L’Etica della Psicoanalisi
Scientia descendit in mores
La locuzione latina ci dice che “la conoscenza si traduce in consuetudini”, in azioni, prodotti ed è il simmetrico del concetto piagetiano per cui “il Pensiero è azione”, per cui, ad esempio il gattonamento del bambino, il suo agire, lo aiuta alla intuizione degli a priori di tempo e spazio, categorie nelle quali, poi inquadrerà, man mano, gattonando gattonando, altre conoscenze, altri concetti.
Da ciò se ne deduce come pensiero e azione, conoscenza e prassi siano strettamente intrecciati in un reciproco determinarsi.
Io sono fortemente convinto che la conoscenza e la competenza, cioè il saper fare, il saper essere, abbiano una dimensione etica e richiamino chi di dovere, a divulgarla nel modo più ampio e corretto possibile.
È la questione che io mi sono sempre posto con la Psicanalisi e cioè se essa
- debba essere insegnata solo nelle Scuole di Formazione per i futuri analisti
- praticata come “Analisi o terapia(?)”
- o se possa e debba diventare, almeno nei suoi concetti basici, patrimonio comune, correndo i rischi di una sua banalizzazione.
E poi cosa si intende con banale?
Dire ad esempio che mettere le dita nella presa della corrente è pericoloso, non è un concetto profondo ed è quanto di più banale ci sia …. a meno che io non cerchi da farlo capire al mio nipotino di un anno, allontanandolo, nei suoi gattonamenti e comunicandogli con espressioni “ridicole” del viso, che c’è un qualcosa, attorno a quella cosa, che non va: e il bambino capisce che la nostra relazione può essere compromessa da quella sua azione o anche che io sono felice se egli sta lontano dalla presa e questo è un insegnamento di una profondità senza eguali: è prevenzione fisica, perché lo salvaguardo da pericolose scosse; è una prevenzione psicologica, perché egli capisce che io mi interesso a lui; che lui, per me, è importante.
Vogliamo dirlo in termini lacaniani?
- Egli desidera il mio desiderio che egli non metta le dita nella presa di corrente.
Questo mi sembra un modo intelligentemente banale di parlare di un concetto Lacaniano, senza attorcigliarmi in nodi Borromaici.
Altrettanto banale è dire al padre di un adolescente, che egli è il genitore di suo figlio, salvo poi aggiungere che si è genitori sempre e che il termine non si riferisce solo all’aver generato, quanto quello di continuare a generare: generare speranza nel figlio: e questa, per il genitore, potrebbe essere una scoperta, un qualcosa al quale non pensava, credendo esaurito il suo compito dopo la fase dell’infanzia e della neotenia del proprio bambino.
Etica e Psicanalisi
Se affrontiamo il nesso tra Psicanalisi e Etica, vuol dire che ci poniamo il problema se la Psicanalisi sia Etica e Lacan[1] ci risponde di sì, quando afferma che la psicanalisi deve portare l’analizzante, a coniugare il Desiderio con la Legge: cioè, non può esserci alcun Desiderio del soggetto umano, la cui soddisfazione si possa tradurre in una perdita, un danno per un Altro soggetto.
Ma poi, nella prassi, è sempre così?
E inoltre, come si fa a monitorare e a capire il riverbero che il conseguimento di un Desiderio ha sull’Altro.
Le Domande
- La psicanalisi si deve limitare (è già tanto) a condurre l’analizzante a riconoscere il proprio desiderio e a perseguirlo o deve anche agire in modo che si riverberi positivamente, obiettivo pretenzioso, sulla struttura e cioè sulla società?
- Ci si pone nel mondo accademico e nelle varie scuole di formazione, il problema se l’analisi, portando l’analizzante ad una egosintonicità col suo modo d’essere o all’obiettivo dell’accettazione di una eventuale ineliminabile sofferenza, non sortisca effetti dannosi sulla società?
- Cioè, se la giurisprudenza, anch’essa sedicentesi etica, può fare assolvere un omicida, siamo sicuri che la psicanalisi liberando un potenziale criminale dai propri sensi di colpa, non possa condurlo all’atto criminoso?
Solo dimostrando che la psicanalisi coniughi benessere del soggetto a quello sociale, solo allora potremmo definirla etica nel senso più ampio del termine, cioè, nell’unico senso accettabile.
- Qualcuno potrebbe cortocircuitare la risposta, con un semplice, nonché suggestivo “salvando uno salvo tutti”, ma onestamente questo è un assioma e non una dimostrazione, anche perché il caso al punto (3), anche se estremo, ci pone dei dubbi in proposito.
