Aldo Giannini 1927-1981 - Breve ricordo di un maestro della psichiatria fenomenologica.

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14 marzo, 2019 - 10:20
♦ 1. Non posso nascondere che dopo aver letto il sacrosanto testo Maestri senza cattedra di Mario Rossi Monti e Francesca Cangiotti (Antigone, Torino, 2012), ero rimasto un po’ con l’amaro in bocca, perché avevano ragione da vendere. Mi consolavo, però, pensando ad Aldo Giannini, un grande fenomenologo della Scuola di Pisa, andato in Cattedra di Psichiatria a Sassari nel 1974. L’eccezione che conferma la regola, appunto. Oltretutto c’era andato con molta tenacia e tra mille avversità. Basti pensare che se non fosse stato per l’opposizione decisa di suo padre, avrebbe fatto il calciatore professionista in Serie A. Poi, una volta applicatosi seriamente allo studio della medicina, della psichiatria e della psicopatologia fenomenologica, gli era morto d’infarto il Direttore Giuseppe Pintus (1902-1960) e quando ad un “universitario” gli muore, anzitempo, il capo d’Istituto, sono guai seri! Fortunatamente a Pisa il Consiglio di Facoltà incaricò di succedergli Pietro Sarteschi (1920-2014), il collega anziano del gruppo degli strutturati della Clinica, il quale sistemò le cose saggiamente per il meglio.
Giusto denunciare un grave vulnus della psichiatria italiana, come fatto da Rossi Monti e Cangiotti ma è inutile piangere sul latte versato. Oltre tutto i giochi erano fatti da tempo, ossia dalla cosiddetta "Legge Cazzullo", 1976, due anni prima che la “180” fosse promulgata. I più svelti e i più attrezzati giunsero primi. Nessuno può certamente dire che le cose andarono effettivamente come io le racconto, per come le intesi allora. Ma io, che giusto l’anno scorso ho ricevuto la medaglia d’oro dell’ordine dei medici per il sessantesimo della laurea, molte cose che riguardano le “Cliniche delle Malattie Nervose e Mentali” le ho viste e sentite di persona. Per esempio la cultrazione della psichiatria dalla neurologia operata fulmineamente, abilmente e senza strepito da Carlo Lorenzo Cazzullo (1915-19010) da Gallarate, ovviamente a tutti parve allora la soluzione più idonea, perché non solo, dopo la guerra, era stato lo studioso italiano “con competenza in entrambe le discipline” a perfezionarsi negli USA, ma aveva un curriculum lungo un chilometro ed una riconosciuta sapienza politico-strategico-amministrativo inarrivabile, il che non guasta certamente. Si vedano le conferenze di Eugenio Borgna registrate da Bollorino sul canale telematico della Rivista psychiatryonline, Italia, soprattutto quella intitolata il “medico dei matti”, dove spiega bene chi fosse Cazzullo.
 
♦ 2. Tutto a posto allora? Certamente si, ma forse bisognerebbe domandarsi se ci fossero stati competitori. Su questo livello di riflessione verremmo a scoprire che, secondo dicerie del tempo, c’erano due straordinari avversari: un ticket formidabile di personaggi. Uno risoluto e potente, un milanese proveniente da una famiglia socialista, convertito, che aveva fatto la Grande Guerra, un religioso dell’Ordine dei Frati Minori (OFM), quello derivante direttamente dal “Poverello” d'Assisi, Agostino Gemelli, (1878-1959) il fondatore della “Cattolica” [01]. Il secondo era uno psichiatra antropofenomenologico di Castelfranco Veneto, Danilo Cargnello (1911-1998), direttore del manicomio di Sondrio e infine di Brescia (1945-1975). Un sommo, ma non certamente uno studioso dal carattere facile e pianeggiante.
Se mai il “manicomiale filosofo”, appoggiato da «Il Machiavelli di Dio» avesse avuto una qualche possibilità accademica, ove mai le voci che mi ronzavano intorno, peraltro anche suffragate da presunte prove [02], fossero state minimamente credibili, non sarebbe mai potuto capitare l’inversione della vicenda denunciata in Maestri senza Cattedra. Intanto, perchè i fenomenologi italiani erano pochi, parlavano in ambiti riservati, preferibilmente filosofici e i giovani che andavano ad ascoltarli erano rarissimi. Inoltre, da quando i “Gesuiti” del Varesotto avevano sbaragliato i “Francescani degli ordini minori”, era stata più facile la “separazione delle carriere” tra psichiatria e neurologia. Si moltiplicarono, dunque, gli psichiatri “parvenu”, quelli della biologia e della statistica, avendo visto concretamente la possibilità di giungere al “soglio” della cattedra di psichiatria, mentre gli psicopatologi della fenomenologia, rara avis, restarono quelli che erano sempre stati, ovvero quelli che tutti conoscevano, essendo ben noti. In ogni caso, senza fare una piega, con grand aplomb, in un elegante Bar di Firenze, un manipolo di essi, fondò la “Società Italiana per la Psicopatologia”. Gli altri continuarono a praticare l’eremitaggio in manicomi di montagna o fuori mano. Se proprio volevi, dovevi andarli a trovare, ma ci voleva una adeguata presentazione. Come inclinazione del temperamento, senza generalizzare, stavano tra l’anacoretismo e l’ascetismo. In ogni caso, la condizione più lontana dal carrierismo e dalla pubblicità. Gilberto Di Petta – recensendo Maestri senza cattedra: “l’occasion perdu” della psichiatria italiana – coglie questo aspetto “intrinseco” della natura diciamo difficile, “filosofica-fenomenologica” della opzione diversa dalla maggioranza uscita vincente, sottolineando «Il carattere intrinsecamente “ostico” e “vocativo/elitario” dei fenomenologi». Peraltro, aggiunge, «gli Autori non risparmiano critiche al carattere dei fenomenologi, giudicato non proprio incline al consociativismo (tra di loro) e alla conquista del consenso (rispetto all’uditorio). Su questo tema Rossi Monti si è più volte pronunciato, attribuendo le asperità caratteriali dei fenomenologi anche al fatto che, non esistendo un percorso formativo accademico, ognuno di loro si è strutturato,come sottolinea Jan Hendrik van den Berg, in un clima di loneliness and isolation» [03]. Mi permetterei di aggiungere, caro Gilberto a codesta tua puntuale analisi sul carattere “ostico” dei fenomenologi, che anche quello della materia, la fenomenologia, che lo è, e molto. Mi torna in mente una sottile e velata polemica lontana, tra Arnaldo Ballerini, che iniziò per primo, su alcune possibili derive filosofisticheggianti (additate come “fumisterie pseudo-filosofiche”) con Lorenzo Calvi il quale rispose su Comprendre con qualche ritardo, scusandosene.
 
