I Peter Pan della globalizzazione
Dall'adolescenza all'età adulta oggi, nell'epoca del precariato e della globalizzazione
Origini individuali del buon lettore e funzioni sociali della lettura. Alcune note
Reggio Emilia, 9 Marzo 2007)
E’ noto che uno dei fondamenti in base ai quali, secondo Umberto Eco, si definisce l’alleanza fra autore e lettore è la cooperazione interpretativa (Eco).
Per cooperazione interpretativa Eco intende il legame che si definisce fra: A) le capacità dell’autore di costruire un testo in base a degli “artifici espressivi” che consistono nel disseminare il testo di tracce che alludono economicamente ad una trama e che abbiano in sé il potere di attivare un potenziale lettore; e B) la capacità di quest’ultimo di dare significato, di interpretare il testo a partire da un processo di significazione di quelle tracce, che di per sé non sono mai ridondanti, ma piuttosto allusive.
Il che significa che, da una parte ci deve essere un autore che, specie nei testi narrativi ad alta dimensione estetica, deve avere un’alta capacità affabulatoria, dall’altra un lettore che sia attratto dal testo, che sia disposto ad attualizzarlo e a interpretarlo, ma che sia anche capace di cogliere gli elementi “grammaticali” del testo, la sua appartenenza a questo o a quel genere di racconto che le varie forme della narrazione (narrare orale in situazione, libro, TV, etc) della propria cultura di appartenenza hanno sedimentato nel tempo.
In queste note non mi occuperò di ciò che avviene sul versante dell’autore, e neanche – a dir la verità – al lettore già bello e fatto, quanto: 1) a ciò che avviene nella psicologia individuale del costituendo lettore, e cioè del bambino dal momento in cui, piccolissimo, comincia a comprendere e a usare le prime parole, fino al momento in cui, appresa la lettura, si dispone a leggere autonomamente un testo scritto; 2) a cercare di capire come mai ogni società letterata sente il bisogno di produrre dei buoni lettori.
1.
Nei primissimi mesi di vita la comunicazione fra madre e bambino più che attraverso la parola passa attraverso il corpo. Gli psicomotricisti francesi parlano a proposito di ‘dialogo tonico’ in cui ciò che passa nella diade avviene a livello più del soma che della psiche.
Certo è che fin dal momento in cui il bambino conquista la parola-frase ciò presuppone in lui la padronanza a fianco di un lessico che inizialmente può essere fatto solo di gesti, di un vocabolario ben più ampio di parole che sono passate a lui sia dalla madre sia - più in generale - dall’ambiente primario: parole che rappresentano il suo primo vocabolario circoscritto per ora agli oggetti del suo piccolo mondo quotidiano.
Non è un caso che la solidificazione di queste prime conquiste sul piano linguistico avvengano nello stesso periodo in cui il bambino conquista la deambulazione che gli permette di allontanarsi dalla madre e di esplorare l’ambiente. Nascono così in questo periodo due grandi direttrici della crescita del bambino, destinate ben presto ad ampliare e a complicare il suo lessico, il suo vocabolario, e la sua sintassi.
La prima direttrice è appunto l’esplorazione che lo porterà ad una lenta e progressiva conquista del mondo a cui corrisponderà a livello rappresentazionale l’universo delle parole e dei concetti che si sedimenteranno in lui in relazione al suo rapporto con il mondo esterno. La seconda è il gioco che, come ci ha insegnato Winnicott[1], è l’erede dell’area transizionale e rappresenta la capacità del bambino di non essere mai solo e di mantenersi sempre in rapporto e in sintonia con il mondo.
Arriva ben presto un momento in cui all’adulto è possibile raccontare, o più semplicemente leggere al bambino una fiaba. Momento che oggi tende ad essere sostituito o integrato dalla fruizione da parte del bambino di fiabe o di altri spettacoli proposti dalla TV e dai social media). E Bettelheim ci ha dimostrato come il racconto della fiaba abbia una funzione abreatoria, cioè liberatoria, fungendo in questo modo da vera e propria terapia volta ad aiutare il bambino ad affrontare con coraggio e a risolvere i cosiddetti conflitti di fase legati alla crescita, mano a mano che tali conflitti emergono lungo il cammino del processo maturativo.
Ciò che non viene sottolineato abbastanza è che uno dei risultati di questo gioco diadico è la sedimentazione nel bambino di nuove capacità interpretative del testo narrato, nonché una sempre più raffinata capacità selettiva in base alla quale ciascun testo viene riconosciuto come portatore di un contenuto più o meno impressionante, allettante, scherzoso, eccitante, etc.- Vale a dire la sedimentazione dentro al bambino di ciò che poi da adulto lo porterà a riconoscere e distinguere i vari generi narrativi.