- Qualcun altro, con migliori argomentazioni, sosterrà che un soggetto affrancato dalle sua costrizioni e afflizioni esistenziali, proprio perché ha conosciuto il dolore, sarà un soggetto maggiormente prosociale: ma il caso al punto (3) smentisce anche questa condivisibile argomentazione.
Un caso frequente
- Un marito, che è anche padre e che è scontento della moglie, deve essere aiutato dall’analista a perseguire il proprio desiderio, che è magari quello di separarsi dalla moglie, gettando nel dolore i propri figli?
- l’analista capisce che quel desiderio ne nasconde un altro e porta l’analizzante a individuarlo, allontanando il rischio della separazione, visto che il problema era un altro?
- l’analista propone una terapia di coppia, nella speranza di volgere il disagio di coppia in una accettabile convivenza o financo a un amore più consapevole, portando i due partner a riscoprire quanto di buono c’era stato all’inizio di tale rapporto?
L’esperienza mi insegna che
- se la coppia ha deciso di ricostruire, ricostruisce, aiutata dall’analista
- se la coppia ha deciso di separarsi, cerca solo la legittimazione dell’analista: facendo fallire l’analisi, che viene sabotata, in modo da potersi, in seguito assolvere: “Abbiamo anche provato con l’analisi!”
Il vero Analista è l’Analizzante
In fondo, come tutti sappiamo, l’analisi la fa l’analizzante.
La vera analisi sarebbe quella che riesce a smentire destini già decisi: quelli cioè non frutti del destino, ma decisi dai soggetti stessi, che poi incolpano il destino: ergo: l’analisi è “Un mestiere impossibile”. C.V.D[2].
In effetti sembra che l’impossibilità della psicanalisi sia ineliminabile, senza l’assunzione della piena responsabilità dell’analizzante, al quale un buon analista può e deve condurre.
Ma vedo che sto girando intorno a un aspetto che quasi tutti rimuoviamo e che è quello della presunta, presuntuosa, pretenziosa neutralità dell’analista.
La Neutralità (?) dell’Analista
Il punto attorno al quale ho girato, prendendo coscienza di averlo fatto e sul quale molti si contorcono con esercizi dialettici e dotte argomentazioni, arrivando all’autoassoluzione, è quello che declinerò nei punti sottostanti:
- Siamo proprio convinti che la formazione dia allo psicanalista, oltre al titolo, anche lo stigma della neutralità? O tale neutralità non dipende anche dai futuri contesti e condizioni nei quali esso si troverà ad operare?
- Siamo sicuri che l’analista si presenti in seduta sempre libero delle sue ambasce quotidiane o quanto meno sia in grado di riconoscerle, per cogliere nell’hic et nunc della seduta, se quello che accade nella relazione psichica è l’esito del transfert o, diciamola brutalmente, non giocano ruoli determinanti le afflizioni dell’analista, non ultimo, anzi, primariamente, una seppur latente paura di perdere il cliente?
- Siamo sicuri che l’analista è sempre al riparo dalla collusione con l’analizzante, che va da lui perché sa che lui gli dirà ciò che vuole sentirsi dire o lo spera: e se ciò non accade, cambia analista?
- Cioè, è un assunto di base che l’analista saprà assumere col suo analizzante, sempre e comunque un assetto neutrale, anche se fa fatica a sbarcare il lunario con il suo lavoro?”
La Perversione dell’Analista
E se l’analista che collude, non lo fa per inesperienza, ma perché:
”Tanto lui ha deciso, nessuno lo smuove e se io non cedo, questo va da un altro che legittima la sua posizione: e allora, se la situazione è comunque irrisolvibile, perché perdere un cliente?”
Le Condizioni al Contorno
Purtroppo, ritengo, che ci sia una condizione necessaria, anche se non sempre sufficiente, alla neutralità, che è quella di sapere che con la sola psicanalisi non ci si vive, come d’altra parte non si vive di sola Santità.
La Psicanalisi può essere un diletto, una missione, ma non per tutti, automaticamente, un lavoro privato e che sia anche l’unico.
Perché se l’analista ha solo 2 o 3 clienti, potrebbe andare in “paranoia” per un ritardo dell’analizzante, salvo poi attribuire tale disagio, come in un riflesso, all’analizzante, se poi questi dovesse arrivare:
“Analizziamo il perché di questo ritardo!”
Giammai direbbe: “Meno male che sei venuto: stavo già disperando!”.
