Mamme con figli nati da donazione di gameti.

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26 settembre, 2018 - 12:14
Abstract
The work includes the experiences of 10 women aged 36 to 47 during the treatment of assisted fertilization with oocyte donation and embryodonation.
 There are testimonies drawn from a work of a group / psychotherapy of women in pairs, heterosexual and single, subjected to PMA with donation of gametes. In this paper we discuss the main issues that emerged in the first phase. All women had low ovarian reserve and most were menopausal. Patients have resorted to the treatment of egg donation or embryodonation in several centres specialized in PMA, both Italian and foreign. The work with the group took place between 2015 and 2017.
 

Abstract
Il lavoro racchiude le esperienze di 10 donne dai 36 ai 47 anni durante il trattamento di fecondazione assistita con donazione di ovociti e embriodonazione.
 Sono racchiuse testimonianze tratte da un lavoro di un gruppo/psicoterapia di donne in coppia, eterosessuali e single, sottoposte a PMA con donazione di gameti.  In questo lavoro trattiamo le tematiche principali emerse nella prima fase. Tutte le donne avevano una scarsa riserva ovarica e la maggior parte era in menopausa. Le pazienti hanno ricorso al trattamento di ovodonazione o embriodonazione in diversi centri specializzati in PMA, italiani ed esteri. Il lavoro con il gruppo si è svolto tra il 2015 e il 2017.
       

 

Dall’esperienza di lavoro terapeutico, sono giunta a capire i passaggi dolorosi, anche considerando la letteratura scientifica internazionale che la donna, deve passare attraverso le tappe per la decisione di compiere PMA con donazione di gameti. Questo è un processo difficile, spesso afflitto da rabbia, da risentimento, da paura, da perdita della certezza. Ci sono alcuni temi principali emersi che descrivono l’iter psicologico di queste donne.
I principali temi emersi sono:
La perdita della fertilità.
Preoccupazione delle conseguenze sui figli
Raccontare la propria storia e lo stigma sociale
Proteggere sé stesse e i bambini
Affiliazione, gruppi di sostegno e confronto sociale
La somiglianza fisica con i figli
Egoismo e altruismo
La psicoterapia come risorsa
 
La perdita della fertilità
Nelle fasi iniziali del lavoro di gruppo abbiamo notato che l'esperienza complessiva delle donne che hanno partecipato a questo gruppo sembra contenere molte emozioni contrastanti come incredulità, devastazione, imbarazzo, sfiducia, vulnerabilità, perdita, accettazione, ansia, speranza, fiducia, disperazione, orgoglio e gioia. Nella fase iniziale, ascoltando la loro diagnosi di infertilità, trovavano difficile raccontare l’esperienza di ovodonazione in quanto riferire significava anche dover informare gli altri della loro sterilità. Lo shock riguardava tutte suggerendo che, indipendentemente dall'età, le donne si considerano fertili. Le stesse hanno espresso difficoltà ad accettare la loro infertilità/sterilità e sembra che questa, invece di essere la via dell’ovodonazione, fosse l'aspetto difficile da accettare e digerire. L’infertilità sembrava scuotere la percezione di sé stesse e la lotta delle pazienti, con l'accettazione della loro infertilità, potrebbe essere argomentata come collegata nel non vivere alle "aspettative sociali della maternità" (Bute, 2009,753). Anche nella società di oggi la maternità e la femminilità sono intrinsecamente legate, l’educazione dei figli è vista come la prova definitiva della femminilità di una donna (Letherby, 1999). La perdita della fertilità può quindi essere avvertita come una minaccia per l'identità femminile. La donna infertile è percepita come "altro” non ideale ma anche come una minaccia per raggiungere la maternità desiderata ed è presente un problema di identità e autoefficacia "(Turner & Coyle, 2000, 2042). Sembrava che per alcune, come Francesca, l’identità femminile sia stata significativamente danneggiata dall’infertilità in quanto ha avuto un impatto negativo diretto sulla loro autostima e ha creato un carattere distintivo negativo. Tutte hanno espresso un senso di perdita per non essere in grado di riprodursi. Per alcune la perdita è stata non condividere un legame genetico con il loro bambino; per altre il problema era non riconoscere parte di sé stesse nei propri figli. Il trattamento di ovodonazione è stato carico di ansia, speranza, fiducia e le donne hanno cercato di gestire le speranze e i possibili fallimenti della procedura.

