PENSIERI SPARSI
Tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali
di Paolo F. Peloso

FABBRICANTI DI CRONICI? 1. La cronicità come fenomeno multideterminato

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5 maggio, 2019 - 14:42
di Paolo F. Peloso
1. La cronicità come fenomeno multideterminato.

Tre eventi recenti mi hanno spinto a riprendere alcune idee in tema di cronicità. Due sono l’invito a partecipare alla tavola rotonda “Il cronicario della porta accanto. Quotidianità e neo-istituzionalizzazione” nell’ambito del corso ECM “La terapia del quotidiano. Trattamenti complessi nella salute mentale” tenutosi a Roma per iniziativa di Psichiatria Democratica il 6 e 7 dicembre 2018, e quello a partecipare alla seconda edizione dell’evento organizzata dalla cooperativa PantaRei presso l’hotel-ristorante La groletta di Rivoli di Verona, gestito da una cooperativa di tipo B, il 12 aprile. Il terzo è la pubblicazione, da parte della Rivista Sperimentale di Freniatria (RSF), di un numero monografico dedicato alla cronicità (CXLII, n. 3, 2018) con testi di Tibaldi, Carozza, Santambrogio et al., Schiavi, Burti ai quali non potrò non fare qui riferimento, a volte anche in modo solo implicito.
Partirei però da una definizione del concetto di cronicità, che ci è offerta nel 2005 dall’OMS: «Si definiscono condizioni croniche quei problemi di salute che richiedono una presa in carico per lunghi periodi di anni o decenni (…) e investono le dimensioni sociale, psicologica ed economica della vita della persona»[i].
Quanto alla cronicità psichiatrica, Racamier ne offre nel 1980 la suggestiva definizione di «una maniera paradossale di esistere non esistendo, o almeno ripiegando su un’esistenza minima, povera, contratta. Mentre nel 1987 Ballerini scrive: «E’ la zona buia della psichiatria che non è possibile negare o minimizzare, né assolutizzare, ma occorre sforzarsi, caso per caso, di pensare».
Molteplici sono le modalità con le quali la disabilità può presentarsi nelle diverse malattie mentali: persistenza di sintomatologia e/o sofferenza intrapsichica (soggettiva); persistenza di sintomatologia comportamentale disfunzionale e/o disturbante; persistenza di sintomatologia negativa; persistenza di sintomatologia positiva (sono le situazioni “cronicamente acute” che sconvolgono le pianificazioni dei burocrati, ma nelle quali capita frequentemente di imbattersi); perdita di abilità specifiche che è difficile recuperare; tendenza al ritiro, affievolimento dello slancio (penso a Bergson, Minkowski); perdita del bisogno o della voglia di puntare alla guarigione; disabilità “relazionale” che diventa un pattern costante di comportamento, un’abitudine alla quale è difficile sottrarsi, come in certi disturbi della personalità.
E molteplici sono anche gli approcci possibili al problema della cronicità: possiamo considerarla come un problema di malattie croniche; di malati cronici; di situazioni croniche. Situazioni, queste ultime, nelle quali la tendenza a evolvere in cronicità può essere considerata una caratteristica inerente la malattia; la persona; la famiglia; o la società nella sua dimensione nazionale/regionale, locale e del paziente (riprendendo la ripartizione proposta da Thornicroft e Tansella nel 2000); o ancora le modalità e lo stile della presa in carico del singolo operatore, del singolo servizio o del sistema di cura nel suo complesso. O inerente anche l’interazione tra questi diversi fattori.
 