Eh no, io sono il soggetto neutro! Cioè, sono un soggetto non umano, perché la formazione psicanalitica mi ha attrezzato, non solo al transfert del cliente e a riconoscere le mie emozioni e a controllare, quindi l’eventuale controtransfert, ma mi ha anche insegnato a sopravvivere senza clienti!
La Follia di credersi uno Psicoterapeuta
Passiamo a un altro punto dolente del nostro “mestiere: Freud, del titolo sull’”Interpretazione dei sogni”, dichiarò egli stesso: ”Interpretazione, che orribile parola!”
Io ne trovo un’altra altrettanto orribile, “Psicoterapia”[3]
Traggo spunto da aforismi lacaniani dei quali giustamente ci deliziamo: “Se un soggetto dice di essere un Io è folle”; “Un comune mortale che dice di essere un Re è folle:
e ora qua viene il bello: “Se un comune mortale che dice di essere un Re è folle, ancora più folle è un Re che dice di essere un Re!”
Se cioè noi analisti, con snobismo, compiacenza, neghiamo che l’Io coincida e includa il Soggetto umano e che il Re che si crede un Re è folle, ed abbiamo ragione a farlo, mi si spieghi con quale credibilità, che non sprofondi nel grottesco, sia poi quello di definirsi “Psicoterapeuta” con una targa sul portone, anche e soprattutto a conferma di una identità della quale inconsciamente si dubita. (se così non fosse sarebbe veramente drammatico, perché l’etica del soggetto sta anche nel dubitare sempre di ciò che pensa di essere).
Cercherò di spiegare quanto sopra e cioè della follia di definire se stesso Psicoterapeuta e del grottesco alibi di una sua conferma nell’iscrizione all’Albo[4]: la qualcosa non sarebbe nemmeno da spiegare, ma solo da disvelare, tanto essa è nelle cose.
Prendo appoggio da una risposta che mi dette Musatti, quando gli chiesi quale fosse la differenza tra psicanalisi e psicoterapia. Egli, senza fare tanti giri di parole mi rispose: ”Se uno viene da me, si fa quattro chiacchiere e poi sta meglio, lui cosa potrà dire?”
È il Tempo, come sempre, che decide ed è l’Altro, come sempre, che ci nomina
Ecco la questione dirimente: la temporalità.
Musatti dice:” … e poi sta meglio”. È il poi che rende il termine psicoterapeuta “dicibile”.
Es: “l’analizzante viene in analisi, fa delle sedute, poi sta meglio, non ha più necessità di tornare; mi dice anche che sente di avere risolto i suoi problemi o di aver imparato a conviverci: ebbene, se ne può dedurre che c’è stato un processo terapeutico”.
Quindi il termine psicoterapeuta può solo avere una legittimazione ex post, che è comunque continuamente messa in discussione, da chi, venendo per una o poche sedute, poi mi molla.
Cosa che dimostra come sia solo l’Altro che mi nomina e, come accade spesso, decide lui chi io sia:
- “L’Altro supposto sapere”
- Oppure: “L’Altro sedicente, ma solo sedicente, psicoterapeuta”.
La sola cosa che io possa dire, senza prima o dopo e senza la legittimazione dell’altro è che io mi sono formato come analista e mi posso ripromettere di propormi con competenza, passione e senso morale nell’ascolto di una persona che chiede il mio “aiuto”.
Sono cioè un analista.
E qui non capisco i giochi semantici e giuridici che stabiliscono un primato della psicanalisi sulla psicoterapia: cioè, mi si spieghi come le sedute possano esitare in uno star meglio del cliente, senza un’analisi.
Sì, va bene, mi si dirà, l’analista “va nel profondo”.
Bene, mi si spieghi allora di quanto, ma soprattutto mi si spieghi il punto critico, nell’incontro tra i due soggetti, l’analista e l’analizzante, al di qua del quale sono psicoterapeuta e al di là del quale sono psicanalista: cosa impossibile, perché la nostra psiche si muove sul nastro di Moebius[5], perché la discontinuità psichica non esiste, ma è un continuum, nel quale viaggiamo più o meno confusamente, cercando continuamente di trovare una coerenza.
Noi ci muoviamo continuamente tra i registri del Simbolico e dell’Immaginario, senza mai chiederci e, spesso, senza sapere in quale di essi siamo, (anche perché, il più delle volte, siamo contemporaneamente, in entrambe le dimensioni).
E a questo oscillare tra i due registri, a questo continuo movimento, noi affidiamo la speranza di “scansare” ogni possibile incontro con il Reale, pur sapendo che esso è il “fine corsa” al quale giungeremo: ciò che noi possiamo desiderare e sperare, ma questo dipende molto dalla contingenza, è che la corsa, la nostra vita scorra senza troppe pene, senza troppi Reali da dovere elaborare, prima di giungere allo scacco finale.
