IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
Gradi di esistenza
Tre è un numero intero. È anche concreto; si tocca con mano; posso cogliere tre mele o collezionare tre matite. Poiché tre mele esistono non solo qui e non solo ora, fanno sì che il numero tre esista là dove serve; le tre matite lo confermano; tecnicamente, tre mele o tre matite sono due modelli del numero tre. Ovviamente non sono i soli; per esempio, l’Edipo è il modello psicanalitico del numero tre. In questo post affronto il problema di una certa rilevanza psicanalitica (di impronta deleuziana) se l’Edipo abbia lo stesso grado di esistenza dei suoi particolari attori: padre, madre e figlio.
Il merito di Frege e di Russell fu di aver afferrato la natura estensionale e non empirica del numero intero – Kant l’avrebbe detta “sintetica a priori”. [1] Per i due fondatori del logicismo matematico il numero tre è l’insieme di tutte le triplette. Siamo a casa: i nomi dei numeri – i numerali – sono nomi collettivi, come gregge, esercito, chiesa. Parlarne in questa rubrica ha senso.
La definizione logicista del numero tre si fonda sulla corrispondenza biunivoca tra due insiemi; essa stabilisce che a ogni elemento del primo insieme corrisponda un solo elemento del secondo e ogni elemento del secondo sia il corrispondente di un solo elemento del primo. Così ogni tripletta è in corrispondenza biunivoca con la tripletta standard, per esempio {0,1,2}, e quindi con tutte le triplette. La biunivocità è una relazione tra insiemi riflessiva, simmetrica e transitiva, quindi è una relazione di equivalenza; come tale ripartisce tutti gli insiemi finiti in classi di equivalenza: l’uno è la classe dei singoletti, il due delle coppie, il tre delle triplette, ecc.
Tali classi sono generiche, cioè prescindono dalla natura e dall’ordinamento degli elementi degli insiemi; esistono forse un po’ meno di una matita, di due matite, di tre matite, che sono oggetti individuali; tuttavia esistono “abbastanza”. Infatti per ognuna di esse si può esibire un esemplare che la rappresenti. Insomma, esistono perché possono essere rappresentate da un rappresentante che rappresenta il numero comune a tutte le n-ple. Il rappresentante esiste come chi è stato eletto in parlamento per rappresentare un collettivo. Ricordo che per il logico-matematico Kurt Gödel l’esistenza della realtà esterna – il mondo delle mele e delle matite – pone un problema filosofico equivalente a quello dell’esistenza degli enti matematici; [2] gli insiemi di mele e matite esistono come le mele e le matite, anche se non sono né mele né matite. Gli insiemi esistono come astrazioni (dove?). Le astrazioni esistono in modo diverso dalle cose concrete, che sono loro “istanziazioni” (mi si passi il brutto termine gergale).
La concezione logicista del numero intero ha il pregio di essere astratta e qualitativa. Prescinde dalla concreta operazione psicologica del contare o del misurare. In base alla corrispondenza biunivoca si può sapere che tre cavoli possono essere mangiati da tre capre, anche senza sapere contare fino a tre. Basta assegnare a ogni capra un cavolo e a ogni cavolo una capra e si salvano capra e cavoli. Diciamo che Frege e Russell ebbero una concezione semantica del numero intero, indipendente dall’operazione sintattica del contare; ignorarono l’operatore “più uno” (o “successore”) che aggiunge un’unità al numero generato in precedenza a partire dallo zero, che non è successore di alcun altro numero intero.[3]La semantica prescinde dalla sintassi e ha portata più ampia.
La distinzione tra sintassi e semantica ricalca la cartesiana tra res cogitanse res extensa e si sovrappone in parte alla freudiana tra realtà psichica (Realität) ed effettuale (Wirklichkeit) o alla lacaniana tra significante e significato o tra simbolico e immaginario. Il tre sintattico esiste nella res cogitans come prodotto della singola operazione di conteggio. Il tre semantico esiste nella res extensa, indipendentemente dal pensiero, a prescindere da “tutti” i possibili conteggi.
Si individuano così due livelli di esistenza: sintattica e semantica, singolare e universale, la prima più concreta, la seconda più astratta, localizzati in due luoghi soggettivi diversi: il pensiero individuale e l’estensione collettiva. Un’inutile e sterile polemica tra i sostenitori delle due concezioni di numero intero divampò tra Frege e Husserl, oggi dimenticata. [4] La questione fu sistemata dal teorema di incompletezza di Gödel: la sintassi, se è coerente, non ricopre tutta la semantica; la res cogitans è meno estesa dell’extensa, che ha il nome giusto. La coperta sintattica è corta.