♦ 3. Torniamo alla biografia del maestro con la cattedra, che vogliamo ricordare. Praticamente una vita, nella quale, mi ci sono trovato subito comodamente a mio agio per le molte affinità e tutte le corrispondenze a quella che stavo vivendo io, pensai, con cinque anni di meno.
Aldo Giannini è nato a Rosignano Solvay, Pisa, il  25 febbraio 1927 e come tutti i ragazzi la prima cosa che ha fatto si è messo a giocare a pallone. Era aitante e dotato tecnicamente, dunque fu presto ingaggiato dalla locale squadra di calcio, il  Rosignano Solvay, che faceva la “Serie C”. Poiché segnava molti gol, era attaccante, praticamente un bomber, lo adocchiò il Genoa e ci furono anche trattative per farlo proseguire da professionista in “Serie A”, ma il padre lo escluse in maniera tassativa e non se ne fece nulla. Questi dettagli me li ha raccontati il Collega Giuseppe Maffei [04] un prestigioso psichiatra, “Psicoanalista del profondo” di Lucca, direttore  della Rivista “Psicoanalisi e Metodo”. “Materiali per il Piacere della Psicoanalisi”. Edizioni ETS Pisa [05].
Per tradizione, codesto gruppo di amici della rivista pisana che fa capo a Maffei, si riunisce ogni anno, in autunno, sempre con un tema diverso, al “Centro congressi San Micheletto” di Lucca, in Via Elisa. Gli atti sono pubblicati, successivamente da ETS a Pisa. Ora, con l’ultimo numero, hanno raggiunto il numero XXXV. L’iniziativa, va doppiamente lodata perchè, si propone in maniera esaustiva, nell’avarissimo panorama editoriale cartaceo italiano. Ci andavo spesso con l’inseparabile collega junghiano Antonino Lo Cascio. Una volta, in una di queste occasioni lucchesi, era il 2008 e stavo lavorando sulla relazione che Giannini presentò alla SIP di Milano nel 1968, la chiamai al telefono e ci demmo appuntamento. Molto cortesemente, si presentò la moglie, la prof.ssa Giulia Del Carlo-Giannini, neuropsichiatra infantile. Mi raggiunse al “San Micheletto” e mi portò del materiale curriculare, del marito, con anche una fotografia da mostrare [06].
 
♦ 4. Io per abitudine, quando volevo inquadrare bene una persona che m’interessava conoscere approfonditamente, applicavo la “Regola Siliquini”. Credo si chiamasse così un mio professore di matematica del liceo. Egli una volta mi disse: se devi analizzare un’equazione difficile, ricordati di fargli sempre prima la domanda di Farinata degli Uberti: «Chi fuor li maggior tui?». (Dante, Inferno, Canto X: VI cerchio). Come suggerimento anamnestico di psicologia era un po’ bislacco, però su di me, cui la matematica risultava ostica, risultò utile ed efficace. Applicata ai Colleghi, significava individuarne la scuola di provenienza, i maestri, i maestri dei maestri ecc...
Per inciso, diciamo che fino al secolo scorso, nel vorticoso giro tradizionale delle cattedre, ad iniziare da quelle ritenute più periferiche, per esempio Cagliari, Sassari, Messina, individuate le piazze migliori come i capoluoghi di provincia, indubbiamente, il top restava Roma per vari motivi. Il Presidente della Repubblica il ministero dell’istruzione, la Santa Sede ed altri vantaggi non di poco conto, tra cui non mancavano abbondanza di titoli ed onorificenze. C’era chi s’appassionava a questa sorta di “Giro d’Italia” e chi no. L’ultimo che lo vinse, nel 1971, fu Cornelio Fazio (1910-1997), nato a Garessio, in provincia di Cuneo, un altro piemontese dopo Gozzano. Me lo ricordo benissimo perché ero di guardia quando i Genovesi occuparono la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali romana [07]. Poi questa consuetudine di girar l’Italia cessò.
 
