Stereotipi etnici nella cultura popolare e di massa.

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6 maggio, 2019 - 05:37
 
«Non, rien de rien, non, je ne regrette rien
Ni le bien qu'on m'a fait, ni le mal
Tout ça m'est bien égal
Non, rien de rien, non, je ne regrette rien
C'est payé, balayé, oublié, je me fous du passé
...»
Édith Piaf
 
Introduzione.
Con questi versi un po’ “canaille”, citati in esergo, iniziava una celeberrima canzone ancor più “canaille” di Édith Piaf. Un mito canoro, una forza gigantesca in un corpo minuto, la “môme”, il “passerotto”, un arcobaleno nella gola, come dissero di lei varie vulgate di ammiratori sparsi in tutto il mondo, negli anni trenta del secolo scorso. Pseudonimo di Édith Giovanna Gassion, la grande cantante parigina vedeva la luce quando noi Italiani entravamo nella “Grande Guerra” (1915) e moriva quando nasceva Chiara Mellina (1964), la mia seconda dei cinque figli che mi ha regalato Silvia. Era proprio Chiara, e non a caso, che mi aveva fatto appassionare a questo genere di studi dopo una profonda delusione causatale dalla frequenza dei primi due anni di medicina. Era demoetnoantropologa. Si era Laureata con Ugo Bianchi che sapeva il Sanscrito. Si era formata e aveva frequentato la celebre scuola romana comparativa di studi storico religiosi incardinata da Raffaele Pettazzoni subito dopo la seconda guerra mondiale e proseguita da altrettanto illustri esponenti quali Angelo Brelich, Ernesto de Martino, Vittorio Lanternari, Ugo Bianchi, Dario Sabbatucci, Gilberto Mazzoleni, Italo Signorini, ecc. Tutto questo, divagando un po’, per rimarcare talune affinità di contesto esistenziale, con la Gallini, ma per dire anche che io, al contrario della Piaf, provo una sorta di sensucht (magone), nella rammemorazione vicina del loro lontano (Heidegger). Il mio rammarico, deriva da un’infinità di motivi. In primo luogo un pensiero riverente e grato corre a tutti coloro che inaugurarono, con me, il mio Corso nel lontano 12 dicembre 1994. Tutti, tranne chi scrive, ci hanno lasciati. Chi da più tempo, chi da meno. Ma son passati ben cinque lustri. Il titolo era: «PRESENTAZIONE ED INAUGURAZIONE DEL CORSO. Sergio Mellina traccia gli scopi del Corso biennale inter-Usl (1995-1996) e introduce, per la prolusione:  Luigi Di Liegro (Direttore Caritas diocesana Roma), Luigi Flavio Frighi (Ordinario Igiene Mentale Roma “La Sapienza”), Gilberto Mazzoleni (Ordinario Storia delle Religioni "La Sapienza" Roma)». Tutti personaggi di assoluto rilievo, notevole caratura, grande carisma e sapienza, per astenersi dal ripetere la parola “Maestri”. Un secondo motivo di dispiacere è perchè il 2017 è stato un annus horribilis per l’antropologia culturale e soprattutto per l’antropologia medica e l’etnografia. Se ne sono andati oltre a Tullio Seppilli (1928-2017) di cui già abbiamo raccontato [01], anche la nostra Clara Gallini (1931-2017) da Crema e Amalia Signorelli  (1934-2017). Chiara, che nel tempo libero viene sempre a interessarsi di quello che faccio, mi ha ricordato di aggiungerci Ida Magli (1925-2016), che l’anno orribile lo aveva inaugurato in anticipo di dieci mesi. Non ho conosciuto direttamente la Magli, che aveva la cattedra di Antropologia culturale alla “Sapienza” di Roma, pur leggendola da varie parti, quotidiani, settimanali, ecc. ma so che aveva una particolarità che la distingueva, era diplomata al Conservatorio di Santa Cecilia,  
Riesco a rasserenare i ricordi e a sorridere soffermandomi sulle date di nascita di questi ultimi quattro nomi sottolineandole con un tratto canoro. Nel 1925 nasceva “Ma se ghe pensu” di Mario Cappello, e Attilio Margutti. L’hanno cantata un po’ tutti a partire da Gilberto Govi, Bruno Lauzi, Gino Paoli, Mina Mazzini, Carlo Pascucci. Chiara preferisce la versione di Antonella Ruggiero. Credo di aver capito anche perchè. L’atmosfera le ricorda i nonni materni che parlavano in genovese solo tra loro, mentre si rivolgevano in perfetto italiano alle due figlie: Ada e Silvia Grillo, sua madre. Nel 1928 già circolava per la Fonit una sdolcinata canzone strappalacrime di E. A. Mario (al secolo Giovanni Ermete Gaeta, quello della Leggenda del Piave, tanto per intenderci), di grande successo, “Balocchi e profumi” specialmente nell’interpretazione di Luciano Virgili uno scaricatore di porto livornese con una calda voce baritonale che decise di studiare canto. Nel 1931 le stazioni dell’EIAR diffondevano “Signorinella pallida”, una romantica canzoncina nostalgica e orecchiabile eseguita da Carlo Buti. Il testo di Libero Bovio musicato da Nicola Valente spopolava e, malgrado tutto, rallegrava gli animi. Nel 1934, era la volta di “Quanto sei bella Roma”, parallelamente alla fascistizzazione della Capitale, di Cesare Andrea Bixio, Enzo Bonagura, Ferrante Alvaro De Torres. Io preferisco la versione di Anna Magnani nel film “Abbasso la ricchezza”.
