IN RICORDO DI GILLO DORFLES: ARTE E PSICHIATRIA. UNA CONVERSAZIONE

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2 marzo, 2018 - 15:21
[ NDR: Gillo Dorfles, critico d’arte, già professore universitario di estetica, si è imposto in Europa e nelle Americhe come una delle personalità più attente agli sviluppi dell’arte e dell’estetica contemporanea, è mancato oggi alla veneranda età di 107 anni. Proponiamo ai lettori di POL.it, come ricordo di una delle figure centrali della cultura italiana del 900, questa inedita conversazione di Gillo Dorfles con lo psichiatra ed arteterapeuta Giorgio Bedoni ]
 

Premessa di Giorgio Bedoni
Un campo aperto e dai confini mobili: così si configura, ad un primo sguardo, l’arte dei visionari e degli outsiders, luogo assai frequentato dalla riflessione psichiatrica e psicoanalitica e dalle sperimentazioni delle avanguardie artistiche.
L’argomento si presta a una serie di considerazioni di carattere storico, culturale e terapeutico. Il Novecento è, infatti, un secolo contrassegnato da fitte e non casuali relazioni tra il mondo dell’arte, soprattutto delle sue avanguardie e la psichiatria. Un‘ampia letteratura e una ricca documentazione visiva sono la testimonianza di questi rapporti fecondi e costituiscono materia per un discorso storico-critico più che mai attuale, presupposto per l’utilizzo dell’arte nel campo della cura.
Una rapida incursione in questo ambito disciplinare ci permette di incontrare parole chiave, umori e coincidenze che già individuano una storia: stupore e fascinazione, come nelle parole di fine Ottocento dello psichiatra francese Emile Tardieu, ma anche il pregiudizio di inizio secolo che anticipa gli orrori dell’ "arte degenerata", Entartete Kunst e del nazismo, cui non sfuggono le opere della Collezione Prinzhorn di Heidelberg e gli stessi ospiti degli asili manicomiali.
Oltre il pregiudizio, il riconoscimento: la svolta è segnata da psichiatri che inaugurano l’epoca della comprensione, Hans Prinzhorn e Walter Morgenthaler,che pubblicherà nel 1921 la prima monografia dedicata a Adolf Wolfli,un malato consacrato come artista. Infine l’apertura alla relazione attraverso l’opera che, sin dagli anni Venti, individua nell’arte uno strumento terapeutico.
Le opere dei visionari e degli outsiders susciteranno sin dai primi del Novecento l’interesse degli artisti: di Breton e di Eluard, di Ernst e di Rilke, di Paul Klee e, nel secondo dopoguerra, di Jean Dubuffet e della nascente Compagnie dell’Art Brut.
In nome dell’ "automatismo psichico" per i surrealisti: nel Palais Idéal edificato dal postino francese Ferdinand Cheval, geniale autodidatta, Breton vide un caso esemplare di surrealismo realizzato. Gli ingredienti c’erano tutti e in grande abbondanza, tali da soddisfare ogni aspirante surrealista: sogno e discordanza, gioco e deriva poetica, quel gioco valorizzato attraverso la pratica collettiva del "cadavre exquis", che genialmente rimetteva in campo le energie e gli umori dell’esperienza infantile.
Già nel 1912 Paul Klee, in occasione della prima mostra del movimento artistico "Der Blaue Reiter" alla Galleria Thannauser di Monaco, aveva pubblicato un articolo sulla rivista "Die Alpen", individuando nelle culture "altre", nei disegni dei bambini e in quelli dei malati mentali le sorgenti della creatività.
In quel famoso scritto Klee accosta forme d’espressione ritenute generalmente marginali, o quanto meno inusuali, all’arte nelle sue fonti originarie e individua nell’esperienza onirica, nel gioco e nello sguardo infantile i presupposti per orientare, come lui stesso scrive, "una riforma".Per certi versi Klee in quel lucido saggio intuisce che non sono in gioco i soli criteri formali, confermando così punti di vista attuali. Sarebbe infatti un’ulteriore forma di riduzionismo pensare a queste forme d’espressione semplicemente come una nuova o eccentrica categoria estetica. Quest’arte conferma invece la natura irriducibile dell’esperienza umana ai processi sociali di normalizzazione e la ricerca di un dialogo attraverso la ripetizione, spesso estenuata, dei suoi mondi più segreti.
