estate, quando gli italiani – anche quelli più sensibili - sono sparsi per il mondo in vacanze più o meno alternative o pigramente assopiti sotto gli ombrelloni, è il momento nel quale la politica in Italia dà il peggio di sé. E il cambio di rotta - giusto perché è di cose di mare che si parla - che ha caratterizzato la politica migratoria del governo nell’ultimo mese, sarebbe stato visto con preoccupazione in altri periodi dell’anno da una parte (cattolica e/o di sinistra) dell’elettorato dell’attuale governo e ne avrebbe suscitato la reazione. Non può essere ignorato, però. E così, vorrei proporre qualche spunto su ciò che mi preoccupa, non certo da esperto della geopolitica, quale non sono; ma da lettore di quotidiani e ascoltatore occasionale della radio. Non per fare chissà quale scoperta; ma giusto per ricapitolare un po’ fatti e pensieri.
Che Spagna, Italia e Grecia costituiscano, così arrogantemente protese nel Mediterraneo come sono, il ponte naturale per chi voglia spostarsi dal sud al nord in questa parte del mondo, è un fatto. Che fossero perciò destinate a diventate gli approdi di chi vuole sottrarsi alle guerre che insanguinano il Medio oriente e alla miseria che attanaglia la gran parte dell’Africa, era pure scontato. Che di questi tre ponti quello centrale fosse destinato a essere il più frequentato, è pure accaduto; e così siamo diventati il punto di più facile approdo di una “nazione” incompiuta, l’UE, nella quale le regole di Schengen dicono che non esistono più frontiere interne; ma la regole di Dublino dicono il contrario: che nel caso di migranti le frontiere esistono, e ciascuno deve risolvere da sé i propri problemi. Una ragazza africana sbarcata e intervistata ha risposto alla domanda di dove intendesse andare dopo lo sbarco in Italia: in Europa. E il giornalista a notare che in Europa, senza rendersene conto, c’era già; in tono saccente, come se la fanciulla fosse un po’ ignorante in geografia. Credo invece che quella ragazza avesse colto molto lucidamente il problema: che essere in Italia, per lei, non significa affatto essere in Europa.
L’Italia è diventata il ponte principale perché sull’altra sponda c’erano negli altri due casi Marocco e Turchia, che sono due Stati sovrani per il cui territorio non è possibile dilagare come in un luogo in preda all’anarchia (a meno che non facciano tatticamente questa scelta, e l’ha fatta per un breve periodo la Turchia). Non così per il nostro caso, dopo che lo Stato libico è stato disintegrato dalla guerra occidentale del 2011. Sarebbe sbagliato non cogliere in questi anni un braccio di ferro tra i governi italiani che si sono succeduti e la maggioranza di quelli europei, su quanti migranti potessero esser fatti entrare. I motivi possono essere vari; forse non escluderei il fatto che gli sbarchi riguardavano sì in prima battuta l’Italia, ma erano diretti altrove, dove l’economia li richiamava cioè dov’erano maggiori la richiesta di lavoro e la ricchezza. Ma anche per il fatto che l’Italia, retta per tutti questi anni da governi che includevano pezzi della sinistra, era il Paese direttamente interessato, sul quale sarebbe pesata la responsabilità diretta di sporcarsi le mani nel caso di decisioni ciniche che fossero state adottate. Potrebbero essercene certo altri di motivi, ma mi pare un fatto comunque che l’Italia  si era sempre finora dimostrata più ambivalente nel respingere, insistendo perché si ridistribuisse come se l’UE fosse veramente una nazione; e ha sempre ricevuto picche in risposta. Così, si potrebbe rintracciare una progressione in quelli che appaiono due cedimenti della “linea italiana” a fronte delle pressioni dei partner. Il primo lo si è avuto con il passaggio, per il soccorso in mare, da Mare nostrum a Frontex, il cui significato certo ignoro nei dettagli, ma mi pare che in sintesi sia stato come dire: se in migliaia continuano a scegliere di buttarsi in mare, dobbiamo sforzarci certo di essere là per ripescarli, ma un po’ meno.