 Preoccupazione delle conseguenze sui figli
Un’altra area cruciale dell'esperienza femminile erano le conseguenze sui figli, chiedersi se è stata presa la strada giusta e diventando ansiose per le potenziali conseguenze per il bambino. Sebbene molte delle donne si sono concentrate sulle conseguenze per il bambino, si potrebbe sostenere che tali conseguenze come la preoccupazione, riguardo alla reazione del bambino, potrebbe riflettere la propria ambivalenza e ansia. Sembra che molte delle donne fossero più preoccupate per il futuro e per le implicazioni sconosciute che potrebbero insorgere dopo la nascita. Questo portò le pazienti a sentirsi incerte, insicure e in qualche modo ansiose. Nonostante le sensazioni un po’ negative e ambivalenti delle donne, sembrava che tutte fossero felici di aver perseguito la donazione di gameti. Tale procedura le avrebbe aiutato a realizzare i loro sogni di una famiglia e, nel complesso, era considerata positiva poiché era l'unico modo in cui le pazienti pensavano che avrebbero potuto sperimentare la gravidanza, la nascita e la cura di un bambino. La maggior parte delle donne ha riferito di sentirsi inadeguata rispetto l’infertilità, come Donatella che sentiva che la menopausa precoce fosse il suo segreto. Alcune anche in modo implicito, rivelando agli altri, suggerivano potessero essere percepite in una posizione più debole rispetto alle altre che avevano concepito naturalmente.

Raccontare la propria storia e lo stigma sociale
Questa è un’area importante di approfondimento che sembra fondamentale per tutte. È interessante notare che per la maggior parte delle donne non è stata la scelta della donazione di gameti a causare disagio, piuttosto il fatto di essere sterili visto che la menopausa era considerata come un promemoria della loro infertilità. Ricerche approfondite hanno suggerito che raccontare agli altri la scelta della donazione di gameti è una scelta complessa, si evince in questo gruppo che potrebbe essere dovuta al sentimento di sfiducia delle donne. I genitori non raccontano della donazione di ovociti a causa del forte disagio provato (Richards, 2014; Appleby, Blake, & Freeman, 2012). Acquisendo una maggiore comprensione della loro sfiducia questo potrebbe favorire la comprensione dell'esperienza del raccontare. L'esperienza delle pazienti di volersi proteggere sembra adattarsi alla teoria dello stigma di Goffman in cui si afferma che le persone cercano di aderire agli standard sociali, se non riescono a farlo, provano sentimenti ambivalenti. Si potrebbe sostenere che la donazione di ovociti è criticata per il paragone con il modello di concepimento della famiglia idealizzata sebbene ci siano molte definizioni di famiglie. Eppure la famiglia idealizzata è ancora come quella in cui: "i bambini dovrebbero essere concepiti naturalmente, nati e cresciuti dai due giovani eterosessuali, sposati tra loro, genitori genetici" (Cutas and Chan, 2012, citato in Rauscher, Young, Durham e Barbour, 2017, 551; Rauscher & Fine, 2012). La paura della critica sembra adattarsi all’esperienza di questo gruppo, con l'ansia che accompagna l'essere giudicati, suggerendo la consapevolezza di avere qualcosa di diverso dalla norma. Caterina parla della sua ansia in termini di sentire il suo bambino “altro" differente da gli altri bambini concepiti naturalmente. È stato suggerito che le persone stigmatizzate trovino un modo di affrontare la stigmatizzazione attraverso: "coping incentrato sui problemi" (Bos, Pryor, Reeder, & Stutterheim, 2013, 3) come rivelazione selettiva, affiliazione con gli altri, sostegno alla ricerca e attivismo, o: "strategie incentrate sull'emozione" (Bos, Pryor, Reeder & Stutterheim, 2013, 3) e il confronto sociale verso il basso. La maggior parte delle donne attuavano rivelazione selettiva. Anche se le pazienti avrebbero raccontato la verità non volevano che i bambini venissero giudicati, sembrava persino che le donne fossero state condannate a giudicare loro stesse.
 