Tutto questo era stato compreso da Jean Dubuffet che stabilirà a Losanna la sua irripetibile Collection de l’Art Brut, richiamando nel termine Brut, lui che era stato in gioventù commerciante di vini, lo spumeggiare dello champagne, frizzante come può essere quell’arte che scaturisce laddove nessuno la cerca o pensa di poterla riconoscere.
In anni più recenti altri seguiranno questa strada: artisti come Arnulf Rainer, esponente storico di una stagione viennese che mostra il corpo e ne scopre i linguaggi. Rainer, l’artista e collezionista che dagli esordi lavora con i visionari conservandone le opere: tele, carte, fotografie e scritture, lavori in gran parte inediti, molti provenienti da archivi psichiatrici dell’Europa dell’Est. Tutto quello che riteneva necessario per "immergersi nei fondali originari". Un collezionismo particolare, che si intreccia alla sua personale ricerca su materiali e linguaggi, confermando quel legame profondo, ricco di sorprendenti coincidenze e di insidiosi stereotipi, tra arte e storia della psichiatria in Europa.
Su questi temi ho intervistato Gillo Dorfles, acuto osservatore sulle frontiere dell’arte e della cultura contemporanea, che in diversi suoi scritti si è occupato di arte, psicopatologia e psicoanalisi.
Devo alla sua gentilezza e alla sua pazienza questa conversazione, che riporta i delicati e talvolta controversi rapporti tra "arte e psichiatria" nello spazio della ricerca transdisciplinare.
 


Conversazione con Gillo Dorfles
di Giorgio Bedoni
Collaborazione di Lucia Perfetti
 
Bedoni: Professor Dorfles, Lei è noto per gli studi di estetica e per la sua personale ricerca sulle frontiere dell’arte, ma non tutti sanno che la sua formazione giovanile è medica e psichiatrica…
Dorfles: La mia formazione psichiatrica è abbastanza semplice. Dopo aver fatto sei anni di medicina ho deciso di fare la specialità in neuropsichiatria. Mi ero dunque iscritto a Genova,dove allora insegnava Cerletti,persona molto affascinante e ben noto per l'uso dell'elettroshock, ma già al primo anno ho dovuto interrompere gli studi di psichiatria per via della guerra.
Dopo la guerra mi sono iscritto a Pavia,dove insegnava il professor Riquier.
A Pavia c’era una vecchia clinica neuropsichiatrica con le sbarre alle finestre. Per due anni sono stato a Pavia. In quegli anni ho potuto sperimentare le tecniche più in voga, che erano essenzialmente l'elettroshock e la somministrazione del pentothal. Finita la specialità vivevo a Milano e per due anni ho frequentato l'ospedale Maggiore dove il professor Medea dirigeva un padiglione.Qui è terminata la mia attività psichiatrica, poiché nel frattempo mi ero già occupato di critica d'arte su vari giornali e avevo scritto alcuni saggi.
B: Quanto ha influito la formazione psichiatrica sulle sue ricerche?
D: Naturalmente ha influito. Ho sempre avuto verso l'arte, verso le forme creative un interesse unito a una base psicologica, diversamente da un approccio esclusivamente filosofico. Nelle mie ricerche estetiche l'aspetto psicologico e antropologico è sempre stato dominante.
B: La sua città, Trieste, è stata luogo di incontro tra arte, letteratura e psicoanalisi in Italia: penso al soggiorno di Freud, giovane studente di medicina e al rapporto di Edoardo Weiss, allievo diretto di Freud, con Umberto Saba e con il pittore Arturo Nathan
D: in Italia c'era a quel tempo un certo fermento per la psicoanalisi:io avevo conosciuto Musatti molto bene e la psicoanalisi mi aveva interessato molto, però non come pratica terapeutica. Non ho mai pensato di fare l'analista, tuttavia continuavo a interessarmi di psicoanalisi. Non solo: in quegli anni frequentavo alla Cattolica i seminari di padre Gemelli. A questi incontri, ai quali ero stato invitato, c'era da una parte Gemelli, che avversava la psicoanalisi, dall'altra Musatti e tanti altri studiosi: ricordo Enrico Castelli di Gattinara, professore di Filosofia, autore del saggio "Demoniaca nell'Arte", che organizzava seminari romani che frequentavo assiduamente.