♦ 5. Torniamo alla “Regola Siliquini”. Aldo Giannini, laureatosi in medicina e chirurgia all’università di Pisa, cresciuto alla scuola medica di Gabriele Monasterio (1903-1972) [08] e poi perfezionatosi in clinica delle malattie nervose e mentali con Giuseppe Pintus (1902-1960) [09], infine presentato alla cattedra di psichiatria di Sassari da Pietro Sarteschi (1920-2014). È stato un eccellente clinico della psichiatria degli adulti e degli adolescenti, ma anche un raffinato psicopatologo di solido impianto antropofenomenologico. Marito della collega pedopsichiatria Giulia Del Carlo Giannini, cinque figli. Purtroppo la sua vita è stata molto breve, solo 54 anni. Quattro anni meno del suo primo maestro  Giuseppe Pintus.
Aldo Giannini l’ho incontrato due volte: la prima l’ho ascoltato, la seconda ci ho anche parlato e pranzato.
Nell’ottobre del 1968 ero andato a Milano per assistere al Congresso della Società Italiana di Psichiatria. Avevo molti dubbi su tutto. Neurologia, psichiatria, università, manicomio e intanto mi era aumentata la famiglia: ero già arrivato a quattro. Mi ritenevo un buon internista che sapeva delimitare percussoriamente l’aia cardiaca e la milza sul lato sinistro del torace, palpare il fegato e misurare la pressione, ma ero un neurologo insoddisfatto. Nel periodo della specializzazione, al piano terra della Neuro, entrando a destra, da Gian Carlo Reda, dove il gioco prevalente era se essere freudiani o junghiani, avevo fatto un tentativo da Nicola Perrotti (1897-1970), sulla base dell’entusiasmo generato dalla lettura del male oscuro di Giuseppe Berto (1914-1978) uscito nel 1964. “Vedo che ha un buon curriculum neurologico – fu all’incirca la risposta – perché vuol ricominciare tutto daccapo con l’analisi? Io la sconsiglierei”. Non ho mai capito se fossi scartato perché troppo matto o troppo diffidente. Come quella volta coi ragazzi del Bologna F.C. Il gruppo junghiano di Roma era già orfano del pediatra berlinese Ernst Bernhard (1896-1965) e in gran difficoltà su come procedere. Non mi restava che l’amicizia e la stima di Bruno Callieri che seguivo assiduamente.
Ero sceso all’albergo delle Stelline. Al mattino a colazione mi trovai allo stesso tavolo di Bruno Callieri. Bruno era contagioso, irrefrenabile, quando si trattavano argomenti di psicopatologia fenomenologica e a quel congresso c’erano Cargnello, GE Morselli, Bovi e molti altri. Ma la sua specialità era quella di fiutare, ascoltare e seguire le nuove promesse, di quell’area difficile e poco frequentata, per incoraggiarla. Un talent scout, insomma. Come folgorato sulla via di Damasco, fui travolto dal suo entusiasmo. “Vieni – mi disse asciugandosi in fretta la bocca col tovagliolo – andiamo a sentire Aldo Giannini che svolge una relazioni sulle prepsicosi”. Ah – soggiunse con un cenno di complicità da missionario della conversione – vedi che nel pomeriggio c’è la relazione di Cargnello sulla corporeità non ti dimenticare di andarci!” Da allora sono rimasto contagiato, la clinica psichiatrica era illuminata dalla riflessione psicopatologica binswangeriana ontologicamente fondata. L’agire clinico e la riflessione psicopatologica pura possono e devono coesistere. Il primo è un lavoro, il secondo una scuola di pensiero.
 
♦ 6. La seconda volta fu in Sardegna, a Cagliari. Lì c’ero andato, nel 1972, perché avevo vinto un concorso da primario, insieme a Giuliana Ferri-Terzian. Quella negli ospedali psichiatrici di Cagliari e Dolianova, tra l’altro, è stata per me l’esperienza fondamentale. Infatti, lì ho incontrato per la prima volta gli immigrati rientrati da una sconfitta: la sconfitta di un progetto di cambiamento di vita e di orizzonte culturale. Posso dire che la mia competenza in campo clinico tra psicopatologia fenomenologica e problemi da transculturazione ha preso le mosse dalla Sardegna. La cornice esperienziale è stata quella della popolazione migrante.
Sul finire della primavera del 1972, dicevo, ho rivisto Giannini che, da Sassari, dov’era stato chiamato da poco alla Cattedra di Psichiatria, era venuto alla Clinica Neurologica dell’Università di Cagliari per assistere a una Conferenza di Silvano Arieti (1914-1981) sulla “psicoterapia agli schizofrenici”, entrambi invitati da Raffaello Vizioli. La sera si andò a cena tutti insieme ad un ristorantino fuori Cagliari, chiamato “Sa cardiga e su schironi”, poco dopo il Ponte della Scafa, sulla strada per Sarroch, costeggiando lo Stagno di Cabras conosciuto dagli appassionati di pesce.
Il Giannini conviviale si rivelò straordinario compagno di tavola e facondo maestro di cose pratiche. L’atmosfera era densa di fumo oleoso e di tabacco. Gli odori acri – tipici degli angiporti dove mangiano i camalli – erano un misto di bottarga, di vendrame di muggine, di brace di pesce arrosto, di frittura. Mi ero seduto accanto a lui, di proposito, per conversare. Era la prima volta che avevo occasione di farlo direttamente dopo quella lontana mattina del 1968 che lo avevo sentito parlare dalla cattedra del XXX Congresso. “Dimmi un po’ – fece subito lui – ma tu parli dei malati o ci parli, anche, con loro? Insomma li racconti o li vedi? Fai la visita o ti fermi con loro?” E io a dirgli delle mie esperienze con gli immigrati Sardi rientrati per disturbi mentali e finiti in manicomio. Ci parlavo, eccome ci parlavo, e li ascoltavo anche e mi fermavo pure a lungo con loro.
Non era facile convincerlo, non perché fosse diffidente, ma nei suoi interlocutori, nell’altro (sano o malato che fosse) cercava, sempre e prima di tutto, di spostare l’incontro e l’interlocuzione sul registro dell’autenticità. “Senti, esclamò d’un tratto, ma tu li tocchi i malati?” Capii subito che mi voleva mettere alla prova sul piano dello spazio vitale antropologico, un  suo cavallo di battaglia, e dell’intersoggettività.   
 