In ogni caso, loro hanno continuato a partire. A ogni costo. Anche a prezzo di rischiare la vita. E hanno assunto via via l’aspetto di un flusso irrefrenabile, nel quale a un’ondata ne segue sempre un’altra. E l’Italia lì a insistere: ridistribuiamo; e i “partner” dell’UE a fare orecchie da mercante, bloccare il valico di Ventimiglia, presidiare il passo del Brennero. Essere disposti se proprio costretti a dividere le spese semmai, ma mai la responsabilità dei corpi con l’impegno e l’assunzione di responsabilità che implicitamente essi costituiscono per una integrazione, presto o tardi, a venire. Poi, ecco in questi giorni il secondo cedimento, in questa estate così infelice per la politica italiana che ha visto anche la retromarcia in Parlamento sullo ius soli e ora la rinuncia di fatto a inseguire la verità sull’assassinio di Giulio Regeni con la normalizzazione delle relazioni con Al Sisi, e proprio il giorno del quarto anniversario della strage di Rabi’a al-‘Adawiyya (oltre 900 dimostranti inermi le vittime). Un nuovo cedimento che sembra consistere nell’aver accettato di lavorare a una soluzione “turca” anche per il Mediterraneo centrale, come l’Europa caldeggiava rifiutandosi di dividere le conseguenze degli scrupoli di coscienza italiani. E allora: forte (feroce) con i deboli; debole (servile) con i forti, così in mare come in terra (al Cairo, appunto); il governo italiano ha dato l'impressione di adeguarsi. Forse non poteva fare diversamente, ma non si può dire che la politica estera quest’estate abbia mancato di coerenza!
 
2. ONG: un altro mondo è possibile?
 
In tutta questa vicenda per la quale sembra delinearsi in questa mezza estate una triste soluzione, l’intervento (e in alcuni casi la nascita) delle ONG è stato uno dei fatti più interessanti: un motivo di speranza, che ha concretamente rilanciato quello slogan che a Genova nel 2001 era stato opposto ai grandi della terra: “un altro mondo è possibile!” Un’affermazione generosa di umanità da parte di pezzi di società in senso pieno “civile”, nel momento nel quale la politica e l’economia dell’Europa sceglievano - con il passaggio da Mare nostrum a Frontex - di tirare un po’ (di qualche miglio marino) indietro il braccio al quale l’uomo, la donna, il bambino che stavano annaspando prima di annegare potessero aggrapparsi. Di fronte alla scelta implicita di pagare una diminuzione dei flussi con un aumento degli annegamenti e del loro effetto di deterrenza (perché di questo credo che si sarebbe trattato), le ONG hanno scelto di mettersi letteralmente in mezzo. Ce n’erano di già famose, come Médecins sens frontières - presente dal 1978 a salvare vite umane ovunque la guerra, la carestia, le epidemie le condannano in 70 Paesi in giro per il mondo, e premiata per questo nel 1999 con il premio Nobel per la pace - ma altre ne sono nate nuove per l’occasione. Mi ha colpito, ad esempio, la storia della spagnola Proactiva Open Arms, che è stata fondata da un gruppo di semplici bagnini di Barcellona guidato da Oscar Camps sotto l’impressione delle immagini dei naufragi di questi anni, ed è cresciuta grazie a donazioni di centinaia di privati cittadini ai quali, evidentemente, il cinismo delle politiche migratorie dei propri governi non andava. Sono state le ONG, secondo dati di Frontex, ad aver effettuato il 25% circa (46.796) dei salvataggi operati nel 2016 nel canale di Sicilia. Perché intanto loro hanno continuato a ogni costo a partire. Anche a prezzo, certo, di rischiare la vita e nonostante la riluttanza, sempre più chiara, dell’Europa ad accoglierli.
Quest’estate, però, il cambio di rotta attuato dal governo italiano per adeguarsi alle pressioni europee – oppure per prendere atto del rifiuto di fatto dei partner a condividere le responsabilità delle proprie politiche migratorie, il che è lo stesso – parrebbe aver reso bruscamente la presenza delle ONG, così preziosa quando occorreva limitare i costi in vite umane della fine di Mare nostrum, superflua, forse persino imbarazzante.