Un utile articolo
Sulla questione della Psicoterapia, rilevo che non ci sono prese di posizioni molto autorevoli e convinte da parte dei colleghi: una delle poche eccezioni, lodevole per la fermezza con la quale affronta il non senso o il senso perverso della legge, è Moreno Manghi[6], “Cosa regolamenta effettivamente la legge Ossicini?”, che riprende, con maggiore competenza e con un approccio anche giuridico, la questione.
Il fatto che quella di Manghi sia quasi una voce nel deserto, mette automaticamente in evidenza il silenzio dei colleghi e fa sorgere una domanda: “Cui prodest”?
Forse però, la domanda è sciocca e ingenua, perché in fondo, lo status quo fa comodo a tanti.
Gli Ordini: Cosa sono? Cosa fanno? A cosa servono?
Ma non vi sembra paradossale che chi, come gli Psicoterapeuti e gli Psicanalisti hanno a che fare con i problemi di Identità dei loro clienti, poi debbano trovare conferme alla propria identità, in un Ordine?
Perché, in fondo, checché ne vogliamo dire, la realtà più profonda è che l’Ordine serve a questo: “a mettere ordine a chi avverte in sé un certo disordine e anche a chiudere i confini allo straniero, per paura dell’Altro”.
Il problema, come al solito, non è il disordine che ci portiamo dietro, perché esso è fisiologico, ma è la nostra incapacità ad accettarlo e a tollerarlo e allora proiettiamo in una Istituzione, l’Ordine, il senso delle nostre insicurezze.
Diciamo che l’Ordine sta, per l’analista, a metà tra l’Immaginario e il Simbolico e serve a fronteggiare il Reale, ma l’aspetto inquietante e che, in questo caso, l’Immaginario tende a sconfinare nell’allucinazione e il Simbolico tende a diventare ipertrofico, volendo attribuire un senso a tutto, anche a una legge della quale, ripetiamo, non si coglie il senso: e così il Reale, invece di essere tenuto a bada, sbuca da ogni dove.
La conclusione è deprimente, perché, come sappiamo, le allucinazioni e l’eccesso di senso sono dei tratti distintivi della schizofrenia e il Reale come registro pervasivo è un tratto della paranoia.
Per sdrammatizzare e anche per approfondire, mettiamola così: gli Ordini sono:
- L’effetto di un tranfert che non sappiamo risolvere!
- ll transfert dell’Altro (inteso come inconscio), cioè di quel residuo di irrisolto che continua ad albergare in esso stesso!
- Quindi, inconsciamente, tutti amiamo l’Ordine: costi quel che costi: anche la nostra libertà!
Se ci fosse chi nega ciò, e cioè questo residuo di irrisolto nel nostro inconscio, avremmo finalmente trovato “L’Uomo senza Inconscio”[7], proprio quello, cioè, che non può fare né lo psicoterapeuta, né lo psicanalista, ma lo fa, perché,
“come il calabrone vola perché non sa che non può volare, l’uomo senza inconscio fa lo Psicanalista, lo Psicoterapeuta, perché non sa che non lo può fare”:
ma è comunque legittimato a farlo: dall’Ordine!
Psicanalisi come Sapere
Io sono per una pedagogia della psicanalisi, per la psicanalisi come dottrina, come prevenzione e ho praticato per tanti anni, e pratico ancora la diffusione della cultura psicanalitica, ritenendo che una conoscenza dei principi fondamentali della personalità umana possa aiutare:
- aiutare anche chi vorrebbe, ma non ce la fa ad andare in analisi, paventando il rischio di rimanere un Re Nudo;
- aiutare ad acquisire informazioni minime, ma fondamentali nell’educazione dei propri figli, quali la consapevolezza che:
- il bambino è il padre dell’uomo
- noi siamo un esito epigenetico di struttura organica e di esperienze
- l’equilibrio psichico si trova nell’equilibrio tra frustrazioni e gratificazioni, tra illusioni e disillusioni
- amare i figli per quello che sono e non per quello che mamma e papà vorrebbero che fossero
- essere genitori non si esaurisce con la copula, ma è uno statuto permanente che si propone di “generare speranza”
- le proprie biografie sono sempre suscettibili di revisioni, che ne permettano una rilettura meno drammatica
- in noi c’è un sapere che non sappiamo di sapere, perché c’è stato un tempo nel quale, forse, era meglio accantonarlo, ma il cui disvelamento, oggi o domani, potrebbe rivelare un tesoro che arricchirebbe la nostra vita
- della nostra nascita e dalla nostra nascita, siamo debitori ad altri, cosa che comporta la responsabilità di misurare ogni nostro atto in riferimento all’esito che esso sortisce sull’altro. Questa è l’etica!