♦ 7. A proposito della lectio magistralis di Arieti la mattina in Clinica, riprendeva il discorso citando il “fantasma del corpo grasso” come nodo centrale della situazione anoressica nel quale rilevava un radicale ossessivo, oltre che psicotico. Scriveva, infatti, nella relazione del 1968 a Milano sullo stile di vita del typus schizofrenico confrontato con quello del typus fobico e ossessivo: “«Il fobico rifugge dall’incontro col terrificante attraverso le condotte di evitamento, l’ossessivo si perde nei complicati rituali coatti nel tentativo di eliminare il fantasma dello sporco e dell’impuro».
Non si può qui non citare un passo magistrale, e per intero, della sua relazione sulla spazialità, a quel Congresso milanese della SIP, del 1968. (pp. 270-71), che io stesso ho ricopiato dal Vol. I Relazioni. Sto meditando, tra l’altro, di ricopiarlo tutto, per i lettori della rivista di Bollorino psychiatryonline, Italia, come saggio di addestramento per le nuove generazioni di psicopatologi. Si ricopiarlo a mano! Proprio come facevano coi copioni gli attori del leggendario Teatro D’arte di Mosca sotto la regia di Konstantin Stanislavskij e Nemirovic-Dancenko. Sistema di recitazione, dagli stessi indicato come “Naturalismo psicologico”.
 
«Corrono stretti nessi tra il mondo del fobico e dell’ossessivo e quello del candidato alla schizofrenia. Entrambi, come acutamente sottolinea von Gebsattel, non sono circondati dall’ampio e quieto orizzonte del sano da quel carattere di indifferenza, ovvietà, innocuità e casualità delle cose del mondo e delle presenze umane, cui ci si può abbandonare con fiducia.
Nel fobico l’incontro col repulsivo si specifica tipicamente come «minaccia» a proposito dei prototemi della spazialità (il largo, lo stretto, l’altro, il profondo, il luminoso e scuro) e che ci riporta ad un momento fondamentale del nostro essere-nel-mondo il nostro sussistere nello spazio (Cargnello).
Nell’ossessivo è il contatto che viene esplicitato come contaminante, impuro, contagiante e ciò è correlato all’alto momento del nostro esserci il nostro affacciarci alla mondanità.
Il fobico rifugge dall’incontro col terrificante attraverso le condotte di evitamento, l’ossessivo si perde nei complicati rituali coatti nel tentativo di evitare il fantasma dello sporco e dell’impuro.
A minacciare il typus schizofrenico è il mondo degli uomini, sono gli sguardi altrui che spogliano e violano l’intimità. Il typus schizofrenico si mantiene a distanza dall’altro per non imbattersi nella strapotenza, segretezza e inaccessibilità dell’altrui presenza colta in una univoca fisiognomica invasiva e intrusiva.
Fintanto che l’altro è mantenuto alla dovuta distanza è possibile un certo spazio di libertà personale, un certo spazio in cui garantire il proprio stare nel senso di Zutt ed in cui progettarsi. Ma la rigida «distanziazione » interumana che conferisce sicurezza e stabilità alla sua presenza, impedisce non soltanto l’autentico incontro col Tu ma anche limita e impoverisce le possibilità di articolazione interumana nel mondo della preoccupazione e dei rimandi quotidiani ove si stabiliscono i modi dell’aggressività, ove l’Io si difende e si arma, afferra per non essere afferrato, aggredisce per non essere aggredito.
Il candidato alla schizofrenia è sostanzialmente inesperto e disarmato nel rapporto con l’altro, non possiede la disponibilità del sano di manipolare, maneggiare e strumentalizzare l’altro; si sente sempre sull’orlo di essere preso, soggiogato aggredito dall’altro. Per questo l’incontro tanto temuto, ed a lungo evitato e differito, allorché si determina, si configura nei termini di un incontro alienante deformato e distruttivo».
 