E’ inutile sottolineare quanto ciò sia importante per la formazione del futuro lettore.
L’adulto che racconta in situazione aiuta il bambino a riconoscere i generi di appartenenza attraverso una serie di escamotage espressivi i più famosi dei quali sono le formule di apertura e chiusura delle fiabe ( ‘C’era una volta ……’, ‘Dite la vostra, che ho detto la mia …’). La stessa funzione selettiva viene svolta dalla TV allorché ad esempio un cartoon incentrato su un racconto impressionante è ‘accompagnato’ da una musica di sottofondo che sottolinea l’ingresso in questa dimensione, ponendo in questo modo sull’avviso il piccolissimo fruitore dell’approssimarsi dei passaggi particolarmente spaventosi. E’ in questo modo che il bambino ancora piccolo diventa sempre più competente da un punto di vista ‘grammaticale’, e sempre più raffinato dal punto di vista interpretativo, anche se per ora egli è ancora solo un ascoltatore, e non ancora un lettore.
Lo strettissimo rapporto esistente fra ascolto e lettura è confermato – come spesso avviene - dal significato etimologico della parola ‘leggere’, che significa ‘raccogliere’ (Devoto). Infatti come non notare che in queste pratiche di ascolto il bambino ‘raccoglie’ e mette dentro di sé sia i contenuti delle storie, sia quella grammatica (l’inizio, la fine, gli aspetti sovrasegmentali, il prima e il dopo ecc., la continuità, l’attenzione…) e quell’attitudine interpretativa che domani gli serviranno per diventare un buon lettore? cioè per apprendere, per ribadire e ampliare la propria appartenenza?
Il passo successivo sarà, se nel frattempo non saranno intervenuti impedimenti e repressioni, una capacità attiva che ancora non comprende la parola scritta, ma che già allude più da vicino ad essa: la capacità di esprimersi attraverso il disegno! che per ora non contempla la capacità di mettere in sequenza sul piano grafico il dipanarsi di un racconto ma che è importante sia da un punto di vista affettivo che cognitivo:
- affettivamente perché il bambino si rende conto che può rappresentare in maniera icastica attraverso l’uso del segno e del colore il proprio sentire; e che quindi può esprimere attivamente ciò che naviga nel proprio mondo interno;
- da un punto di vista cognitivo perché il passaggio dalla tridimensionalità alla bidimensionalità lo porterà ben presto ad attribuire un significato univoco al segno che poi gli educatori della scuola trasformeranno nel miracolo della scrittura.
Ciò vuol dire che è a questo punto, e solo a questo punto che il bambino è pronto per passare prima all’apprendimento della lettura e della scrittura; e in un secondo tempo - dopo un periodo di allenamento che avverrà sotto le guida e l’esempio che proviene dagli adulti che lo circondano a casa e a scuola - a procedere rapidamente sul piano e dell’analisi e della sintesi, e a cominciare a leggere tutti i testi che l’ambiente vorrà proporgli.
E, grazie alle capacità apprese in precedenza sul piano cognitivo e interpretativo, a ritrovare con sorpresa in ciascuno di essi tutti i contenuti che ha già imparato ad amare attraverso l’ascolto e tutti gli stilemi in base ai quali – sempre attraverso l’ascolto - ha già imparato a catalogarli, acquisendo confidenza con quelle forme che incontrerà mano a mano che cresce, specialmente se gli adulti che lo guidano dimostrano con l’esempio di amare la lettura e la scrittura e di investire affettivamente in esse.
2.
La seconda domanda cui cercherò di dare una risposta è questa: come mai ogni società letterata sente il bisogno di produrre dei buoni lettori; come mai tale bisogno di lettura si perpetua da una generazione all’altra; come mai ci preoccupiamo quando pare che le istituzioni preposte all’insegnamento della lettura sembrano non essere più in grado di produrre buoni e appassionati lettori.
Io penso che la risposta a questo interrogativo sia nella consapevolezza che abbiamo del fatto che attraverso la lettura entri nel bambino di oggi e nell’adulto di domani quell’apparato di conoscenze, di memorie, di sensibilità, di storie, di elementi mitologici e di credenze che rappresenta il fulcro della nostra appartenenza.
Si tratta di un corpus di “testi” di varia natura (non dobbiamo pensare solo ai testi scritti quando ci riferiamo ad esso) che sono in continuazione sottoposti ad un processo di contaminazione linguistica, di contenuti e di forme, la cui preservazione e il cui sviluppo meritano di essere osservati con particolare attenzione qui da noi oggi, poiché viviamo ormai da tempo in una società in rapida trasformazione, in cui da una parte diventa sempre più problematico fare i conti con il nostro passato e la nostra tradizione, dall’altra nuove sfide si impongono sul piano linguistico e culturale ad una società che sta diventando sempre più multietnica.