L’universale non è tutto. Si può andare avanti alla Cantor. Cosa lo spinse ad andare avanti?
Lo dico volutamente in modo approssimativo, per facilitare l’accesso a un concetto che potrebbe non essere familiare: la scienza antica era esatta, la moderna è approssimata (non approssimativa). Gli antichi dicevano “razionali” (logoi) o esatti i rapporti tra due grandezze esprimibili con coppie di numeri interi. Per loro i rapporti come tra lato e diagonale del quadrato o tra diametro e circonferenza del cerchio non erano esatti, non essendo razionali. Euclide sapeva bene che non tutti i rapporti tra grandezze sono esatti. Aveva escogitato l’algoritmo delle divisioni successive per stanare i rapporti razionali. Tutto il mastodontico libro X dei suoi Elementi è dedicato a individuare i rapporti “irrazionali” tra grandezze (ben tredici forme). Ma Euclide non approssimò il valore di radice di due o di pi greco, avendo l’esattezza come ideale scientifico, niente di meno. L’unico che provò ad approssimare pi greco, verificando che sta tra
fu Archimede, genio anomalo dell’antichità, più vicino a noi moderni che ai contemporanei.
Perché gli antichi si fissarono all’esattezza del rapporto razionale e si astennero dall’approssimare i rapporti irrazionali? Strano a dirsi, la ragione c’è ed è che l’approssimazione richiede qualcosa che non si può approssimare: l’infinito. [5] Ma l’infinito era censurato dal pensiero classico, perché non intero e incompleto; mancando sempre di qualcosa, per Aristotele era impensabile dal concetto; l’infinito restava potenziale, mai attuale; in breve, non esisteva.
Ecco il punto sfuggito agli antichi, che non sapevano pensare in termini topologici, cioè di prossimità: aumentando a piacere il numero dei poligoni inscritti e circoscritti al cerchio, posso avvicinarmi quanto voglio al valore reale di pi greco, come Achille alla tartaruga nel noto pseudo-paradosso di Zenone. Certo, con un numero finito di cifre non determino esattamente il suo valore. Ce ne vorrebbero infinite, ma sarebbe impossibile scriverle tutte. In topologia si dice che pi greco aderisce alla successione infinita delle sue approssimazioni, nel senso che ogni intorno di pi greco, per quanto piccolo, contiene un valore che approssima il limite. Analogamente Cantor lavorava all’approssimazione di certe funzioni in serie infinite di Fourier. Quel lavoro topologico gli aprì la mente alla teoria degli insiemi infiniti e dei numeri transfiniti.
Per chi non sappia staccarsi dallo schematismo classico, ultimamente idealistico anche in Aristotele, il problema è cogliere l’esistenza, che per gli antichi dipendeva sempre dall’essenza, cioè dall’idea: niente essenza, niente esistenza. Gli antichi erano imbarazzati dal grado di esistenza e non avevano tutti i torti: il numero tre esiste “molto”: le tre mele o le tre matite si possono toccare con mano; ma tutti i numeri interi esistono “poco”: non si possono tenere in mano, essendo infiniti. Non sono vorhanden, direbbe Heidegger; non sono “presenti” o “alla mano”. Eppure l’infinito richiede “mano d’opera”.
Il moderno soggetto della scienza, invece, ammette che l’insieme dei numeri interi esista “realmente”, forse con un grado di esistenza inferiore alle tre mele. L’infinito numerabile dei numeri interi esiste perché consente di approssimare grandezze reali come radice di due o pi greco, che a loro volta esistono “quasi” come le mele e le matite: un quadrato o un cerchio si possono disegnare; anche mal fatti, quei disegni sono modelli realistici di radice di due o pi greco.
Dove stanno di casa tutti i numeri interi? Certamente non nella realtà oggettiva, perché in tutto l’universo non esistono infinito-ple. Secondo Kronecker, Dio creò i numeri interi, ma dove li situò? Kronecker non se lo chiese. Secondo me, li distribuì tra le due res: quelli in versione sintattica nella cogitans, quelli in versione semantica nell’extensa. Da allora i numeri costituiscono il nocciolo del pensiero dell’uomo, la fonte di tutte le cogitazioni individuali e collettive, intellettuali o affettive, basate su simmetrie, per esempio le biunivocità. Perciò è opportuno che lo psicanalista si familiarizzi con la teoria dei numeri, consigliava Lacan nel seminario …ou pire.