Ancora rimpianti perchè questa lectio, una testimonianza, precisa ed efficace, una rara perla storica nel suo genere, anche impegnativa da leggere, è giunta rocambolescamente alla Rivista POL.IT Psychiatry on line di Bollorino dai famosi due-tre miei scatoloni, dove ho riscoperto tutte le cassettine di segreteria telefonica con la registrazione di ore e ore del biennio magico del Corso in questione. Sono tutte impilate ordinatamente in due scatole di “Partaga”. Solo qualcuna era stata sbobinata da un paio di miei allievi della SPIGA, la Collega Giusi Marruzzo e il Collega Pasquale D’Acunzo che ringrazio per la fatica di una decina d’anni fa. Questa che segue e mi accingo a presentare, è una lectio magistralis di un maestro incondizionato della ricerca antropologica sul terreno: Clara Gallini. È una sua vecchia Conferenza sulla diffusione dello stereotipo etnico nella massa, una cosa difficilissima da capire, indovata mimeticamente nei luoghi comuni, apparentemente banale, ma strategica per la persuasione occulta, e molto pericolosa. All’epoca anticipava una serie di conferenze sull’antropologia medica, sulla medicina popolare, le fatture, le magie, le possessioni, ecc. – campo decisamente in competizione con quello di psichiatri e psicoanalisti – che avrebbe visto l’avvicendarsi, dopo Clara Gallini, di Tullio Seppilli, Vittorio Lanternari Alfonso Maria Di Nola ed altri. Tutte le conferenze erano molto frequentate, il teatro ENAOLI sempre gremito. Queste Conferenze, un po’ eterodosse, però, avevano particolare successo.
A distanza di molti anni, l’unica cosa che non rimpiango, è l’aver ideato, chiesto il finanziamento Regionale, organizzato e seguito assiduamente per due anni codesto corso indirizzato ad operatori della salute mentale mentre i miei Colleghi di altri SDSM romani si erano buttati sulle supervisioni psicoanalitiche di grandi e piccoli gruppi. Noi ospitavamo, sempre. Gli altri, spesso, andavano anche in trasferta. Ci eravamo attrezzati in modo da prelevare i relatori che giungevano da più lontano: alla stazione o all’aeroporto, per farli scendere ad un albergo vicino a Torrespaccata. Io provvedevo personalmente come si trattasse di un figlio. Nessuno era trascurato: pazienti, personale, doveri istituzionali, saperi, prevenzione, formazione. Codesta lezione appartiene al biennio magico 1995-1996, in cui tenni il Corso inter-USL "Capire il disturbo mentale della persona immigrata”. Osservazione di un fenomeno emergente attraverso modelli teorici, istituzionali, operativi". Lo dirigevo in qualità di Primario del Dipartimento di Salute Mentale dell'Azienda Sanitaria Locale B di Roma (Via di Torrespaccata 157).