Altro che centravanti del Rosignano Solvay, destinato al Genoa! Questo (anche questo) era Aldo Giannini, Maestro con la cattedra. Aveva ragione suo padre! E anche Bruno Callieri!
Non l’ho più rivisto.
 
Poi, da amici comuni, seppi dell’ictus che lo aveva reso afasico e, in seguito, della morte precoce ad appena 54 anni. Non l’ho mai dimenticato. Quei due incontri mi sono rimasti nel sottosuolo della memoria, giusto nella dimensione dell’amicizia come dice Binswanger. A distanza di trent’anni, mi sono interessato alla sua biografia perché dovevo svolgere un corso di psichiatria all’Università Telematica “Guglielmo Marconi”, ma non sono riuscito a trovare nulla di più di quanto non dicessero i suoi lavori e gli Atti del Congressi SIP di Milano. Nel 2005 mi si è ripresentata l’esigenza in occasione di un Corso di psicopatologia fenomenologica che tenevo per gli specializzandi  in Gruppoanalisi. Finalmente, come ho detto sopra, Giuseppe Maffei, che lo ricorda come un maestro, fin da Pisa, allievo del Direttore Giuseppe Pintus, mi mise in contatto con Giulia Del Carlo, Collega neuropsichiatra infantile e moglie di Aldo. Grande fu la sorpresa di sapere da lei che lui era nella vita, esattamente come avrei desiderato essere io (o forse m’immaginavo che dovesse essere anche lui).
 
Note alla biografia breve di Aldo Giannini.
[01]. Cfr.  Giorgio Cosmacini. Gemelli. Il Machiavelli di Dio. Biografie. Rizzoli, Milano, 1985. 
[02]. Si veda, riportato in “Appendice” un celebre esempio in un saggio di Cargnello sulla mano di un amico-paziente. Non v’è chi non abbia visto nella figure misteriose di Tizio e Caio la proiezione dell’amico frate Agostino Gemelli che, andando dall’amico neurologo Cargnello per controllarsi un nervo del “plesso brachiale” (uno dei sei più difficili del “periferico” del corpo umano), approfitti dell’occasione per chiedergli come vedrebbe una eventuale proposta di… Il frate potente aveva una guida spericolata, e in un paio di circostanze s’era letteralmente rotto l’osso del collo. Quella volta, al giorno di Santo Stefano del 1940, che tornando da Firenze a Bologna uscì fuori strada ad Anzola Predosa e finì al Rizzoli dove vi restò un paio di mesi con le stampelle. E quell’altra nell’estate del 1946 altrettanto rovinosa, ma meno grave. Dunque necessitava di un neurologo personale e Danilo Cargnello sapeva fare anche quello alla bisogna.
[03]. Gilberto Di Petta. Maestri senza cattedra: “l’occasion perdu” della psichiatria italiana. Comprendre 24, 2014 283-287
[04]. «Un grande ti assicuro, Sergio» – mi disse Maffei in uno dei suoi tanti convegni lucchesi ai quali ho partecipato – «era il   centravanti del Rosignano-Solvay”. Uno sportivo conosciuto da tutti, al liceo, molto ambito dalle ragazze e molto invidiato dai coetanei». La notizia mi destò immediatamente una forte emozione. Molti anni prima ero andato a provare nei ragazzi del Bologna F.C. anche come “terzino”. La bocciatura era stata dolorosa. Troppo scarso, veloce sì, ma tecnica zero. Mi sono consolato coi tornei universitari e col “Calcetto” fino ad età avanzata. «Ma anche all’Università era un fenomeno, Sergio» – continuò “Pucci” Maffei – In Clinica Psichiatrica a Pisa. Quando arrivai io faceva già le esercitazioni e le lezioni. Sapeva di tutto ed era disponibile con tutti. Pensa che s‘intendeva anche di neuropsichiatria infantile. Per forza, aveva sposato la Collega Giulia Del Carlo-Giannini, neuropsichiatra infantile. Una coppia importante, in Facoltà. Credo abbiano 5 figli». Feci un sobbalzo. Anch’io ne avevo 5: tre femmine e due maschi. «Ah! Carlo Maggini è stato un suo allievo», concluse Giuseppe Maffei.
[05]. Giuseppe Maffei, psichiatra, psicologo analista, membro dell’ “International Association for Analitical Psychology” e dell’ “Associazione Italiana per lo Studio della Psicologia Analitica. Vive e lavora a Lucca. Direttore della rivista Psicoanalisi e metodo. Tra le altre opere ha pubblicato Il mestiere di uomo (1977); Il linguaggio della psiche (1986); Jung (1989).
[06]. Giulia Del Carlo Giannini. Libera docente di Malattie nervose e mentali e di Neuropsichiatria infantile, ha insegnato Clinica psichiatrica e Psicoterapia dell'età evolutiva nella Scuola di specializzazione di Neuropsichiatria infantile dell’Università degli studi di Pisa. Ha diretto i servizi di Neuropsichiatria infantile degli Spedali Riuniti di S. Chiara a Pisa e dell'USL di Lucca. È stata direttrice responsabile della Rivista Dalla parte dei bambini. Ha pubblicato insieme a Marcella Balconi Il disegno e la psicoanalisi infantile 1978. Della Del Carlo Giannini Giulia si segnala altresì Esperienze, teorie, modelli della neuropsichiatria infantile ETS, Pisa, 1978. Prezioso è il libro di Massimo Angelini e Manuela Trinci (a cura di)  Le voglie. L'immaginazione materna tra magia e scienza. Con saggi di Massimo Angelini, Simona Argentieri, Giulia Del Carlo Giannini, Sergio Finzi, Santa Fizzarotti Selvaggi e Andreas Giannakoulas, Giuseppe Maffei Manuela Trinci. Meltemi, Roma, 2000.
[07]. Era l’anno accademico 1969-1970. La scuola di Fazio era preceduta da una giusta fama di grandi conoscitori della patologia cerebro-vascolare: il nuovo orizzonte della neurologia attiva, dinamica, interventistica. C’erano tutti: Alessandro Agnoli, Mario Manfredi, Luigi Bozzao, il neuroradiologo, Gian Luigi Lenzi, ecc. Ma il vero gioiello era la trombolisi inventata da Cesare Fieschi per sconfiggere lo stroke. C’era con lui, anche un giovane Danilo Toni che oggi col suo gruppo, di cui fa parte anche mio figlio Vittorio Mellina, sturano i grossi vasi cerebrali ostruiti da trombi (la trombolisi), all’UTN e Neurologia d’Urgenza del Policlinico Umberto I di Roma.
[08]. Nato a Reggio Calabria, Gabriele Monasterio fu Professore di Clinica Medica all'Università di Pisa, fu il primo in Italia ad interessarsi dell'uso del rene artificiale e all'utilizzo dei radioisotopi nella diagnostica medica.
[09]. Sardo di Iglesias, Giuseppe Pintus proveniva dall’università di Genova con un giro tortuoso. Era stato allievo di Lionello De Lisi (1885-1957) un maestro toscano di Barga famoso per le “pose ginniche” del morbo di Wilson, all’università di Cagliari, divenendone ben presto l’allievo prediletto e seguendolo alla cattedra di Malattie nervose e mentali dell’università di Genova quando vi fu chiamato.
 