“Cambio di rotta!”, dunque, parrebbe: perché non è più in direzione dei porti siciliani che devono avvenire i salvataggi, e quel caos libico che prima non era considerato un luogo sicuro (cioè un luogo sul quale secondo le leggi del mare i naufraghi raccolti possono essere sbarcati), si è improvvisamente scoperto che, infondo, in mancanza di meglio può anche andar bene. Bene per loro, che sono comunque decisi a partire, non per noi.
Da quel momento tre elementi hanno contribuito a mettere in difficoltà quest’estate le ONG, fino a costringere alcune di esse (almeno per adesso) a rinunciare. In primo luogo, una campagna giudiziario-mediatica di violenza impressionante ha determinato il passaggio dalla loro santificazione alla denigrazione: non erano più gli eroi che salvavano dal mare uomini, donne, bambini abbandonati a se stessi dagli scafisti, e si è improvvisamente scoperto che erano i soggetti ambigui che potevano anche entrare in combutta con gli scafisti per agevolarne il cinico lavoro (e siamo curiosi di vedere, alla fine e dopo aver fatto immensi danni d’immagine, a cosa porteranno di concreto queste indagini chiassose quanto, apparentemente, per ora un po’ vaghe…). Poi, il Governo italiano, finito implicitamente sotto accusa a propria volta per “crimine umanitario” ed eccesso di scrupoli di fronte ai partner europei, ha scelto di dare un segnale forte di resipiscenza e marcare le distanze rispetto a queste organizzazioni, doppiamente colpevoli per essere umanitarie e non-governative. Al che si è provveduto con il decreto con il quale il ministro Minniti le ha implicitamente messe in riga come fossero le responsabili dell’incessante pressione delle partenze e degli approdi; ha messo alcune di esse – che, se non-governative si chiamano, non possono evidentemente adeguarsi a essere governative – in imbarazzo e nella difficoltà di operare; e infine ha avuto l’immediato effetto di creare divisione tra loro. Poi ancora, ed è il terzo elemento, ci ha pensato la rediviva Guardia costiera libica, che l’Italia si è affannata negli ultimi tempi a rimettere a galla, a fare sentire senza troppe formalità e complimenti le navi delle ONG concretamente, fisicamente  minacciate; armi alla mano.
 
3. C-Star:  fascisti sul mare.
 
In tanto casino che tra navi e gommoni più o meno sfasciati degli scafisti, navi delle ONG, della Guardia costiera libica, navi del normale traffico commerciale e, più al largo, navi militari di Frontex, deve aver caratterizzato il Mediterraneo centrale negli ultimi mesi, un’ombra sinistra, un altro elemento di preoccupazione è stata la ricomparsa dei fascisti. Nessuno credo che ne avvertisse la mancanza: ma non hanno voluto rinunciare ad essere presenti. Hanno rappresentato un fenomeno marginale, certo, i fascisti della ONG anti-ONG Defend Europe; ma sarebbe un errore trascurarlo. Perché ha comunque testimoniato come l’Europa porti ancora in sé, e non trascuri di mostrarli nei momenti più delicati, anche i segni della propria storia nella quale il fascismo, appunto, un giorno è sbocciato. Il fascismo, che altro non è infondo che un ribadire la cultura della guerra in tempo di pace là dove si parla di incontri noi/altri e di confini[i]: un progetto maligno e perverso di rendere il mondo più brutto, e più feroce la Storia. Il fascismo che si è fatto trovare puntuale con una propria imbarcazione anche là, dove pezzi di società civile si erano dati appuntamento per soccorrere tra mille difficoltà chi affrontava il mare per inseguire una speranza, al solo fine di disturbare queste operazioni (come se muri, reticolati, caccie all’uomo in nome della cittadinanza, frontiere bloccate, non fossero già stati sufficienti, in sé, a evocarne la persistenza). Che ha voluto mostrarsi direttamente là per ricordarci che, ove l’ingiustizia che caratterizza oggi il mondo fosse seriamente messa in discussione, quella può sempre essere la soluzione di riserva per il Nord del mondo. E sola luce di fronte a questa nota profondamente sconsolante, i giusti momenti di mobilitazione dei lavoratori dei porti e della pesca del sud e del nord del Mediterraneo che, in più occasioni, si sono opposti all’attracco della nave nera. Perché in una situazione seria, delicata e complessa come è quella del Mediterraneo centrale, una situazione dove qualcuno rischia ogni giorno la vita e qualcun altro non riesce sempre a salvarlo, almeno una cosa fosse chiara: che chi si richiama esplicitamente al fascismo e alla supremazia razziale, almeno, non è gradito!