Sfide che, riprendendo il paradosso di Erikson e spostandolo dall’individuo alla società, potremmo definire come fare in modo ch’essa rimanga “se stessa nel cambiamento”.
Ebbene c’è una linea di espansione dell’appartenenza che – come si diceva prima - secondo Winnicott può essere vista come una traiettoria che parte dallo stato di unità duale del bambino con la madre, passa attraverso l’area transizionale, il gioco e il gioco condiviso, per giungere alla definizione dentro di sé della propria appartenenza culturale (Gaddini E.) -
A mio avviso la sedimentazione dentro al bambino di tutto quell’insieme di trame e di racconti, che all’inizio passa attraverso la sua fruizione passiva di ascoltatore e poi attraverso l’opera più attiva di decifrazione dei testi scritti e non, è uno dei vettori che favorisce l’istituzione dentro di esso dell’area dell’appartenenza culturale.
Perché ciò possa avvenire abbiamo visto che c’è bisogno di un processo di apprendimento di competenze “grammaticali”, di attitudini ermeneutiche, cioè interpretative, che possono essere introiettate solo se l’adulto, allorché si appresta a leggere un testo al bambino che lo ascolta, ami esso stesso il testo. Solo così è possibile far diventare il bambino attivo nell’opera di cooperazione interpretativa del testo e voglioso di perdersi in esso, di giocare con esso attualizzandolo e riconducendolo alle esigenze di crescita e di maturazione del proprio mondo interno.
Ma, siccome quel testo, o meglio: quell’insieme di testi altro non sono che la sedimentazione nelle varie forme di “scrittura” degli elementi di fondo dell’appartenenza socioculturale propria del contesto di vita del bambino, vediamo ora che quest’opera di introiezione che il bambino fa, sotto la guida dell’adulto autore o lettore insieme a lui del testo, è anche un grande elemento di congiunzione e di coniugazione fra il bambino e il suo ambiente sociale e culturale: cioè uno dei cardini intorno ai quali si definisce l’espansione dell’area dell’appartenenza.
Secondo Winnicott la ragione in base alla quale l’individuo sente il bisogno di definire questo vettore culturale della crescita legandolo fin da subito all’appartenenza è nel fatto che altrimenti si sentirebbe solo e cederebbe all’angoscia. La socialità e l’appartenenza culturale appaiono in questo modo come la definizione di un’area intermedia fra il nostro “Sé” e l’esterno che, senza questo collante, ci apparirebbe come intollerabile[2].
Ed è degno di nota considerare in questo ambito l’importanza che sia la parola orale che quella scritta hanno nel fare da ponte fra noi e gli altri: la parola allude alle cose e alle emozioni che sono fuori e dentro di noi; ci permette di “prendere le distanze” da esse, di vederle e di replicarle a livello del nostro mondo rappresentazionale. Ma, poiché la nostra parola è anche la parola dei nostri simili, ecco che la condivisione dello stesso linguaggio diventa un fattore non solo di comunicazione, ma anche di appartenenza. Diventa cioè una delle trame fondamentali dell’appartenenza.
Parola che va contestualizzata, ovviamente: per cui avremo i lessici familiari, i dialetti, le lingue nazionali e i linguaggi universali dei segni, enfatizzati oggi dai media, e in particolare da internet.
Parola che, in base alla globalizzazione e all’interno dei processi migratori in atto, viene sottoposta ad un processo di meticciamento i cui risultati sono già presenti in molte forme espressive artistiche e giovanili.
Stiamo andando verso l’obsolescenza dei linguaggi e delle forme di scrittura che appartengono alla nostra tradizione oppure verso una contaminazione feconda fra vecchie e nuove lingue, fra vecchie e nuove forme espressive?
Dipende da noi! dipende da come osiamo disporci nei confronti delle lingue della nostra appartenenza. Se tenderemo a svilirle e a disporle nei retrobottega della nostra appartenenza sicuramente tenderanno a svanire. Se invece continueremo a tenerle in campo, ad usarle, a metterle in gioco nei territori in cui si definisce il meticciato culturale, probabilmente ne usciranno rafforzate e impreziosite dalla pluralità degli scambi[3].
La lettura dei testi scritti è sicuramente una modalità per rimanere in contatto con la nostra appartenenza culturale e per attualizzarla, come dice Eco. E la scrittura di nuovi testi – aggiungerei - la testimonianza di ciò che sta avvenendo oggi sul piano del meticciato linguistico e culturale.