 
Appendice.  Danilo Cargnello. Dal saggio magistrale sulla corporeità. Un morceau .
 
Questo piccolo cammeo storico, è estratto dalla presentazione di Danilo Cargnello al XXX Congresso SIP di Milano 1968 alle relazioni della prima seduta simposiale sul tema “Psicopatologia della corporeità”.
Il testo è pubblicato nel VOL III Simposi. Il primo dei 3 simposi che si tennero il 16 e 17 ottobre 1968, ha avuto per titolo “Psicopatologia della corporeità” (pp. 1289-1433) le cui relazioni furono inaugurate da una lectio magistralis da Danilo Cargnello, che già era passato a dirigere l’ospedale psichiatrico di Brescia, avente per titolo “Il problema della corporeità”. Data la rilevanza del personaggio, non è casuale che le relazioni successive fossero lette alternativamente da colleghi universitari e manicomiali, ma con l’intestazione accademica di un cattedratico. Per la circostanza, il nome più ricorrente era Fabio Visintini da Toscolano del Garda, direttore della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali Dell’università di Parma, incline alla fenomenologia ed alle idee di Basaglia. Vale la pena notare che allora il clima era molto teso. A parte le vivacissime proteste dei contestatori con la celeberrima frase di Cambronne da accoppiare alla Psichiatria, pronunciata stentoreamente dal palco, per dettare il titolo al prossimo XXXI Congresso SIP, ormai era chiaro che le avversità maggiori vertevano tra le università e i manicomi.
Molto importanti erano le presentazioni, le credenziali, la Ditta, il gruppo di appartenenza. Absit iniuria verbis, una specie di “Rotary club”. Significava rispondere a chi ti sponsorizzava. Chi garantiva per te era strategico nel giro delle cattedre. Al vertice, come primo premio, c’era la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università dove, fino al secolo scorso, si diceva dovesse subentrare il primo dei primi tre allievi della scuola. Ossia quello che teneva ambo le chiavi del cor di Federigo. Insomma il “cocco” del direttore, ancor più brevemente, quello destinato alla “successione”. Il secondo si prendeva il primariato di neurologia di una piazza importante, come successe a Giovanni Alemà (1915-2015) col “San Martino” di Genova e poi col “Lancisi” al “San Camillo” di Roma. Al terzo toccava un manicomio, come successe a Basaglia. Vizioli, sempre molto acuto nelle sue osservazioni e battutista ironico, mi disse che il fatto che lo aveva stupito maggiormente nel passare da Aiuto a Direttore era stato il salto immediato dal lei al tu. Il transito, sic et simpliciter, da Professore… a Carissimo… Poi, come già detto sopra, quando fu approvata la cosiddetta "Legge Cazzullo", il 27 aprile 1976, con l’obbligo per i titolari di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali di scegliere per l’una o l’altra cattedra di sentirsi un “barone dimezzato”, parafrasando  Italo Calvino. Molti, comunque, si sentirono derubati di un feudo. Tutto ciò si evinceva dall’intestazione del lavoro pubblicato sugli Atti”
Per tentare di gettare un’occhiata dietro le quinte (pour parlerr Gemelli - Cargnello?), può essere utile riportarne alcuni passi introduttivi del primo dei 4 capitoli di cui si compone il saggio di Danilo Cargnello, intitolato “Una esemplificazione introduttiva”. Intanto l’intestazione.
 