E l’uomo, nel caso Cantor, trovò l’algoritmo per creare innumerevoli infiniti non numerabili ancora più grandi dell’infinito dei numeri interi. Cantor passava da un insieme infinito all’insieme dei suoi sottoinsiemi e dimostrava che il secondo aveva più elementi del primo, cioè, se così si può dire, era più infinito del primo. Esistono questi infiniti non numerabili? Sì, finché si crede che gli algoritmi non facciano errori. Ma Kronecker, suo maestro, non ci credeva e fece impazzire il povero Cantor. E dove abiterebbero? Pensati nella res cogitans, sono proiettati nell’extensa. Noto en passant che il procedimento di Cantor è sintattico; va sotto il nome di esponenziazione a base 2; si calcola una potenza di 2 con esponente l’insieme di cui si vogliono determinare i sottoinsiemi. [6]
La difficoltà a riconoscere l’esistenza degli iperinfiniti sta nel loro grado decrescente di esistenza; gli infiniti generati in modo esponenziale esistono sempre meno man mano che crescono in estensione. Al di là dell’infinito numerabile dei numeri interi (e degli infiniti equivalenti come l’infinito dei numeri razionali), la matematica moderna si limita in pratica all’infinito continuo della retta reale e all’infinito delle applicazioni del continuo sul continuo. Il resto è difficilmente concettualizzabile. I gradi di esistenza degli infiniti superiori ad aleph con due sono sfuggenti anche per il non intuizionista. Per esempio, l’insieme continuo della retta reale è isomorfo all’insieme delle parti di un insieme numerabile di numeri interi (ogni numero reale può essere scritto con un numero infinito di cifre); il numero delle possibili topologie è ancora più grande: è isomorfo all’insieme delle parti dell’insieme delle parti di un insieme numerabile o continuo. Difficile spingersi oltre.
Perché ho intavolato un discorso tanto astratto e astruso per lo psicanalista?
Arrivato a questo punto esito a dirlo, perché so di risvegliare idiosincrasie esistenziali nell’uomo di lettere che si dedica alle scienze umane. Nel presupposto intollerabile alla stragrande maggioranza degli psicanalisti che la psicanalisi possa diventare una scienza “nuova” (non una neuroscienza, non una psicosociologia, non una psicolinguistica, non una qualunque altra scienza), ritengo che l’oggetto della psicanalisi sia l’infinito. Sì, ho detto bene: l’oggetto della psicanalisi è l’infinito come in matematica. A pensarci a mente fredda, la mia non è del tutto una sciocchezza o un delirio: la psicanalisi tenta di approssimarsi infinitamente all’oggetto del desiderio, come la matematica a pi greco, anche se non applica un algoritmo vero e proprio. Le resistenze che questo discorso incontra sono dovute alla classica fobia dell’infinito.
Sia chiaro, il mio intento non è matematizzare la psicanalisi ma porre le basi per renderla rigorosa a partire dall’assioma freudiano che l’inconscio è un sapere che non si sa di sapere (un-bewusst, “non saputo” prima che “inconscio”, cioè assente di coscienza). È proprio questo l’assioma che avvicina la psicanalisi alla matematica. Anche dell’infinito la matematica ha un sapere incompleto. Si dice che l’infinito è una struttura non categorica. Significa che dell’infinito si possono dare modelli non isomorfi; manca infatti il modello unico e categorico che dica come all’infinito vanno le cose. Se l’infinito è un oggetto, ha una caratteristica in comune con l’oggetto del desiderio: non è del tutto assente ma neppure del tutto presente; manca di un certo grado di esistenza. Brouwer diceva che è “sfuggente”.
Il discorso dell’eterogeneità degli infiniti non dovrebbe suonare estraneo all’analista: l’oggetto scopico, lo sguardo, localizzato nello spazio tridimensionale, non equivale all’oggetto fonico, appartenente allo spazio monodimensionale delle frequenze acustiche. Più simili, anche se topologicamente non equivalenti, sono il seno e le feci, il primo in entrata, le seconde in uscita rispetto al corpo del soggetto. [7] In comune gli oggetti del desiderio hanno di entrare in contatto con il corpo in corrispondenza di frontiere dell’Io-corpo secondo Federn. Se l’oggetto è un altro Io-corpo, dal contatto tra due frontiere scaturisce la scintilla dell’affetto. Ma dal punto di vista concettuale l’oggetto del desiderio sfugge alla presa: è da ritrovare per Freud; è originariamente perduto per Lacan; è transizionale per Winnicott; tanto vale dirlo infinito, tanto o poco esistente.