 
 
4. Gioco di (Quarta) sponda.
 
Bisogna bloccarli, dunque. Questi uomini, donne, bambini che hanno l’impudenza di scappare senza permesso dalla guerra, e passi; ma persino dalla disoccupazione e dalla fame. Ma, certo, la “civile” Europa non può tollerare, oltre un certo limite, ingiustizia e ferocia a casa propria. Come non poteva farlo negli anni nei quali gli europei praticavano con disinvoltura, altrove, l’oppressione coloniale e lo schiavismo (e bene fa Luigi Benevelli a ricordarcelo costantemente su questa rivista). E l’Italia non poteva accettare il rischio che il resto d’Europa immaginasse “il bel Paese” come un grande CIE disseminato di campi dove chiudere i migranti; che, d’altra parte, non potevano neppure essere lasciati (se non eccezionalmente) annegare. Né poteva affrontare le contraddizioni che avrebbe aperto nella politica e nella società civile il rendersi evidente, sul territorio nazionale, in tali dimensioni dell’ingiustizia di uomini, donne, bambini privati della libertà senza aver commesso altro crimine che esistere, e sperare di farlo dove questo può essere un po’ meno difficile. L’Italia non poteva accettare tutto questo neppure con costi a carico dell’Europa, e chi veniva salvato dal mare e approdava, insomma, oltre un certo limite numerico in Italia non poteva rimanere.
Eppure continuavano a partire, e a farlo comunque, a ogni costo, anche a prezzo di rischiare la vita. Così, occorreva esternalizzare il problema di questi corpi destinati a essere eccedenti il nostro bisogno di forza lavoro; esportarli verso il nord, e sembrava la soluzione più indolore per tutti, ridistribuendoli in quote con i partner europei, il che ne avrebbe recepito bisogni e desideri. Ma la strada del nord è rimasta interdetta. Oppure restituirli al sud, a quelle terre dalle quali si allontanavano, come già si era fatto con la Turchia dove però uno Stato che potesse fare da interlocutore, fascista e nazionalista fino a che si vuole, comunque esisteva. Non era così per la Libia, dopo che i bombardamenti occidentali hanno consegnato nel 2011 Gheddafi al linciaggio e hanno determinato in pochi mesi la polverizzazione dello Stato (senza essere in grado di ricostruirlo in cinque anni), che certo neanche in quel caso era in sé garanzia di trasparenza democratica, ma poteva essere comunque un interlocutore. La chiusura del resto d’Europa costringeva, insomma, l’Italia a cercare qualcuno che facesse il lavoro sporco per lei. Deboli con i forti (i partner UE), forti con i deboli (cioè i migranti). Occorreva trovare nuovi ascari della globalizzazione che si prestassero a rinchiudere e frustrare, definitivamente, le speranze di chi dall’Africa guarda all’Europa come il luogo dove chiunque è sicuro di avere, almeno, di che mangiare e dove si è ancora, almeno, molto più al riparo dall’arbitrio e dalla violenza rispetto a tanti altri luoghi nel mondo. Di chi guarda dall’Africa all’Europa come il luogo dove poter mettere in gioco la propria gioventù e forza lavoro, i propri corpi che risulterebbero, però, eccedenti, e ai quali perciò l’Europa vuole impedire di arrivare, a qualunque costo. E tutto questo alla faccia del diritto internazionale, che assicura protezione a chi scappa da situazioni che comportino pericolo per la sua vita: la guerra, la persecuzione etnica e politica. Almeno. Bisognava fermarli, respingerli a ogni costo anche prima del vaglio della loro posizione rispetto al diritto d’asilo. Ma alla faccia anche del più elementare sentimento di giustizia, che ci porta a sentire che ciascuno abbia diritto di mettersi in viaggio anche per ragioni economiche, e scappare dalla miseria là dove il cibo e le cure essenziali sono garanzia e dove il lavoro, la sola cosa che egli possiede, può avere un valore. E alla faccia, ancora, del diritto del mare, che l’acqua che affratella perché non è l’elemento naturale dell’uomo e fa sentire tutti più in pericolo rende più generoso e altruista rispetto alle leggi che regolano le relazioni umane sulla terraferma e impone di sbarcare il naufrago raccolto in un “luogo sicuro”[ii].