Ospedale psichiatrico provinciale di Brescia
Direttore. Prof. D. Cargnello
Il problema della corporeità. (Atti pag. 1291)
Danilo Cargnello
 
I - UNA ESEMPLIFICAZIONE INTRODUTTIVA
 
Il tema che questo Simposio propone – la corporeità – non è esplicitamente mai ricorso nei Congressi della Società Italiana di Psichiatria. Anche per questo può essere utile – per amor di chiarezza – investirlo preliminarmente con una esemplificazione da ritenere come paradigmatica.
 
Tizio va a trovare in Clinica l’amico neurologo Caio per consultarlo circa alcuni penosi disturbi che avverte alla mano destra (parestesie, algie, impacci, ecc.)
(a). I due amici, al ritrovarsi dopo lungo tempo si stringono calorosamente la mano
(b). Tizio, poco dopo, informa Caio di quanto avverte
(c). Questi lo fa accomodare in ambulatorio e, dopo una visita generale risultata negativa, esamina (d) con particolare diligenza la mano dell’amico. Tizio durante l’esame avverte e segue con apprensione la mano dell’esaminatore che tocca la sua (e). Caio alla fine gli comunica il proprio parere clinico, suggerisce una preliminare cura, ecc. Tizio, al commiato, stringe ancora calorosamente la mano dell’amico (b); e, al ritorno, ripensando a quanto questi gli ha detto cerca di integrare la diagnosi testé ascoltata con la soggettiva esperienza della propria mano destra (f). Caio, più tardi è preso da qualche dubbio diagnostico e va a rivedersi i capitoli che concernono la neurofisiologia e la neuropatologia della mano (g).
 
Domandiamoci ora: quali aspetti fenomenici e quali significazioni antropologiche sono venute ad assumere la mano destra rispettivamente di Tizio e di Caio nelle diverse fasi di questa sequenza? Attraverso quali modi l’uno e l’altro o entrambi sono trapassati, sia nell’esperirsi che nell’esprimersi?
 
(a) Tizio nei giorni precedenti la visita, via via che si accentuano i disturbi vede sempre più coartarsi il suo esistere nel « suo » male. Il che significa che dei tanti modi di essere attraverso cui si dispiega la sua esistenza di sano, ora gli si propone quasi in continuità e comunque prevarica quello dell’essere-per-la-mano-disturbata. Questa gli si rivela e gli si impone, infatti, come ineliminabile e quasi insostituibile termine intenzionale: è-costretto-ad-essere-per-essa, mentre in penombra rientrano tutti quegli altri oggetti (soci e cose) che prima variamente e alternativamente (p. 1292) gli si proponevano come termini del suo mondanizzarsi. Questa parte del corpo, la mano destra – che nel commercio abituale è importantissimo strumento di articolazione con ogni-altro-da-se ma che proprio nel suo ordinario esercizio di espressione o di strumento di presa non è, o almeno, non è centralmente presente nell’ambito coscienziale – ecco che emerge dal suo relativo oscuro e si propone come non eliminabile istanza. Il corpo (nella fattispecie: una parte del corpo) da organo comunicativo od operativo con e su altri uomini ed altre cose, da mezzo di espressione o da organo di manipolazione su tanti e tanti oggetti dell’orizzonte oggettuale di questa o di quella mondanità, diventa ora lui stesso termine mondano dell’esistere, termine del mondanizzarsi. Tizio infatti nel trascendersi nella mano si trascende pur sempre in un mondo (l’uomo come tale è perennemente, e a-priori, in « un » mondo). Solo che, nella fattispecie, si tratta di una trascendenza immanente: egli si trascende, infatti, nel mondo del « suo » corpo, è-per-il-proprio-corpo. Inoltre la mano destra, pur essendo ancora ( e non solo razionalmente) colta come sua ineliminabile appartenenza, gli si colora di estraneità («la mia mano non è più la mia abituale, solita mano»): tende a tramutarsi in qualcosa che non si integra più nella sua globalità di essente [perdita di diritto d’asilo come nelle ernie addominali N.d.R.], che tende anzi a disannettersi dal suo essere, pur non riuscedovi mai. Infatti se la sua mano destra si propone, adesso come «  un qualcosa », egli non riesce mai a intenzionarla come una cosa qualsiasi, come un qualsiasi oggetto di natura, per quanto inconsueta, insolita, strana, disturbante, ecc. gli appaia. Questo qualcosa – questa « sua » e nel contempo « strana » mano – è invero qualcosa che egli « ha » dentro di se assolutamente inalienabile. Esser costretto in questa estraneità significa non essere propriamente se stesso, non poter essere autenticamente se stesso, non avere il permesso di essere se stesso: significa essere per qualcosa altro-da-se, e che pur egli ha-in-se.
 