Come per l’infinito anche per gli oggetti del desiderio si danno diversi gradi di esistenza, che nel caso non sono graduati perché stanno a livelli qualitativamente diversi non quantitativi. L’esistenza dello sguardo nel voyeurismo o nell’esibizionismo, dove il soggetto che vede non si vede, è topologicamente diversa dall’esistenza della voce, che è un oggetto più arcaico dello sguardo, essendo già sperimentata dal feto, che ascolta le parole della madre senza poter rispondere.
Il riferimento topologico soggetto/oggetto è un tema affascinante: la frontiera dell’Io-corpo di Federn o il fantasma dell’oggetto in esclusione interna al soggetto, secondo Lacan, sono alcuni approcci interessanti ma non gli unici. Oggi mi dedico alla topologia degli insiemi magri, che sono unioni numerabili di insiemi rari, la cui chiusura è vuota dentro. Ne ho accennato nel post “Vedere gli alberi, non vedere il bosco” (http://www.psychiatryonline.it/node/7678).
Il punto da non lasciarsi sfuggire è la dimensione collettiva, addirittura pubblica, dell’oggetto del desiderio, colta più facilmente dall’artista che dallo psicanalista: dal pittore nell’affresco, dal musicista nel concerto, dal romanziere nel romanzo. In ciò l’adozione dell’infinito, che non è uno e non ben individuato, è una premessa indispensabile per non ridurre la psicologia collettiva alla psicologia di massa, dove i soggetti si riducono a individui isolati, accomunati secondo Freud dall’identificazione allo stesso e unico oggetto d’amore: il Führer. [8]
Siamo di fronte a una scelta morale: o optiamo per l’Uno, che esiste molto ed esisterà sempre, o per l’infinito, che esiste poco e non è garantito per sempre. Nel primo caso esiste solo l’Io, nel secondo esiste la possibilità del noi, quindi della moralità. Nel primo caso la psicanalisi è impossibile, nel secondo forse possibile.
Svelo da ultimo un piccolo trucco a metà tra il matematico e lo psicanalitico, buono per non cadere nell’idealismo (conformismo) delle essenze (servile al potere). Ti dico: pensa all’esistenza; vedrai che non ti capiterà di pensare all’essenza, come verità dell’essere (Hegel) dell’esserci (Heidegger). Il trucco funziona. In matematica non esistono teoremi sulle essenze; esistono teoremi su esistenza e unicità di certi enti matematici, per esempio, la soluzione di un sistema di equazioni.
Pur essendo andato a scuola dal grande matematico di Berlino, Weierstrass, Husserl non imparò il trucco e finì per filosofare in modo solipsistico sull’essenza dei fenomeni; infatti, nella sua fenomenologia l’unico ente esistente è il suo Io, naturalmente trascendentale, a suo stesso dire. Valga il trucco come escamotageper evitare argomenti onto-teologici (vitalistici) del tipo l’essenza implica l’esistenza. [9] Sappiamo quanto siadifficile liberarsi dalla teologia che associa in modo l’essenza (ciò che è stato) all’esistenza (ciò che è). Neppure Sartre uscì da questo storicismo. Nel primo capitolo di L’essere e il nulla scrive: “Così l’essere fenomenico […] manifesta tanto la sua essenza che la sua esistenza, e non è altro che la serie ben collegata delle sue manifestazioni” [dell’essenza e dell’esistenza]. [10]
Supporre dei gradi esistenza è uno spunto contro-ontologico buono per trattare l’infinito. Il punto di partenza può essere rinforzato assegnando più peso alla sincronia e meno alla diacronia. Bisogna, infatti, stare attenti che le narrazioni edipiche non introducano surrettiziamente in psicanalisi la dimensione idealistica (gradita al potere), riportando ciò che è, l’esistenza, a ciò che è stato, l’essenza. L’analisi freudiana del transfert rischia l’idealismo, dato l’impianto narrativo della metapsicologia freudiana, dove ogni pulsione mira a ripristinare lo stato precedente (presupposto medicale). Freud, più letterato e medico che uomo di scienza, risale dal presente al passato, per spiegare l’effetto presente con una o più cause del passato. Pigiando sull’acceleratore eziologico rischia di incappare nell’idealismo e nell’inefficienza. Infatti il risultato del suo cripto-idealismo fu la ben nota analisi interminabile. L’analisi non idealistica termina invece mettendo il soggetto in grado di fare la scienza di sé stesso da sé stesso, se lo vuole. Senza fare troppe storie.