Così, l’Italia non ha trovato di meglio, alla fine, per risolvere la contraddizione nella quale l’imprigiona l’essere e il non essere parte della UE, che delegare al fragile e sedicente governo libico, un governo che non governa se non scarse porzioni del territorio, le proprie responsabilità sul destino dei migranti che l’hanno scelta come terra promessa. E questo nonostante ancora stamattina, 23 agosto, il sito del Ministero degli Esteri informasse gli italiani che intendessero recarsi in Libia che: «ATTENZIONE: Questa sezione è da considerarsi provvisoria alla luce della situazione di instabilità e di frammentazione politico-istituzionale che si registra ormai da tempo nel Paese». E anche che: «Il rilascio di visti turistici da parte delle Autorità diplomatiche e consolari libiche è soggetto a massima discrezionalità. Si ricorda, comunque, che i viaggi sono, al momento, fortemente e assolutamente sconsigliati»[iii]. Ma insomma, questa Libia è sicura o non è sicura? Parrebbe ad oggi che sia sicura per loro, che vi arrivano senza nessun potere e garanzia economica o politica; ma continui invece a non esserlo per noi, che pure vi arriveremmo da turisti.
Sarà dunque la rediviva Guardia costiera libica (controllata da chi, costituita da chi?), confusamente supportata non si comprende bene con che ruolo da qualche unità della marina militare italiana e dall’Italia adeguatamente rifocillata, ad allontanare gli intrusi, pattugliare le coste e impedire alla fonte nuovi sbarchi. Sarà qualcuno in Libia, e non è chiaro chi e soprattutto come, a gestire i campi - nuovi campi, sempre campi dove la persona umana possa essere umiliata, annientata, cosificata, “gestita” in modo seriale -  nei cui reticoli sono destinati a rimanere impigliati il miraggio e la speranza, di molti. I campi che hanno segnato i momenti peggiori della storia dell’umanità negli ultimi due secoli[iv]. I campi nei quali la povertà di potere dell’internato lo espone costantemente - condizione così tristemente simile a quella del manicomio e del carcere - al rischio del sopruso. Mentre anche le vicende di molti CIE sul territorio italiano dimostrano quanto questi luoghi siano delicati, quanto al loro interno la dignità della persona sia costantemente a rischio di essere offesa, quanto abbiano necessità di essere monitorati e trasparenti. Nella cronaca si dicono cose terrificanti dei campi dei detenzione libici, del modo nel quale già oggi i migranti vi sono trattati dalle bande criminali che sono impegnate nel loro trasporto sulla terra e nel mare. Organizzazioni autorevoli, come Amnesty, parlano di violenze e di tortura sistematiche all’interno di alcuni di essi.
E noi, possiamo improvvisamente fare finta di niente?