(b) Tizio e Caio, i due vecchi amici si ritrovano. Le mani destre si stringono nel saluto. Nel gesto, esse però non sono fenomenicamente presenti (o quanto più, come reciproco fattuale atto di stretta lo sono solo nelle frange dell’ambito coscienziale). Ciò che fenomenicamente si rivela nella coscienza dei due amici, è la ritrovata amicizia che l’atto ribadisce e sottolinea («Sono io, Tizio, che saluto te, Caio, e viceversa»; «siamo noi due che ci ritroviamo », le mani che si stringono esprimono appunto l’esser-insieme di due amici, l’essere « propriamente» – insieme, cioè dal fondo (popol. « dal cuor») di me (Tizio) e di te (Caio). Comunque nell’atto del saluto  la mano «malata » di Tizio cessa di costituire termine di una trascendenza: la trascendenza immanente di prima, quella che proprio nella mano trovava il suo termine, ha lasciato il posto a un’altra trascendenza che ha per termine il «Tu» di Caio; tale trascendenza costituisce, anzi ricostituisce un’unità interumana Io-Tu.
 
(c) Dopo il primo incontro di cui testé si è detto, Tizio informa Caio dei suoi disturbi alla mano destra. Ed ecco che i due mondi di cui sopra alternativamente si affacciano e alternativamente scompaiono: l’un mondo (ove Tizio-è-per-il-proprio-corpo) a cui inerisce la qualità di un’oscura minaccia (essere-preso-da-una-malattia-corporale), l’altro ove Tizio-è-insieme-a-Caio) a cui inerisce la qualità della fiducia (nel medico amico). Caio che – poniamo – tiene ancora serrata la mano di Tizio, trapassa anch’egli alternativamente per due mondi: l’uno (duello dell’amicizia) assimilabile nel fondo a quello di Tizio (il nostro modo di essere amici), l’altro invece diverso, in cui si prende qualcosa da qualche parte (nella fattispecie: la mano malata) per qualcos'altro (la diagnosi). Caio via via che viene informato dei disturbi di Tizio, entra infatti già nella prospettiva, nella percorrenza del da farsi. Si anticipa nel mondo dell’operatività, in cui non stringerà più propriamente (p. 1293) la mano dell’amico ma quella di un generico malato, ove non intenzionerà più l’amicizia ma la mano di un qualsiasi paziente.
 
(d) Nell’ambulatorio ove ha fatto accomodare l’amico, Caio imprende a « visitarlo clinicamente ». Deliberatamente ora si distoglie dal modo dell’amicizia; questo va in penombra, si eclissa per lasciare il posto a quello dell’agire scientifico-medico. Invece che nella trasparenza dell’amicizia, adesso Caio si trascende nell’oscurità di una malattia da rilevare, da diagnosticare. Tizio gli propone la malattia «propriamente» sua: quella malattia che Caio, se vuole agire adeguatamente secondo i canoni della sua tecnica di semeiota, deve riguardare invece come quella di un qualsiasi altro che presenti uguali o similari sintomi. La « mia malattia » di Tizio si palesa e si propone come iscritta soprattutto nella categoria dell’essere («sono malato »); nella visione del tecnico, per il quale essa necessariamente deve esser ritenuta la malattia di un qualsiasi, si iscrive nella categoria dell’avere: « ho di fronte a me una malattia» (del corpo di un uomo, si, ma di un uomo in genere, non di Tizio in particolare). [Verrebbe a proposito chiosare questa situazione con la situazione di malattia proposta nel dramma L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello, quella di un uomo malato di epitelioma, un cancro cutaneo, che sente il male incombere, senza poter disporre di alcuna amicizia di medico che possa infondergli fiducia, dargli conforto. Solo le premure della moglie che lo segue spiando la sua salute angosciata e interagendo su questo piano disperato di attesa della morte]
 
(e) La mano destra di Caio che palpa e tocca (d) quella di Tizio, obiettivata a «cosa clinica» diventa strumento. Ma per Tizio l’esaminante mano destra di Caio non tocca una qualsiasi mano, tocca la propria mano « propriamente » la sua. Tocca, sfiora, palpa, ecc. propriamente lui («chi tocca la mia mano tocca me», Buytendijk) e, per quanto Caio cautamente si muova e operi da semeiota il suo agire non può non essere esperito da Tizio che come una aggressiva intrusione da parte di un altrui (in quanto una parte di se – la mano – viene riguardata come mero oggetto, come tale ridotta): da cui la sofferenza sul piano dell’umano nell’essere comunque esaminato come cosa.
Ed ecco che durante la visita la situazione dei due finisce per risultare ambigua, oscillante tra il modo di essere-insieme degli amici e il modo di prendere o di essere preso caratteristico di un qualsiasi rimando umano (Caio prende Tizio per un malato a una mano).
 
(f) Tale situazione ambigua resterà ancora al commiato. Per la strada, al ritorno. Tizio riesperirà la sua mano come estranea e disturbante appartenenza; ripresentificherà quanto gli ha diagnosticato l’amico medico; ma non riuscirà mai a integrare, per quanto si sforzi, in globalità fenomenica il suo « esperito » con quanto ha testé «saputo».
 
(g) Caio alla fine, nel leggere i capitoli di neurofisiologia e di neuropatologia che concernono la parte esaminata, non si articolerà per nulla in una situazione interumana. La mano a cui ora egli si interessa è meramente quella dell’anatomico, del fisiologo, del patologo: un mero oggetto di natura, che – appunto in quanto «di natura» – non concerne più «propriamente» l’uomo, neppure la «natura propria di un certo ben identificato uomo».
 
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