Questi seminari,molto interessanti, erano filosofici e nello stesso tempo teologici e antropologici; a questi incontri interdisciplinari partecipavano Musatti, Lacan, ancora poco noto e Ricoeur, che già allora si interessava alla psicoanalisi.
B: Ha sempre avuto questo interesse interdisciplinare…
D: Per molti anni ho continuato a interessarmi di filosofia e di psicoanalisi,sempre con molta utilità per i miei scritti di estetica, almeno così credo!
 B: A proposito di letteratura, lei conosceva bene Italo Svevo e poi lo stesso Saba che aveva intrapreso la cura con Edoardo Weiss
 D: Saba era un uomo molto singolare. Per lui la psicoanalisi era molto importante. Era stato anche in terapia. Trovo invece esagerata l'importanza che si da all’influenza esercitata dalla psicoanalisi sulle opere di Svevo .
Svevo era indubbiamente un grandissimo scrittore e aveva un cognato che si era sottoposto alla terapia analitica; un cognato molto curioso, che era stato a Vienna a farsi analizzare.Quindi Svevo era venuto a conoscenza della psicoanalisi attraverso il cognato, ma non che fosse particolarmente informato. Invece, come lei ha già ricordato, in quegli anni a Trieste era presente Edoardo Weiss, allievo di Freud. Trieste è stata una delle prime città a interessarsi di psicoanalisi, anche perché era una città con radici mitteleuropee e ancora con legami con l’Austria.
B: Quanto ritiene sia stato importante per l’arte lo sguardo psicoanalitico?
D: Parlare di psicoanalisi significa fare un discorso infinito. Penso che la psicoanalisi ,a prescindere dalle critiche o, viceversa, dall’enorme plauso che ha avuto come terapia, sia stata estremamente importante per la letteratura e per l'arte. Ad esempio per Breton, padre del surrealismo, ha avuto un'importanza enorme, se non fosse stato interessato alla psicoanalisi, forse molte opere di Dalì, di Ernst e di molti altri artisti di quel periodo non si sarebbero sviluppate in quel senso. A questo punto , tuttavia,si può ricordare l'episodio ben noto di Breton che va a Vienna, e viene trattato malamente, (non dico cacciato!) da Freud, per la poca comprensione e fiducia da parte di Freud negli addentellati del surrealismo. Ma questi addentellati c'erano e penso che a metà del ventesimo secolo la psicoanalisi ebbe una grande influenza sull’arte.
B: Breton, che era medico con interessi psichiatrici, fu molto interessato all'arte dei malati mentali. Negli anni Trenta con Marcel Duchamp ebbe frequenti contatti con lo psichiatra Gaston Ferdière, che sarà a Rodez il medico di Antonin Artaud. In quegli anni l’ospedale parigino di Sainte-Anne diviene luogo di incontro tra i surrealisti e quegli psichiatri che incoraggiavano l’utilizzo del medium artistico. E poi c’è il famoso incontro A Londra tra Dalì e Freud. Potremmo insomma dire che in tema di arte, psichiatria e psicoanalisi il surrealismo si colloca in una posizione centrale nel Novecento, è il movimento più vicino. Ma ,in sintesi, qual è ,a suo parere, l’intuizione freudiana più importante per l’arte?
D: Il grande valore attribuito all’inconscio, con tutte le sue necessarie stratificazioni che sino a quel momento rimanevano celate, ha permesso a molti artisti di sviscerare i propri ricordi sublimandoli e anche di sottoporsi a una pratica psicoanalitica e di indagare meglio le proprie pulsioni più o meno nascoste. Quindi direi che la psicoanalisi per il secolo scorso è stata estremamente importante. Da un lato la pittura onirica, nelle sue varie forme, dall'altro l'onirismo letterario, il soliloquio di Molly nell’Ulysses di James Joyce. Poi, con le diverse correnti originate dal pensiero freudiano, dalla Klein a Lacan, sino alla Daseinsanalyse di Binswanger, le cose si complicano, pur mantenendosi l’influenza sulle attività letterarie e artistiche.