Eppure, improvvisamente si è scoperto che la Libia (quale Libia?) che non trova né unità né ordine né pace per se stessa può essere considerata un luogo sicuro per i migranti, dall’Italia e dall’Europa. Al quale affidare, pur di allontanarli, uomini, donne, bambini che avevano sperato nella nostra accoglienza, che si erano messi infondo nelle nostre mani. Siamo preoccupati, vorremmo sapere. Ma invece ne sappiamo pochissimo. Quali garanzie possono darci questi nuovi campi, organizzati là dove massimi sono il disordine, la violenza e il pericolo; e soprattutto là dove occhio indiscreto non veda? Si ventila la possibilità che siano agenzie internazionali a monitorare le condizioni nelle quali vi saranno trattenuti i migranti sigillati dalla Libia sul suo territorio, con la benedizione dell’Italia e dell’Europa. Ma per ora sembra solo un’ipotesi; avremmo voluto invece esserne almeno sicuri, averne la certezza prima, e non solo sapere che, forse, prima o poi questo accadrà. E vorremmo, anche, sapere cosa è stato garantito in cambio, e a chi, in Libia, per questo favore non da poco (oltre ad aver cominciato con quel capolavoro di realpolitik a proposito di Giulio Regeni, per i buoni uffici che ci aspettiamo da Al Sisi presso Haftar…). Quando la politica riguarda migliaia, decine di migliaia di uomini, donne e bambini, vogliamo sapere cosa viene fatto in nome nostro.
 
5. Dulcis in fundo, il solito alibi: ”aiutiamoli a casa loro”.
 
Né poteva mancare, nel momento in cui l’Italia sembra essersi allineata alla scelta peggiore - quella del rifiuto senza troppi scrupoli sulle sue conseguenze - il riproporsi, questa volta anche al centrosinistra oltre che a destra[v], del più ipocrita e cinico dei refrain: “aiutiamoli a casa loro”. Non li aiuteremo invece, io credo, né a casa nostra, né in mare, né nella Libia del caos, e neppure a casa loro. Se fosse così facile, perché non li abbiamo aiutati a casa loro in questi 60 anni che hanno seguito la decolonizzazione? In questi 60 anni nei quali l’Europa ha sempre distolto lo sguardo dalle carestie, le guerre fratricide, le epidemie - a momenti più acute in altri più sottotraccia - dell’Africa?
Ma chi recita questo logoro mantra, lo sa cosa vorrebbe dire poi, sul serio, aiutarli a casa loro? Non certo distribuire qualche elemosina, che governi corrotti e a noi più o meno asserviti farebbero velocemente volatilizzare. Non certo offrire loro i prodotti delle nostre fabbriche d’armi (c’è un film geniale di Alberto Sordi del 1975, Finché c’è guerra c’è speranza, che bisognerebbe rivedere ogni volta che sentiamo dire: “aiutiamoli a casa loro…”). Né certo spedire auto scarburate, abiti bucati, cibi scaduti, o i prodotti che le nostre imprese faticano a smaltire.
Significherebbe invece cedere brevetti, tecnologie, rinunciare a residui coloniali di privilegi finanziari e militari. Risarcire i danni della colonizzazione, sui cui proventi illegittimi è costruito il nostro benessere di oggi. Portare a compimento il processo di decolonizzazione, trasformando un’illusoria decolonizzazione formale in decolonizzazione reale, sostanziale: sostenere l’Africa in un percorso che la porti a sfruttare le proprie immense potenzialità per gli africani, nella prospettiva che (forse), domani Paesi d’immensa ricchezza come lo Zaire o la Nigeria, possano competere con noi alla pari sul mercato globale, come avviene oggi per la Cina scatenando gli isterismi xenofobi e razzisti dei politici delle destre occidentali. Capire, insomma, che noi del mondo ricco dobbiamo stringerci un po’, per fare posto sulla terra anche a loro, le non-persone[vi], quelli che salgono sui barconi e che abbiamo paura di vedere approdare qui, a incarnare nei propri corpi l’ingiustizia.