  1. Malattia.
 
L’idea che alcune malattie mentali, come la schizofrenia ad esempio, fossero di per sé destinate a evolvere in cronicità ha caratterizzato per molti anni la storia della psichiatria. Anzi, ad uno sguardo di superficie si può essere portati a pensare che la psichiatria provenga da una lunga notte nella quale il fatto di non saper guarire le malattie portava a considerarle inguaribili. Ma non è così e, come mi sono sforzato di sintetizzare in un saggio del 2013[ii], la psichiatria ha sempre guardato in direzione della guarigione, e spesso è anche riuscita a guarire. Certo, un nome che subito viene alla mente parlando di evoluzione in cronicità è quello di Emil Kraepelin (1856-1921), il quale battezzando demenza precoce l’insieme di malattie che aveva riunito e che avrebbero poi costituito per Eugen Bleuler il gruppo delle schizofrenie, si assunse la responsabilità di considerarne l’elemento patognomonico l’esito ineludibile e irreversibile in demenza.
Se però da questa sua ipotesi di ordine generale passiamo a considerare l’evoluzione delle sue considerazioni cliniche nelle diverse edizioni del Trattato, notiamo che anche nel suo caso non è poi così vero che la schizofrenia fosse neanche per lui in sé inguaribile. E tra i fattori che influenzano la guarigione considera infatti il grado raggiunto dalla malattia (a proposito di trattamenti precoci!), la capacità di resistenza personale del paziente, oltre a fattori casuali. Ecco insomma che anche per lui l’esito era determinato dall’interazione di tre variabili: malattia, soggetto, situazione.
Per la completa guarigione Kraepelin chiede che la personalità psichica sia reintegrata completamente nel dominio del suo tesoro di esperienza; che il corso dei processi psichici non sia più turbato da sentimenti o rappresentazioni morbose; e che vi sia il riconoscimento della natura morbosa della malattia superata, cioè quella che noi chiamiamo coscienza di malattia.
In tutti gli altri casi dobbiamo parlare di guarigione incompleta, il che corrisponde al permanere di una vulnerabilità maggiore alla ricaduta e/o a una  guarigione che chiama “con difetto” nella quale si ha attenuazione dei sintomi, ma sono diminuite le capacità all’attività e alla resistenza psichica. «Vero è» - aggiunge Kraepelin -  «che ciò dipende anche molto spesso dalle circostanze esterne. Se la vita in famiglia è felice, se la situazione economica e la posizione sociale sono favorevoli, allora l’infermo è spesso in grado di sostenere la sua posizione. Solo egli non è più valido per le condizioni difficili e per le lotte gravose della vita». Insomma: ancora famiglia, economia, società, situazione come fondamentali elementi in grado di condizionare l’esito della demenza precoce.
Insomma, possiamo osservare che in fatto di relazione tra schizofrenia e cronicità molti più danni di Kraepelin abbia fatto il kraepelinismo, il quale basandosi su un pregiudizio ha stabilito che mai in nessun caso la schizofrenia potesse guarire, al punto che se guariva, significava che si era sbagliata la diagnosi. O al punto da giungere, pur di difendere il dogma dell’inguaribilità, a posizioni come questa, della quale nel 1983 Ballerini e Rossi Monti, in un testo importante volto a chiarire il significato del termine “difetto”, mettono giustamente in luce l’assurdità: «Siamo tutti fin troppo consapevoli di quanta prudente osservazione occorra per considerare “guarito” un disordine schizofrenico. Sembra tuttavia che questo porti alcuni studiosi a considerarlo “mai guarito”, con un salto metodologico che porta dal piano fenomenico, all’idea che una qualche sorta di processo biopsicofenomenologico continui a evolvere nel silenzio dei sintomi. Una posizione di questo tipo appare altamente arbitraria, visto che non esistono elementi diversi da quelli psicopatologici per la diagnosi di malattia schizofrenica»
Un colpo fondamentale a questo ingiustificato pessimismo prognostico sulla schizofrenia che si voleva far derivare da Kraepelin ma trovò comunque per molti anni ampia diffusione lo diede Luc Ciompi, pubblicando nel 1973 un articolo dal titolo emblematico: La schizofrenia cronica è un artefatto sociale?
Tra gli argomenti a favore della sua ipotesi lo psichiatra svizzero prendeva in considerazione: istituzionalismo e sottostimolazione; aspecificità sintomatologica della schizofrenia cronica; multiformità; mancata influenza sul decorso di fattori ereditari; importanza di variabili sociali; influenza della famiglia; mancanza di prove sulla univocità del concetto di malattia. Tra quelli in senso contrario: la domanda sugli “stati residuali irreversibili”; argomenti biochimici, organici, genetici; la problematica della differenziazione tra schizofrenia cronica e acuta; il carattere ubiquitario della schizofrenia cronica. E arrivava così a concludere che: «Le argomentazioni a favore della tesi dell’artefatto paiono in tutto e per tutto più plausibili, importanti e numerose di quelle contrarie. Vorremmo tuttavia guardarci dal prendere una posizione definitiva (…). Abbiamo solamente voluto dimostrare che questa ipotesi, dopo una serena disamina delle conoscenze odierne non può essere accantonata».