Più volte rileggendo Clara Gallini, ripensando alla sua persona, a quando la conobbi ed ebbi modo di farci amicizia, non molto a lungo, purtroppo, riflettendo intorno alle sue scelte, alla sua carriera accademica, mi sono domandato quali attitudini, quali competenze quali studi, quale preparazione dovesse avere maturato per diventare Clara Gallini, vale a dire una caposcuola indiscussa, almeno a mio avviso, dell’antropologia culturale e dell’etnologia italiana, anche se mi rendo conto che non ho nessun titolo per poterlo affermare e forse, per ragioni di affinità, sto premendo il pedale dell’enfasi. L’incontro con Ernesto de Martino era stato casuale, ma fondamentale e strategico, com’ella stessa dichiara apertamente, ma se uno volesse domandarsi come lui si fosse imbattuto in lei e viceversa, mi pare che bisognerebbe riandare a Crema, alla sua famiglia borghese, alla sua laurea in Lettere classiche alla Statale di Milano, ed alla sua venuta a Roma per iscriversi alla locale Scuola di Perfezionamento in studi storico-religiosi di Raffaele Pettazzoni, Angelo Brelich, Ugo Bianchi, Vittorio Lanternari, dove, incidentalmente, come s’è detto, incrocia Ernesto de Martino. Anche se all’epoca, Benedetto Croce andava sostenendo che, a suo avviso, la Sociologia fosse una disciplina inutile, la Gallini, invece, non poteva ignorarla e vi giunse direttamente da Antonio Gramsci e da Karl Marx. Si, tutto questo certamente, ma chi la spingeva a chiedere il trasferimento al Liceo Siotto Pintor di Cagliari – «Ma chi glielo nega?!» Si sentì rispondere dal funzionario ministeriale – per poter continuare la ricerca universitaria col titolo di “Assistente volontario alla storia delle religioni” per circa dieci anni (quanti ne feci io in Clinica delle malattie nervose e mentali a Roma), la prima metà a Milano, la seconda a Cagliari. Insomma, per fare quello che ha fatto lei bisognava guadagnarsi la libertà da una famiglia con un padre importante, dei parenti importanti (Zio Natale e Zia Ada, in particolare) e numerosi, sia in linea paterna che materna. Una condizione borghese benestante lombarda, una casa con due entrate, a Crema, e un’altra a Milano in Via Bellini per studiare all’università, senza viaggiare, con la sorella maggiore, di cinque anni più grande, che aveva fatto medicina e c’era stata prima di lei, vicino al negozio di articoli musicali del predetto Zio Natale, dove si poteva incontrare il pianista Maurizio Pollini che da bambine aveva esercitato sulle tastiere le due sorelle Gallini. Che il Vailati, lo chauffeur di casa Gallini, le portava tutti i giorni i cibi cucinati a Crema dalla madre e via autonarrandosi [02]. Dunque la prima scoperta era che “per lasciare la famiglia e continuare la ricerca di una autonomia nella vita quotidiana, avrei presto scoperto che oltre al consenso dei miei ci voleva anche qualche soldino in tasca”. Solo nel 1965, dopo la prematura scomparsa di Ernesto de Martino, diverrà titolare a Cagliari e, dal 1978, ordinaria a Napoli alla cattedra di Antropologia Culturale dell'Istituto di Studi Orientali. Successivamente e, fino al pensionamento, sarà alla “Sapienza” di Roma, alla Cattedra di Antropologia Culturale. Farà anche in tempo a ricevere  il titolo di Professore Emerito. Vien veramente la vertigine pensando alla radicale lontananza e soprattutto alla diversità del polo di partenza da quello di arrivo. Sappiamo anche che la sorella maggiore quella «che era medico, si sposò con un farmacista ed ebbe un sacco di figli» aveva scelto diversamente. Rinunce, senza dubbio, quelle di Clara, ma risultati molto interessanti, quelli derivanti dall’esercizio di una critica, di una osservazione acuta e profonda del mondo, dei fatti, delle persone, dei loro rapporti con tutte le infinite sfumature. Lo vedrete leggendo la trascrizione della sbobinatura di questa sua lectio magistralis. A mio avviso, per iniziare e continuare da sola con quella determinazione e quella capacità, non avrebbe potuto far altro che “Lettere Classiche” all’Università di Milano, «ospitata dal Liceo Regale delle Fanciulle, e poco regale ci doveva davvero sembrare nella qualità dei saperi allora impartiti. Da questo edificio si sarebbe poi passate alla nuova università, con le sue rosee ceramiche e i fasti di un sapere che per me si sarebbe rivelato assai problematico». Ma tutto il resto si può sicuramente dire che sia stato partorito dalla sua mente. Il carattere? Rigido, perfezionista, da primo della classe, non gli ha certo procurato i favori di una captatio benevolentiae che peraltro non ha mai cercato. Ma tutto non si può avere. In ogni caso, il testo che qui riportiamo sugli stereotipo è di un’attualità sconcertante. Basta dare un’occhiata in giro e vedere com’è messa l’Europa (il Gruppo di Visegrad, che s’è messo in pari coi confini reticolati) e com’e messo il mondo (soprattutto per indicare quelli che si autodefiniscono savranisti senza aver più visto un monarca nell’ultimo secolo),  per diffidare di chi stereotipa a pappagallo.