Allora, forse, solo allora potrebbe spegnersi in tanti africani e africane quello che è oggi l’insopprimibile e legittimo sogno di andarsene; quando al fatto di nascere in Africa corrisponderanno un reddito medio, un’aspettativa di vita e un livello di libertà non così drammaticamente lontani dai nostri. Il che potrebbe avere, sul medio periodo, costi più elevati che non accettare che alcuni di quegli uomini e quelle donne oggi approdino, inserendosi ai gradini più bassi della scala sociale come avviene sempre per gli ultimi arrivati. Per questo chi dice “aiutiamoli a casa loro” no ha nessuna intenzione di farlo davvero, e intende  dire invece: “rimandiamoceli a casa loro e lì, lontani dai nostri sguardi e dai nostri cuori, si arrangino".
No, certo che non li aiuteremo; ci limiteremo a rispedirveli, a casa loro, sempre che non costi troppo il viaggio, là dove la vita media è resa dalla fame, dalle epidemie, dalle ingiustizie e dalle guerre e guerricciole molto più breve della nostra, e dove si vive la propria quotidianità in balia delle angherie, della corruzione, della legge del più forte, della disoccupazione e della povertà. Calpesteremo i loro sogni per restituirli al loro destino di corpi eccedenti, nati nel posto sbagliato della terra e nati inutilmente, perché inutili al nostro benessere. Perché non ci servono a casa nostra; e a casa loro, nemmeno. E possono perciò rimanere per ciò che ci riguarda nell’inferno in cui sono; o, se ormai sono in cammino, forse restare sospesi chissà per quanto, in quali condizioni e chissà per dove nei campi - più o meno infernali, (forse) si vedrà - della Libia a sognare, a pochi chilometri di distanza da un mare “nostro” dove è loro interdetto il passaggio, il miraggio d’Europa.
Sono preoccupato, perché io credo che un giorno la Storia chiederà conto all’Europa di questa generazione, cioè a noi, di tutto  questo: dei corpi annegati in questi anni sotto i nostri occhi nel tentativo di approdare, come di chi oggi respingiamo e abbandoniamo di fatto nei campi della Libia.  E non potremo dire: non sapevamo, noi credevamo che la Libia fosse per loro un posto sicuro.

N.B. Sui rapporti tra nord e sud del medierraneo e le migrazioni contemporanee ci  si è già soffermati in questa rubrica in: "Il valore del sangue. Un pensiero sulle stragi terroriste del 12 e 13 novembre" (clicca qui per il link); "Corpi eccedenti, corpi violati. Le donne di Colonia e i (vecchi e nuovi) fantasmi d'Europa. Monologo sull'Europa" (clicca qui per il link). 

 

[i] Cfr. le pagine introduttive in: P.F. Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945), Verona, Ombre corte, 2008. Sula questione del confine nel mondo contemporaneo rimando invece al saggio di Sandro Mezzadra, Terra e confini. Metamorfosi di un solco, Manifestolibri, 2016 (clicca qui per la recensione su POL. it)
[ii] Sulle emozioni dell’incontro in mare esiste un’infinita letteratura. Ricordo volentieri il testo collettivo al quale ho preso parte: M. Cechini et al. (a cura di), Sulle rive della psichiatria. Per una storia del progetto Matti per la vela, Genova, Litoprint, 2011.
[iii] Dal sito del Ministero degli Esteri, sezione “Viaggiare sicuri. Informatevi, alla voce Libia (grassetto nell’originale): http://www.viaggiaresicuri.it/paesi/dettaglio/libia.html?no_cache=1.
[iv] Eloquente il volume, in proposito, di Federico Rahola: Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Verona, Ombre corte, 2003.
[v] Sulla tendenza in questi anni a una convergenza di pezzi di sinistra con la destra intorno al tema dell’”interesse nazionale”, in particolare nel campo delle questioni migratorie, e le relative implicazioni culturali, antropologiche e sociali rimando all’approfondito studio di Sandro Mezzadra: Il nuovo regime migratorio europeo e le metamorfosi contemporanee del razzismo, Studi sulla Questione Criminale, II, 1, 2007, pp. 13-29.
[vi] Ricordo il volume ormai maggiorenne ma sempre purtroppo molto attuale di Alessandro dal Lago: Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli,.1999.

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