Anche la ricerca epidemiologica contribuiva a mettere ordine, e così Borgna poteva scrivere nel 1995: «Le fondamentali ricerche di Manfred Bleuler hanno dimostrato come l’evoluzione “cronica” della schizofrenia, e conseguentemente la diagnosi di schizofrenia fondata sul decorso, corrispondono a tesi oggi radicalmente insostenibili nella loro generalizzazione».
Con l’elaborazione, da parte della scuola di Boston, del concetto di Recovery, che sposta l’idea di guarigione della malattia da un criterio di ordine assoluto (assenza di sintomi, buon funzionamento) a uno relativo alla persona (possibilità di realizzare i propri obiettivi), compiamo un significativo riposizionamento, alla luce del quale ogni discorso relativo alla dicotomia guarigione/evoluzione cronica deve essere ripensato.
  1. Persona e famiglia
Chiunque abbia esperienza di qualsiasi malattia e del suo trattamento sa quanto problemi in sé molto simili possono essere affrontati in modo molto diverso da una persona all’altra, e quanto ciò possa condizionare decorso ed esito. Le malattie mentali non fanno eccezione, e tra le diverse variabili in gioco, bisognerà considerare sul lato del soggetto: l’effettivo desiderio e la capacità di focalizzare l’obiettivo della guarigione; una disposizione generalmente ottimistica e costruttiva rispetto ai problemi; la capacità di non cadere nella negazione maniforme, l’onnipotenza narcisistica (“non sono malato, si curi lei!”) che possono interferire negativamente con l’adesione ai trattamenti; l’instaurarsi di quelli che Racamier chiama i “giochi della follia”, cioè modalità particolari di relazione che prendono piede tra il soggetto e il suo mondo come modalità rispettive di adattamento disfunzionale alla nuova situazione (e anche perciò il trattamento deve essere precoce, anteriore all’instaurarsi di questi “giochi”); le abitudini, con particolare riferimento all’uso di sostanze. Al protrarsi di una condizione di malattia può corrispondere una graduale perdita di relazioni, opportunità, risorse: “dottore, in questi anni ho perso tutto” capita di sentirci dire, e per chi sente di avere perso “tutto” è difficile poter ritrovare qualcosa.
Abbiamo accennato ai “giochi della follia” come a una ristrutturazione delle relazioni che interessa paziente e familiari, e per questo affronto il livello della persona e della famiglia, che sono ovviamente distinti, come un’unica questione, tanto stretti sono spesso i rimandi tra le emozioni e lo stile relazionale dell’uno e degli altri, e viceversa.
E vorrei entrare nella parte del ragionamento che riguarda la famiglia ricordando un film, Anna dei miracoli (USA, 1962), ispirato alla storia vera della sordo-cieca Helen Keller, dei suoi genitori e della sua insegnante Anne Sullivan, perché in esso mi paiono messe particolarmente in luce le difficoltà della famiglia nell’affrontare la malattia di un figlio e l’incombere sulle emozioni e sulle relazioni del fantasma della cronicità. Un fantasma che espone i familiari che gli vogliono bene e tengono a lui, ma sono anche legati a lui da relazioni spesso complesse, contraddittorie e in buona parte inconsapevoli, alle stesse emozioni del soggetto che è coinvolto in prima persona da quell’esperienza umana misteriosa e perturbante che è la follia; di volta in volta: rigidità e assolutizzazione; pregiudizi di inguaribilità e di pericolosità (timori per lui, per sé o per gli altri); sentimento di impotenza, di mancanza di risorse, di perdita di speranza; sviluppo di una “mitologia dell’altrove” dove il soggetto potrebbe stare meglio; paternalismo, sentimenti di colpa e istanze di riparazione; sentimenti di vergogna e di imbarazzo; graduale ritiro e impoverimento delle relazioni, che tendono a divenire stereotipate o artificiose, eccessivamente condizionate dall’incomprensibilità della trasformazione che è avvenuta (“non è più lui….”; ma chi è?); timore di fare la cosa sbagliata. Di più, il soggetto nel rapporto con se stesso; il soggetto all’interno della famiglia; e il soggetto e la famiglia in rapporto con se stessi e con gli altri fuori si trovano a dover fare i conti con lo stigma, o anche semplicemente con l’imbarazzo e la paura, che evoca la follia.
Comprendiamo così come Saraceno scriva nel 1995: «La malattia non risiede, isolata e colpevolizzante dentro il soggetto ma in quel territorio virtuale che è l’interazione tra i membri della famiglia. Se l’esperienza psicotica non è che un modo di esistere reattivo difensivo, la malattia alberga nella comunicazione, nell’interazione».   
 