 B: Per certi versi quello che Freud chiamerà Unheimlich e tutto il discorso di ciò che doveva rimanere segreto ma viene poi alla luce pervade l’arte e la letteratura del Novecento
D: Questo stesso Unheimlich di Freud, in parte scopre certi radici in opere letterarie prodotte nell’Ottocento. Queste erano, in un certo senso, premonitrici di quelle ricerche diventate poi ufficiali con la psicoanalisi. Nel panorama odierno penso, ad esempio, a un autore come Patrick Mc Grath, figlio di uno psichiatra, i cui libri rimandano a atmosfere manicomiali, ma penso anche a autori come Paul Auster e Ian Mc Ewans.
B: A proposito di questi temi, diversi suoi scritti hanno affrontato i rapporti tra arte e psichiatria
D: Esistono numerosi casi parzialmente riportabili alla psicoanalisi;si pensi, ad esempio, alla famosa Collezione dell'Art Brut di Losanna.
B: Cosa pensa di quella Collezione?
D: Intanto io conoscevo bene René Bergé ,uno dei promotori del museo insieme a Michel Thevoz. Dubuffet, artista molto interessante, ha coniato la nozione di art brut,che in parte è da ricondurre a forme d’espressione "inconsapevoli" e in parte all’arte naive. Infatti nel museo di Losanna sono presenti sia artisti naifs (ingenui, primitivi), sia artisti decisamente "folli". C’è in quel museo un misto compositum di ricerche naives , patologiche, borderlines.
Il famoso artista di Berna, Adolf Wofli, ad esempio rientrava nell’ambito della schizofrenia.Ricordo di aver parlato con la moglie del direttore del museo di Zurigo, che mi ha raccontato cose molte interessanti su questo malato.I suoi dipinti sono indubbiamente artistici, però di un tipo di arte che non esisterebbe se non ci fosse stata la follia.
Non si può dire: "questo è un grande artista e basta": Wolfli era effettivamente un’artista, come ci sono molti malati che non sono artisti. Le cose vanno distinte: spesso si crede di individuare una forma artistica che non è altro che patologica. Invece esistono delle forme d’espressione come queste, che hanno a tutti gli effetti un valore artistico.Ricordo ad esempio i famosi casi di Carlo Zinelli a Verona e del pittore di Volterra, Nannetti.
Invece nel Museo dell’Art Brut di Losanna abbiamo anche opere di artisti naives. Ricordo un famoso artista serbo, un contadino, che creava bellissime immagini . Era un autodidatta, non aveva mai studiato ma aveva un talento innato per la pittura, le sue immagini erano influenzate dal primitivismo, come molte opere esposte nel museo di Zagabria, dedicato all’arte primitiva di stampo folkloristico.
Possiamo ricordare, ancora,il famoso caso Ligabue e il meno noto Filippo Bentivegna, un caso tipico: un povero contadino siciliano che dopo un trauma inizia a scolpire solo teste, per tutto il resto della sua vita. Curava i suoi ulivi e tutto il suo tempo libero lo trascorreva a scolpire teste.
Questa è, invece, un'opera di un mio carissimo amico,Oscar De Mejo, il marito di Alida Valli:intelligente e vivace, era andato a vivere in America e produceva opere naives che riscuotevano un certo successo. Era una persona colta, "normale", tuttavia aveva scelto questo genere artistico..Naturalmente vedendo questi disegni si direbbero opere di un autore non colto, ma vedendo la raffinatezza del lavoro si potrebbe pensare a un "folle": mentre invece era un "finto naif" e tutt’altro che psicotico.
B: Queste scelte di genere hanno a che fare con ragioni profonde, non riconducibili solamente a questioni formali
D: Credo proprio di si. Credo che alla base ci sia una ragione affettiva profonda. Attraverso quello che producono si rivela quell'aspetto inconscio che non viene identificato dallo stesso autore. Proprio per questo Margaret Naumburg, che ebbi la fortuna di conoscere bene a New York negli anni Sessanta e che era stata allieva di Freud faceva dipingere i suoi pazienti:attraverso l’attività artistica aiutava il lavoro analitico.
B: Qual’era la sua tecnica?
D: Vuol vedere un libro?