Proteggere sé stesse e i bambini
Questo supporta la ricerca che suggerisce che l'apprensione dei genitori al racconto della donazione di gameti è più legata al voler proteggere sé stessi e i propri figli, per il bene dei bambini (Readings, Blake, Casey, Jadva e Golombok, 2011; Snowden, Mitchell, & Snowden, 1983) e che il segreto è correlato alla paura dello stigma sociale (Cook, Golombok, Bish, & Murray, 1995; Rumball & Adair, 1999). Precedenti ricerche hanno suggerito che il segreto protegge sia i genitori sia i bambini da potenziali critiche pubbliche (Nachtigall, Pitcher, Tschman, Becker, & Szkupinski Quiroga, 1997; Golombok, 2013; MacCallum & Golombok, 2007).  Il grado di selettività variava da alcune che raccontavano solo alla famiglia d’origine, ad altre che si rivelavano a molti.  L’esperienza del racconto di queste pazienti sostiene l'idea che esistono due strategie primarie raccontare in modo che il bambino avesse sempre saputo o aspettare il momento giusto (Blyth, Kramer e Scheider, 2013; MacDougall, Becker, Scheib, & Nachtigall, 2007). Dai racconti delle pazienti sembrava che coloro che raccontavano dall'inizio erano meno ansiose riguardo se stesse e i loro figli rispetto alle donne che stavano aspettando il momento giusto per rivelare.

Affiliazione, gruppi di sostegno e confronto sociale
Per quanto riguarda l'affiliazione con gli altri e la ricerca di sostegno e attivismo tra pari è emerso in molti dei racconti delle donne che utilizzano le chat per esplorare altre storie similari alle proprie. Supporta la teoria che uno dei modi di gestire la disapprovazione è attraverso la ricerca di altri come te, in cui non sei visto come anormale ma la norma. Perciò l'anormale è determinato da ciò che è generalmente accettato come normale. Nella società più ampia, forse all'interno di gruppi di amici, la donazione di ovociti potrebbe essere vista come al di fuori della norma, mentre all'interno di gruppi di amici che sono anche impegnati con le reti di sostegno la donazione di gameti è vista come la norma e quindi non disapprovata. Il processo di normalizzazione attraverso il circondarsi di altri genitori che hanno effettuato il trattamento mette in evidenza i benefici della donazione di ovociti che è considerato un modo per gestire lo stigma (Friese, Becker e Nachtigall, 2008). Per quanto riguarda il confronto sociale verso il basso, Festinger (1954), ha proposto la teoria del confronto sociale in cui è suggerito che le persone valutano sé stesse attraverso il confronto con gli altri, sia verso l'alto che verso il basso. Il confronto sociale verso il basso è un modo per sentirsi meglio confrontando sé stessi con altri meno fortunati (Wills, 1981). Questo sembra essere il caso di Donatella, la quale afferma di vivere un’esperienza di inadeguatezza e si sentiva capace di rivelare il segreto al suo vicino che aveva un figlio disabile poiché se la passava peggio di lei. Si potrebbe obiettare che Donatella cerca di liberarsi dalla disapprovazione pubblica rivelando il ricorso alla donazione di gameti ad un amico che considera più sfortunato. Sachs e Hammer Burns (2006) suggeriscono che la donazione di ovociti potrebbe rimuovere lo stigma che potrebbero soffrire a causa dell'infertilità, con il loro raggiungimento della gravidanza, ma che la via alternativa della donazione di ovociti potrebbe causare la condanna che proibisce/ridefinisce la parentela, i geni e la maternità. Sembra anche che l'esperienza delle donne significasse che non solo dovevano proteggersi dal giudizio altrui ma dovevano anche proteggersi dai propri sentimenti negativi o dall'ambivalenza. Questo è di nuovo suggerito da molti dei resoconti delle pazienti. Sembrava che alcune usassero la razionalizzazione come un modo per proteggersi dai loro sentimenti potenzialmente ambivalenti riguardo alla fecondazione eterologa.