  1. Società
 
Per comprendere come anche l’organizzazione sociale – dal livello nazionale/regionale, a quello locale, a quello del  paziente – abbia un ruolo tra i possibili determinanti dell’esito di una malattia mentale mi sembrano fondamentali gli studi raccolti da Richard Warner in un volume del 1985 dal titolo significativo: Schizofrenia e guarigione. Psichiatria ed economia politica. In esso i tassi di guarigione della schizofrenia sono posti in relazione con l’andamento  del mercato del lavoro: a maggiore necessità/possibilità del lavoro del soggetto, corrispondono tassi più elevati di guarigione (emblematici i casi delle fasi economiche espansive nella storia dell’economia occidentale; dell’economia per molti anni in espansione degli Stati Uniti; della piena occupazione nei Paesi socialisti). Non solo; sembrerebbe favorire anche la guarigione della schizofrenia l’organizzazione sociale dei PVS rispetto ai Paesi industrializzati, e per la spiegazione di questo fenomeno vengono ipotizzate la persistenza della famiglia allargata e di una dimensione prevalentemente rurale, che tende a vivere la follia come un evento meno traumatico e può favorire l’integrazione e contrastare l’istituzionalizzazione dei membri fragili; e anche l’organizzazione del lavoro più semplice e inclusiva, su base in gran parte familiare, che consente anche a chi è più fragile di rendersi utile al gruppo ed evita di tagliare fuori dal mercato del lavoro chi, affetto da una patologia che esordisce nell’età giovane-adulta, manca l’aggancio col lavoro che nel mondo industrializzato si realizza, per i più, proprio in quella fase.
Sull’importanza del coinvolgimento nel lavoro per combattere l’evoluzione in cronicità della follia insisteva del resto già Philippe Pinel agli albori della psichiatria manicomiale, nel 1801: «Che spettacolo penoso vedere in tutti gli stabilimenti del nostro paese, gli alienati di tutti i tipi agitarsi senza scopo, in un movimento continuo e vano, oppure miseramente prostrati in uno stato di inerzia e di stupore! (…) Un lavoro costante spezza la morbosa concatenazione delle idee, rinsalda le facoltà intellettive con l'esercizio (…). Il recupero da parte degli alienati convalescenti dei loro gusti primitivi, dell'esercizio della loro professione, del loro zelo e della loro perseveranza, sono stati sempre per me motivo di buon auspicio e di fondata speranza per una guarigione stabile».
E vi ritornava, al tramonto della psichiatria manicomiale, Franco Basaglia nel 1967[iii]: «Il problema del lavoro, delle attività verso cui stimolare i malati apatici, indifferenti, abulici, è fondamentale. Ma mentre nell’ospedale il lavoro ha il solo significato di un riempitivo, nella nuova situazione esso deve assumere un valore terapeutico, come occasione di incontri, rapporti interpersonali spontanei e come stimolo all’attuazione di una spontaneità creativa distrutta (….). E nell’esigere la retribuzione quale logica contropartita di ciò che il lavoro dà alla comunità, il malato riesce a farsi riconoscere nel proprio valore di scambio».
Così, scrivevano Strauss e Carpenter nel 1981: «Chi può dubitare dell’impatto devastante che ha su di un individuo psicologicamente fragile la sensazione di essere considerato persona subumana, incurabile, immotivata o incapace di soddisfare le normali aspettative (…)? Non si possono nutrire dubbi sul fatto che quando i ruoli fondamentali sono sconvolti dallo stigma sociale e le possibilità di lavoro si restringono, questa situazione contribuisce a un decorso tendente al deterioramento».
E’ per questo che non possono non preoccupare, in tema di lavoro e riabilitazione psichiatrica, i tassi elevatissimi di disoccupazione che caratterizzano per lo più gli utenti dei nostri Servizi affetti da disturbi psichiatrici maggiori, o anche atteggiamenti di eccessiva prudenza e titubanza sostenuti da argomentazioni pseudoscientifiche a questo riguardo, come quelli che altrove ho avuto modo di mettere in discussione[iv]. O provvedimenti che, nati a fin di bene e da istanze solidaristiche, possono avere però il perverso effetto di tagliar fuori più o meno definitivamente il soggetto affetto da una malattia mentale dal lavoro, così contribuendo all’evoluzione in cronicità: l’inabilità al lavoro, la pensione di invalidità, o l’assegno di accompagnamento, fino al recentissimo reddito di cittadinanza con esenzione dal lavoro per gli invalidi. Vestiti che certo riparano ma non sono né tagliati su misura né integrati con le esigenze della clinica e della vita, e che rischiano di corrispondere in un modo o nell’altro a un pagare per non lavorare, per rimaner fuori dal lavoro e non essere d’intralcio alla sua organizzazione seriale, un pagare per non guarire in definitiva, dando luogo a quella che Beppe Tibaldi, nel contributo al numero che ho ricordato della RSF definisce con espressione del mondo anglosassone “disability trap”, trappola della disabilità. E non credo certo di essere il solo che, al proporre a un paziente in fase di miglioramento un avvicinamento al lavoro, si è sentito comprensibilmente rispondere: «Dottore, ma lei è matto a propormi la borsa lavoro, ma non lo sa che sono invalido al 100%?», «Dottore, ma lei vuol farmi perdere l’accompagnamento?».
A Rivoli l’intervento degli esponenti di due cooperative romane, Ilario Volpi e Vanni Pecchioli; di Salvatore di Fede e Carmen Pellecchia su un caso giudiziario; e quello di Elena Brigo, responsabile della cooperativa PantaRei che ci ospitava, con la presentazione di questa realtà imprenditoriale decisamente interessante, hanno offerto esempi concreti di come per costruire le opportunità di lavoro che ai nostri progetti di cura sono indispensabili occorra “lavoro vero”, occorra impresa sociale che si costruisce stando in prima persona dentro, con le reti che la legge prevede, al mercato, con l’inventiva, la creatività e lo spirito d’impresa che sono necessari. Così come non si può aiutare qualcuno a nuotare senza stare dentro l’acqua. E come, perciò, i Servizi non bastino a se stessi nella costruzione di quell’oggetto complesso che è la cura, ma abbiano la necessità di stare nel quotidiano e nella vita comune, valorizzando gli utenti e la comunità nel costruire risposte sul piano non solo simbolico, ma anche materiale.  
Bene fa allora, per quanto finora abbiamo richiamato, Saraceno nel 1995 a immaginare la riabilitazione come un intervento “key and lock”, attento ad operare sulla malattia e col soggetto, per aumentarne le potenzialità di interazione sociale, ma anche sulla famiglia e sulla società per renderle più accoglienti. E sul sistema di cura, perché non contribuisca a propria volta all’evoluzione della situazione in senso cronico; ma di questo ci occuperemo nella seconda parte di questo contributo (segui il link per la parte II: Fattori iatrogeni della cronicità).