B: Si ,certo ,con piacere.
D: Questo è uno dei libri più noti della Naumburg, "Psychoneurotic Art: Its Function in Psychotherapy".
B: Margaret Naumburg è generalmente ritenuta la fondatrice dell’arte terapia negli Stati Uniti, la prima, per certi versi, a utilizzare la disciplina come una forma specifica di psicoterapia
D: Ha avuto risultati straordinari
B: Lei la ha conosciuto direttamentela Naumburg?
D: Si ,certo. Allora era già abbastanza anziana e la conobbi attraverso il grande psicologo dell’arte e gestaltiste Rudolf Arnheim.
B: Mi piacerebbe ora chiederle qualcosa sul "pensiero visivo", un concetto ricorrente nei suoi scritti
D: Il pensiero visivo, ossia "Visual Thinking" o anche "Bildhaftes Denken" l'ho sempre considerato decisivo non solo per l'estetica, ma anche per la psicologia.
L'ho sempre considerato importante poiché è un tipo di pensiero non logocentrico, dunque permette di sviluppare concetti e pensiero senza bisogno di ricorrere al medium verbale.
L’attività artistica, come ho scritto in un saggio, è provvista di una componente gnoseologica e può dunque "servire" a un individuo normale; ma nei casi di patologia psichica, può assumere delle caratteristiche del tutto paradossali.
B: In alcuni casi diviene la modalità privilegiata per esplorare la realtà , o per comunicare mondi e visioni altrimenti segrete.
D: E’ un modo di avvicinarsi alla realta' attraverso l’utilizzazione del pensiero per immagini piuttosto che attraverso concetti formulati e già sviluppati sul linguaggio verbale.
B: In questa prospettiva l’opera visionaria di Ferdinand Cheval, il Palais Idéal di Hauterives, è indubbiamente esemplare
D: Cheval è un altro caso veramente strepitoso. Mi viene in mente anche Simon Rodia e le sue Torri Watts
B: L’opera di Cheval è veramente complessa,enciclopedica, ricca di figure apotropaiche che alludono all’esotico ma che in fondo ricordano l’appartenenza di Cheval al suo contesto e a una storia. Per certi versi la Francia dell’immaginario tardo-medioevale fa capolino nell’horror vacui del Palais Idéal, è la Borgogna romanica descritta da Henri Focillon, che vive "del fantastico delle immagini e insieme della logica dell’architettura". Oggi molti lo associano a Antoni Gaudì, si celebrano le affinità. A mio parere è necessario ricordare ciò che li distingue: Cheval era autodidatta e periferico, Gaudì, invece, grande architetto a Barcellona, portavoce di quello che lui stesso definirà "gotico mediterraneo", e poi sostenuto nei suoi progetti più visionari da un grande mecenate, Eusebi Guell.
D: Ricordiamoci che anche il grande Gaudì era un tipo eccentrico che si ostinava a parlare solo in catalano.
B: Forse Gaudì e Cheval avevano in comune quella capacità che solo pochi hanno di reinventare la visione, di vedere come fosse "la prima volta"
D: E’ grande il Palais Idéal?
B: E’ lungo ventisei metri per dodici di altezza
D: Anche Wolfli è un grande, è straordinario nelle sue invenzioni grafiche e pittoriche.
B: Autori come Cheval e Wolfli ci portano al tema del "troppo pieno" e del suo rapporto con il vuoto, argomenti che lei affronta sovente nei suoi scritti
D: Riempire tutto il foglio è una caratteristica anche di Nannetti, non lasciare uno spazio dipende dalla paura del vuoto; d'altronde è la stessa paura del vuoto dei primitivi, il cosiddetto "horror vacui".
B: Certo.ma alcuni autori sono capaci di silenzio visivo. Penso ai lavori di Oswald Tschirtner, autore dalla lunga storia psichiatrica che traccia figure sintetiche su carte di piccole dimensioni o figure allungate come totem sulla Haus der Kunstler, la Casa Degli Artisti, che lo ospita nei pressi di Vienna.
D: Nel mio libro "L'intervallo perduto" parlo di questa dialettica tra" pieno e vuoto", che naturalmente riguarda anche la psicologia.