La somiglianza fisica con i figli
Un altro aspetto principale emerso nel gruppo era la somiglianza fisica con i figli. La loro esperienza consisteva in: un senso di perdita, una sensazione di scomparsa, la mancanza di somiglianza come costante richiamo alla loro inferiorità e tuttavia una percezione del bambino come "il loro bambino”. Nelle fantasie e nei timori sulle somiglianze emerge un bisogno di continuità che non può essere negato: il bambino è la riedizione di sé, è la prova del permanere della famiglia nelle generazioni, la realizzazione della continuità del Sé nel tempo. E' importante allora riconoscere conflitti, angosce e fantasmi senza negarli o sminuirli per elaborarli e superarli, riflettendo anche sul fatto che la somiglianza tra genitori e figli non è soltanto fisica, ma è fatta anche di espressioni, modi di parlare e di muoversi e più in generale di tutta una serie di atteggiamenti corporei che si apprendono per imitazioni: “I sentimenti di perdita erano incentrati su tre aspetti: non ottenere la possibilità di riconoscere parti di se stessi nei propri figli, non avere un legame genetico con i propri figli e non sperimentare mai come sarebbe avere un figlio genetico”. Sembrava che le pazienti provassero un profondo senso di perdita e, in alcuni casi, la mancanza di una parte della genitorialità. Sebbene alcune menzionassero che volevano trasmettere i loro geni, per la maggior parte l'attenzione era più sulla capacità di riconoscersi nei loro figli. Nel tentativo di evitare la critica pubblica, mantenere l'approvazione sociale e il desiderio di proteggersi dall'intrusione altrui, si desidera la somiglianza fisica in quanto fornisce un'assunzione automatica di appartenenza, mentre la mancanza di somiglianza o caratteristiche contraddittorie potrebbero indurre gli altri a interrogarsi sulla parentela. Questo supporta la tesi di Braverman e Frith (2014) che la somiglianza fisica è importante in termini di capacità di "passare" al bambino come se fosse la propria e che la mancanza di somiglianza è vissuta come una minaccia al proprio stato psico-sociale (Harrigan, Priore, Wagner & Palka, 2017). Harrigan, et al., (2017) hanno spiegato la minaccia percepita della somiglianza ai destinatari attraverso la teoria di Face (vedi Brown, & Levinson, 1987; Cupach, & Metts, 1994; Goffman, 1967; Harrigan et al, 2017) che suggerisce che le persone si sforzano di mantenere un promemoria dell'infertilità. La somiglianza fisica è stata evidenziata come potenzialmente, esternamente, il segno più importante della mancanza di connessione genetica e in definitiva un modo indiretto di indicare che i genitori avevano percorso la via della donazione o avevano dovuto percorrere strade alternative per raggiungere la gravidanza, evidenziando così l'infertilità delle donne. Naturalmente, anche con un bambino genetico, questo potrebbe non avere una somiglianza con la madre. Tuttavia, sembra esserci una maggiore attenzione alla somiglianza nei casi di donazione di gameti poiché le madri sanno che c'è una ragione dietro la mancanza di somiglianza e, se c'è una certa somiglianza, deve essere pura casualità. Le pazienti dovevano processare la mancanza di connessione genetica con i bambini e per alcune questo è stato reso più difficile in quanto la mancanza di somiglianza sembrava essere un legame non genetico, suggerendo che la somiglianza è un promemoria di ciò che non potevano produrre, un promemoria di non aver raggiunto la "perfetta famiglia biogenetica" e un promemoria della loro infertilità. Il non raggiungimento di creare una "famiglia perfetta". Tutto ciò è illustrato da alcune delle lunghe battaglie con il tentativo di concepire, prima naturalmente e poi con la PMA. Nonostante la preferenza che il bambino assomigli a qualcuno della famiglia, l'attaccamento emotivo al figlio non è stato influenzato. Tutte le pazienti hanno visto il figlio concepito come proprio e loro stesse come madri. Ciò suggerisce che indipendentemente da una connessione genetica o somiglianza fisica, un bambino può essere percepito emotivamente come il proprio. Sembra che nella descrizione delle donne della loro esperienza ci fosse una netta distinzione tra un senso di appartenenza fisico "in cerca" e un "sentimento" emotivo. Sebbene solo alcune   sentissero che il loro bambino sembrava appartenere a loro o alla coppia, tutte le donne sentivano che il bambino erano figlio loro. Inoltre tutte hanno dichiarato che l'amore per i loro figli non era influenzato dal fatto che non condividevano un legame genetico. Ciò suggerisce che la capacità delle pazienti di legarsi al bambino non era influenzata dal legame genetico, sostenendo altre ricerche che hanno suggerito che il rapporto genitore / figlio nelle famiglie che si sono  sottoposte a PMA con donazione di gameti è buono come nelle famiglie tradizionali (Golombok, Murray, Jadva, MacCallum & Lycett, 2004) e sorregge il punto di vista della teoria dell'attaccamento di Bowlby che non è necessariamente la connessione genetica ma interazioni positive  che causano l'attaccamento emotivo (Bowlby, 1964; Leon, 2002) 