Sergio Mellina
 
Testo della conferenza.
 
Mellina.
Buongiorno. Stamane 7 novembre 1995, iniziamo questo seminario monotematico cha ha per titolo “Stereotipi etnici nella cultura popolare e di massa”. Ce lo ha suggerito la professoressa Clara Gallini, un personaggio di spicco nel panorama culturale italiano sia dal punto di vista accademico che da quello della ricerca sul terreno. L’abbiamo invitata a parlarcene e la ringraziamo per aver accettato. È un’allieva diretta di Ernesto de Martino. È stata con lui “Assistente Volontaria” a Cagliari. Ha lavorato con lui, sul campo ed è stata una delle sue collaboratrici più famose. Posso aggiungere in questa breve introduzione che ha studiato il fenomeno dell’argia sarda. L’argia è una specie velenosa di ragno, (Latrodectus tredecimguttatus o mactans), la malmignatta o vedova nera mediterranea, una tarantola insomma, avvistata con frequenza in diverse zone della Sardegna. Per certi versi questo studio uscito originariamente con un libro intitolato I riti dell’argia (1967), poi ripreso, ripubblicato e ampliato nel più celebre La ballerina variopinta (1988), ripercorre, in qualche modo, e propone uno straordinario, appassionante parallelismo con il tarantismo pugliese che colpisce prevalentemente le donne. Il fenomeno sardo dell’argia, invece, credo colpisca solo gli uomini. In ogni caso se resterà tempo chiederemo alla prof.ssa Gallini di illuminarci meglio su questo particolare aspetto di malattia popolare. Clara Gallini non solo ha curato il libro postumo di de Martino La fine del mondo, ma cura anche lavori su tutto l’archivio degli inediti di de Martino di cui stanno uscendo i volumi per la Casa Editrice romana ARGO, un’apposita collana. Vi diamo sempre qualche notizia biografica sui relatori e sulla bibliografia affinché ciascuno possa prendere appunti, sviluppare e mettere a frutto con più tempo le nostre lezioni. Mi pare che uno degli elementi più importanti di pubblicazione siano le note sul campo. C'è un libro, per esempio, di Ernesto de Martino, Vittoria De Palma e Clara Gallini Note di campo: spedizione in Lucania, 30 sett.-31 ott. 1952, relativo alla prima ricerca demartiniana, perché io ne ricordo una con Giovanni Jervis (che era specializzando con me in neuropsichiatria a Roma da Mario Gozzano / Gian Carlo Reda) del 1959 (Jervis Il fenomeno del tarantismo Il Lav. Neuropsichiat 1962). Quella fu un’epoca straordinariamente fertile per questo genere di studi, perché contemporaneamente Michele Risso [03], un altro psichiatra di frontiera, studiava in Svizzera gli “strani comportamenti” degli immigrati italiani dal Meridione che avevano molto in comune con le osservazioni di de Martino. Il collegamento tra quello che andava studiando sul campo de Martino e quello che osservava Risso in Svizzera alla clinica a Waldau è stato fatto a posteriori. Attualmente mi pare che la Professoressa Gallini si stia occupando di antropologia simbolica e antropologia visuale. Io, però, ho sentito da lei una serie di ben argomentate riflessioni critiche di squisita pertinenza dell’antropologia medica che mi hanno interessato moltissimo. Ricordo perfettamente un suo seminario dal Prof. Nicola Ciani alla Cattedra di psichiatria  di Tor Vergata (Villa Gentile) sui pellegrinaggi terapeutici a Lourdes. Qualcosa che mi ha colpito molto e anche incuriosito sulla “certificazione medica del miracolo”. Non so se oggi ci sarà tempo per accennare anche a questo argomento. Di recente si è dedicata agli studi sul razzismo e sulle immagini dello stereotipo dell’altro. Sono tanti i suoi interessi e tante sarebbero le domande che vorremmo farle, ma ora le cedo la parola.