Prevenzione Psicanalitica
Nell’attività di diffusione della cultura psicanalitica, mi sono molto avvantaggiato, nella mia vita lavorativa, della funzione di preside, organizzando continuamente corsi per docenti e genitori, corsi di formazione, quali ad esempio: Le Teorie Psicanalitiche della Personalità, Nascita e sviluppo della Identità, Il Sé e l’Altro, Il Rapporto di Coppia, Il Rapporto Genitori Figli, La Preadolescenza e l’Adolescenza, Il Bullismo, Le teorie dell’Attaccamento, I fattori affettivi e relazionali dell’apprendimento, etc. etc.
La partecipazione a tali corsi, non obbligatori, era comunque lusinghiera nei numeri, ben io sapendo comunque che una buona parte dei corsisti stesse lì per diplomazia, per piaggeria nei miei confronti, non escludendo comunque che, al di là di una non tanto nobile e profonda motivazione, per l’eterogenesi dei fini, qualcosa arrivasse comunque a destinazione, risolvendosi in quello che in termini tecnici si chiama “apprendimento inintenzionale”.
Mentre per tanti altri, invece, la frequenza partiva da motivazioni più profonde o magari anche da una curiosità intellettuale: alcuni poi, al termine dei vari incontri, chiedevano anche di portare i propri casi personali, la cui analisi rimandavo a colloqui, ovviamente gratuiti, in ore pomeridiane, che mettevo a disposizione dei richiedenti.
Come preside, inoltre, quando ne rilevavo la necessità, con la scusa di un brutto andamento scolastico o di qualche trasgressione di un allievo, chiamavo i genitori e volgevo l’incontro in un colloquio psicanalitico, ove evidenziavo come i fattori cognitivi dell’apprendimento, siano secondari rispetto agli assetti emotivi e relazionali e come le trasgressioni potessero essere o la manifestazione di un disagio fisiologico dell’età o il sintomo di una patologia in atto.
È ovvio che ciò mi veniva dettato dalla consapevolezza del rapporto di causalità molto forte tra insuccesso scolastico/trasgressione e disagio esistenziale.
- A tali genitori, a volte in maniera subliminale, a volte, quando era necessario, parlando in maniera diretta di rischi suicidari, fornivo loro gli strumenti minimi per la “terapia” del figlio, restituendo loro, il ruolo di contenitori del disagio del proprio figlio, ruolo al quale avevano ingenuamente abdicato, come purtroppo fa la maggior parte dei genitori, soprattutto nella fase adolescenziale, quando agiscono il rifiuto dei propri figli.
- Nei miei corsi per genitori di bambini, ho sempre parlato della separazione della coppia come dello specchio che va in frantumi, quello stesso specchio nel quale il bambino, prima percepiva la propria unità e compattezza e ora ne vede la propria frammentazione, percependo il materializzarsi di quella disillusione che cominciava a intuire dagli screzi più o meno malcelati dei genitori e che ora si sta presentando in tutto l’orrore del Reale: perdita totale, al quale comunque si potrà porre riparo, dopo un lungo e doloroso percorso, che si affidi all’intelligenza e al buon senso dei genitori.
Un’utile postilla
Spero di essere letto senza retropensieri, che saranno sgombrati definitivamente da una informazione autobiografica: ho un figlio a Londra, che studia da quattro anni presso la Tavistock, e a giugno diventerà, ebbene sì, “psicoterapeuta”: lo scrivo con la (p) minuscola e senza l’enfasi del grassetto, in un timido e prudente virgolettato, perché il mio naturale e umano orgoglio paterno è mitigato dalla consapevolezza che il lavoro da lui scelto è una missione.
Quelli da me trattati in quest’articolo, sono argomenti che affrontiamo spesso tra noi e sono il frutto di tanti nostri discorsi.
So che egli guarda il mondo e guarda Sé, con molto disincanto, quel disincanto e quell’etica che si devono avere, per sperare che chi un domani dovesse andare in analisi da lui, dopo qualche “Musattiana chiacchierata” possa dire: “Però, che bravo psicoterapeuta!”
Testo della seduta del 7 gennaio 2004 davanti alla Commissione degli Affari sociali della Camera francese.
“Ora, la psicoanalisi, per definizione, non è una terapia, non è una psicoterapia.”
J.-F. Mattéi, Ministro della Sanità francese