Nel video allegato il film: Si può fare di Giulio Manfredonia, con Claudio Bisio (2008).

 

[ii] P.F. Peloso, S. Valli e coll., L’idea di guarigione nella storia della psichiatria, in: L. Barbieri, L. Basso, I. Boggian, D. Lamonaca, S. Merlin, P.F. Peloso: Storie di recovery. Percorsi ed esperienze nella riabilitazione psichiatrica, Trento, Erikson Live, 2013, pp. 9-21.
[iii] Sul tema del lavoro rimando, anche per le due illuminanti assemblee goriziane commentate da Slavich e Jervis Comba nella prima pubblicazione del gruppo basagliano, in questa stessa rubrica a: P.F. Peloso (2017):   Che cos’è la psichiatria? 50 anni dopo. Parte II. Lavoro, psicoterapia, istituzione.
[iv] Cfr. in questa rubrica: P.F. Peloso (2017):   1 maggio. 5 tesi impertinenti su lavoro, psichiatria, persona.

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Commenti

Ciao Paolo. Penso che la questione delle supervisioni vada alquanto chiarita. Tu hai paura che si creino eserciti di cronici. Io penso da ciò che vedo che ci sia un ottimo sommovimento di idee e sentimenti. Poi dobbiamo vedere noi "psy" cosa vogliamo fare da grandi, se esclusivamente i custodi della ragione o anche i fomentatori di creatività e innovazione. È un discorso lungo; gli psichismi non sono statici soprattutto nella post- modernità e tutto è "in fieri". Lasciamo che le cose della psiche scorrano e contaminino sociologia, filosofia, epistemologia e quant'altro. Non ci spaventiamo!

Caro Nicola, ho riletto con attenzione il mio scritto, ma di supervisione non mi pare di avere parlato (del resto, credo che se ben fatta sia uno strumento utile ai singoli operatori e ai gruppi di lavoro). La paura che si creino eserciti di cronici, che come hai colto giustamente è il tema centrale, nasce in me dalla constatazione del numero di vite intrappolate in luoghi separati, o escluse comunque dai luoghi della vita, tra coloro che dopo un'esperienza psicotica si affidano alle cure dei nostri servizi. Perciò, credo che dobbiamo riflettere su come evitare che questo accada, aiutando tra le altre cose senz'altro i nostri pazienti a trovare tra ragione e creatività l'equilibrio che è necessario a loro, come del resto a noi stessi, per vivere e vivere piacevolmente. Conto di ritornare prossimamente sul tema, e se mi vorrai fare di nuovo la cortesia di un commento, sono senz'altro interessato.


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