Egoismo e altruismo
Un altro aspetto interessante, un’area di ricerca ancora inesplorata che questo gruppo ha evidenziato, era l'egoismo. Alcune hanno descritto la percezione della donazione di ovociti come atto egoistico a causa dell'enorme desiderio di concepire un bambino sebbene esistono bambini abbandonati che ne hanno bisogno. L'esperienza della donazione come atto egoistico sembra provenire dall'esistenza da parte delle donne di un un percorso che ritengono più desiderabile poiché soddisfa il desiderio di vivere la gravidanza e la nascita, invece di essere focalizzato esclusivamente sul benessere del bambino e sul voler dare a un bambino una seconda possibilità nella vita. Sembra che la loro esperienza sia basata sulla percezione che l'adozione sia una forma di esperienza altruistica mentre la donazione di ovociti è per il proprio vantaggio egoistico. Tuttavia la letteratura sull'adozione suggerisce che le persone non adottano per "salvare" un bambino ma per soddisfare il proprio desiderio di creare una famiglia. In questo gruppo sembra che alcune abbiano visto l'adozione come una via più altruista. In anni recenti diventando più socialmente accettabile l’adozione anche omo genitoriale, la donazione di gameti potrebbe essere percepita come meno socialmente accettabile. L'esperienza delle pazienti beneficiarie di sé stesse come egoiste le ha portate a sentirsi pressate per crescere "buoni figli". C'era la sensazione che da quando avevano fatto una scelta "egoista" avevano dovuto rimediare a questo. Ciò suggerisce che sono necessarie ulteriori ricerche, non solo per estendere la comprensione dei sentimenti potenzialmente egoistici, ma anche per comprendere come tali sentimenti egoistici possano o meno influenzare la relazione genitore / figlio o l'esperienza del bambino. Se le pazienti ritengono che le loro azioni siano egoistiche e che i loro figli debbano compensare questo essendo brave persone forse questo potrebbe influenzare il benessere del bambino a causa della pressione su di loro per essere buoni. L'idea dell'egoismo nella PMA è stato brevemente discusso da Smajdor (2008). Per quanto riguarda la società che giudica la genitorialità tardiva, dove le persone scelgono di "posticipare" i tentativi di concepire fino a più tardi nella vita, sono considerate egoisti. La parola "posticipare" in sé dà l'idea di una scelta deliberata tuttavia, nel caso delle pazienti che partecipano a questo gruppo, non era una scelta consapevole aspettare fino ai 40 anni prima di tentare; hanno cercato per anni di concepire naturalmente o con la PMA senza donazione di gameti o hanno dovuto essere nelle giuste circostanze per avere figli. I risultati di Smajdor (2008) suggeriscono che c'è un senso di egoismo percepito in quanto non più giovani.

La psicoterapia come risorsa
Le pazienti ritenevano che fosse importante la terapia come un modo per affrontare le proprie emozioni e le implicazioni della donazione di ovociti e non potevano farcela da sole. È quindi importante per gli psicoterapeuti creare un ambiente in cui i partecipanti al gruppo possano esplorare apertamente i loro sentimenti. Kirkman (2003) suggerisce che i bambini modellano la loro narrativa sulla concezione sulla narrativa delle loro madri: è stato importante aiutare le donne a formare una sana narrativa della loro infertilità e della PMA con donazione di gameti. L’obiettivo generale nella fase successiva della psicoterapia di gruppo era di cercare uno spazio terapeutico dove è  stato molto importante avviare un processo di maturazione e rielaborazione dei propri vissuti, dove depositare ciò che, inevitabilmente, si agita dentro (dubbi, incertezze, sensi di colpa, timori, vergogna, aspettative, fantasie, speranze, ecc.) per poterlo decifrare insieme, chiarire quali sono le forze in conflitto, le ambivalenze, le verità che appaiono inaccettabili per prendere coscienza dei veri significati e delle emozioni positive e negative correlate all’assunzione del ruolo genitoriale con ricorso alla donazione. È stato possibile confrontarsi con un ascolto e uno svelamento di sé per trasformarsi in soggetti attivi e partecipi e chiarirsi la complessità contraddittoria che marca il desiderio di figlio di chi ricorre a queste strade ardue e che spesso può apparire non compatibile con quell’immagine ideale di genitori (e di figli) che ognuno porta dentro di sé. Il lavoro di chiarimento effettuato ha aiutato a affrontare con maggiore consapevolezza i nodi che anche in futuro questa scelta comporta, perché la Pma con donazione di gameti rappresenta come una sonda verso lo sconosciuto o l’esistente non ancora conosciuto.  Percorsi di questo tipo sono comunque sempre sottesi da un mondo di forti fantasie e attivano emozioni che riguardano aspetti molto profondi proprio per la centralità che l’atto procreativo riveste in ogni percorso individuale.
 
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