 
Gallini
 
(1) Ringrazio il Collega. Mi chiederete prima di tutto che c’entrano gli stereotipi – secondo quanto abbiamo sentito finora dire nella presentazione di Mellina – con una persona che si occupa di riti terapeutici sardi, ha studiato l’ipnotismo nell’Ottocento, “Lourdes” e l’attuale medicalizzazione dei processi di miracolo. Che c’entrano gli stereotipi con tutto questo? Tra l’altro, mentre Mellina parlava, mi ha fatto scorgere un’immagine durante i rituali dell’Argia, che sono dei rituali di guarigione di una strana malattia. Una persona che quando è uomo viene ritenuto realmente malato, quando è donna viene ritenuta una finta malata. Malati veri, malati falsi, malati imbroglioni, malati un po’ così. Si ritiene una persona posseduta da uno spirito che è produttore di mali e – per guarire appunto – deve compiere dei rituali che fanno si che la sua persona si costruisca con l’immagine dell’ente che la possiede. Solo una volta che si completa questa identificazione tra la persona sofferente e l’ente che la possiede, l’ente può dirsi soddisfatto ed andarsene. La cosa, molto divertente, è che questo ente si rappresenta come straniero. E lo spirito che possiede – che è sempre uno spirito donna (e anche questo bisognerebbe capirlo) – è un’alterità che si costruisce su due registri dell’alterità: una interna rappresentata come “gli altri”, l’altra al di fuori dei nostri confini di gruppo. Ecco dunque che questo spirito che possiede la persona, è lo spirito che viene da un altro paese, e l’individuo sofferente, spesso un uomo, si traveste da donna per rappresentare questo spirito altro. Donna e di un altro paese. Indossa anche il costume di un altro paese. Qui vediamo mettere in gioco un’alterità molto interessante, perché scopriamo, per esempio che il male, la fonte di un male (che noi diremmo psicofisico) si rappresenta come proveniente da un ente estraneo: donna ed estraneo al gruppo del villaggio. È la donna che viene da un altro paese che porta questo male. Potremmo dire un’immagine stereotipa e tradizionale di un’origine del male. Già questo ci farebbe riflettere parecchio. Quando, per esempio, pensiamo all’immagine che ci facciamo degli immigrati come portatori di epidemie di mali fisici e di vario genere, facciamo lo stesso tipo di operazione. Io sto andando fuori tema perchè mi lascio infervorare da esperienze studiate, ma è stato anche il suggerimento tuo, Mellina, il tuo lancio per farvi capire come sono arrivata a certe tematiche.
 
(2) Per esempio, nel secolo scorso, in Francia, la sifilide mieteva molti morti, direi forse altrettanto quanto l’AIDS oggi. Adesso non vi so fare le statistiche di confronto. Portatori di sifilide venivano ritenuti i Maghrebini, gli immigrati dalle zone maghrebine che già alla fine del secolo scorso popolavano le grandi città della Francia come manodopera utilizzata in diversi livelli di lavoro. Vicino ai “Maghrebini” c’erano anche gli altri immigrati: gli Italiani e i Polacchi, in particolare. Ma l’accusa stereotipante dell’origine della sifilide e del contagio portato dallo straniero, si polarizza su uno straniero sifilitico, in questo caso “il Maghrebino” come portatore di sifilide. Ora la cosa molto divertente è che, sempre alla fine del secolo scorso, ci furono degli studi epidemiologici che dimostrarono come i portatori di sifilide fossero gli immigrati Polacchi cattolici e inseriti in nuclei familiari. I bravi Polacchi che arrivavano dalla Polonia con la moglie e che potevano quindi esercitare un’attività sessuale, diciamo così normale, per questo non venivano stigmatizzati rispetto ai “Maghrebini” che arrivavano da soli e senza la famiglia ed erano per giunta musulmani e quindi già si presupponeva che i musulmani avessero costumi sessuali perversi, invece i Polacchi non venivano nemmeno sfiorati da questa ipotesi di essere portatori di reale contagio.