Questo discorso del pieno e del vuoto mi ha sempre affascinato. In un certo senso riguarda non solo l'arte, ma la stessa esistenza umana dalle sue origini: i primitivi che riempiono le grotte di segni e di immagini,il famoso "orrore del vuoto". Illustrare le pareti delle caverne era senza dubbio ascrivibile a temi religiosi, ma più di ogni altra cosa rappresentava un ‘azione contro il vuoto, contro l’assenza del segno. E’ a partire da questo segno, da questa impronta, che l’uomo si sente protetto. Si continua così nella storia dell'umanità, sino ad arrivare ai nostri giorni,dove viviamo "l'orrore del pieno";dunque l'abuso delle immagini e dei suoni, l'abuso di tutto, del traffico, eccetera. Qui il problema "vuoto-pieno" diventa patologico.
B: Diviene un problema di sopravvivenza psichica.
D: Allora bisogna lottare con questo "troppo pieno", altrimenti le nostre possibilità percettive vengono sopraffatte.
B: Diverso è il caso dell’arte giapponese
D: Naturalmente. Qui,c'è un infinità di vie traverse: il "vuoto" dei giapponesi, Sumyie, il "pieno" dell'Occidente, l’asimmetria dell'Oriente, la simmetria dell'Occidente; è un campo enorme. Come mai il senso del vuoto e dell’asimmetrico è così vivo nella cultura orientale?
B: Lei ha una risposta?
D: Non ancora. Dobbiamo arrivare ai nostri giorni, agli ultimi cinquant’anni, per vedere l'Occidente che si libera dalla simmetria, e accetta molte opere dell’arte nipponica e dell’indirizzo del buddismo Zen.
B: L'arte contemporanea viaggia verso questa direzione….
D: Già ad iniziare dall'architettura di oggi che spesso è asimmetrica. Come mai prima era tutto il contrario?
Per quanto riguarda l’arte giapponese si potrebbe ipotizzare la presenza di un diverso sviluppo delle aree corticali. Si dice, ad esempio, che i giapponesi abbiano sviluppato più certe aree corticali rispetto agli occidentali, perché sin da bambini imparano gli ideogrammi, sviluppando così aree silenti che non appartengono al linguaggio verbale ma a quello figurato.
B: Cambiando argomento, cosa pensa dell’ingresso nel mercato dell’arte di opere prodotte da outsiders o, ancora, nel caso più specifico, da malati mentali ?
D: Posso dire che oggi il mercato domina l'arte in maniera assolutamente eccessiva, si impadronisce sia di opere veramente eccelse,sia di opere niente affatto di valore ma che diventano di moda. Ricordiamo il famoso Cattelan,un’artista intelligente, vivace, simpatico, e quindi anche con evidenti qualità artistiche le cui opere non meritano un miliardo, due miliardi… Il mercato, purtroppo, riesce a travisare quello che è il vero valore artistico.Il famoso carabiniere Terlizzi, Ligabue, sono altri casi analoghi…..Tancredi era un artista interessante ma era anche un malato psichico.Quando il mercato si impadronisce di una forma artistica non c’è più scampo!
B: Fa parte del gioco…
D: Non è detto, tuttavia, che opere provenienti da un percorso di arte terapia non meritino di essere esposte. A volte sono opere veramente notevoli.
Tra gli autori ormai noti, considero Wolfli un artista autentico nonostante fosse pazzo...l'errore è quello di far diventare pazzo van Gogh. Van Gogh era un grande artista: la follia, in quel caso, non aggiunge e non toglie niente.
L’errore è sempre quello di vedere elementi patologici laddove sussistono, invece, delle vere e proprie invenzioni creative.
Milano,13 Giugno 2005
 
Giorgio Bedoni, psichiatra, psicoterapeuta, docente nel Biennio di perfezionamento in teoria e pratica della Terapeutica Artistica, Accademia di Belle Arti di Brera, Milano e presso il Centro di Formazione nelle Arti Terapie "La Linea dell’Arco" di Lecco. E’ autore, con Bianca Tosatti, di Arte e psichiatria. Uno sguardo sottile, Mazzotta, 2000 e di Visionari. Arte, sogno, follia in Europa, Selene, 2004.
Lucia Perfetti, arteterapeuta, formatrice

 

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