La cosa mi sembra molto interessante perché ci pone di fronte a un doppio problema. Il problema appunto della costruzione di uno stereotipo, ed è quello di cui parleremo oggi, positivo o negativo. Perché esistono anche gli stereotipi positivi legati ad un determinato gruppo indicato come straniero e dall’altra anche al problema del confronto tra questi stereotipi e quello che noi potremmo chiamare “piano di una pratica reale quotidiana”.
Sostanzialmente torniamo all’esempio da cui siamo partiti. I Polacchi con la famiglia cattolica, non possono essere loro a portare la sifilide, ma questa opinione stereotipa non incideva con il dato di realtà, non incideva sull’altra forma di rappresentazione: sono i “Maghrebini” ad essere i portatori di sifilide. Il fatto che lo avessero scoperto i medici e lo avessero anche detto era del tutto ininfluente. La gente continuava a dire: sono i “Maghrebini” i portatori della sifilide [04].
Perché? Che rapporto c’è fra questi due piani: tra il piano di una verifica reale, concreta di determinati fatti e il piano di una rappresentazione di una certa essenza degli altri. Questo è un problema che mi ha interessato molto da vicino in questi ultimi anni. Come ci sono arrivata?
Non ci sono tanto arrivata dall’argia. All’argia straniera ci ho pensato dopo e l’ho capita meglio dopo. E ho capito anche meglio, dopo, come noi siamo capaci di costruirci nel nostro immaginario due alterità così contigue come l’alterità interna rappresentata come donna, capite? La donna rappresentata come altro, evidentemente presuppone uno sguardo maschile che costruiva un “altro” come donna e l’alterità esterna, l’alterità dello straniero, lo straniero che poi è diverso, lo straniero del villaggio e lo straniero rispetto a una nazione.
Come questi due piani di alterità si connettano anche, non lo avevo ben capito quando studiavo l’argia. Non avevo capito ancora che le alterità sono sempre costruite, comunque, da un soggetto dominante che è sessuato. E l’alterità poi, nel nostro caso, era l’alterità di chi poi si autodefinisce come appartenente a un determinato villaggio, e costruisce la propria identità negando e buttando addosso epiteti negativi a chi proviene – portatore di male – dall’altro villaggio.
Non avevo ancora riflettuto su questo. E non avevo riflettuto neppure in termini più generali sul fatto che un conto è parlare di villaggio della Sardegna, un conto è parlare di razzismo. I confini di un villaggio sono una cosa. L’alterità che io costruisco all’interno di un villaggio è una cosa, l’alterità che costruisco in quanto diciamo “razzista” (se vogliamo usare questo termine) è un’altra, perché presuppone la costruzione di confini nazionali. I confini di un popolo che si identifica con una nazione, la quale, a sua volta dice o dentro o fuori. Ed è quello che noi stiamo anche praticamente vivendo.
Ora questa ulteriore riflessione sulla quale sto lavorando da alcuni anni, la devo comunque a de Martino, il de Martino dell’etnocentrismo critico. Ernesto de Martino nei suoi scritti, per tutta la vita e in diversi spunti, diciamo così, e anche in alcune parti molto pregnanti de La fine del Mondo, riflette su che cosa sia il nostro etnocentrismo e osserva come le nostre categorie conoscitive del reale si strutturino spesso secondo dei sistemi di valori che appartengono a noi stessi, alla nostra storia e che non appartengono eventualmente alla storia degli altri. [05].
Etnocentrismo è lo sguardo di chi si posa sopra degli usi e costumi che ritiene diversi dai propri, li giudica con il proprio parametro e dice: sono tutti sbagliati, oppure sono tutti bellissimi, ma giudicandoli secondo il proprio parametro e non confrontando il proprio parametro, il proprio punto di vista col punto di vista degli altri in un lavoro che deve essere di continuo confronto dialettico.
 
(3) È insistendo proprio su queste cose che da anni ho cominciato ad occuparmi di un aspetto del nostro etnocentrismo che non riguarda tanto il nostro conoscere gli altri, quanto il nostro immaginare gli altri e rappresentarli sotto degli aspetti, diciamo così funzionali, stereotipi. Poi vedremo in che misura c’entri lo stereotipo. Per esempio, quando appunto diciamo i “Maghrebini ci portano l’AIDS” o “tutte le Nigeriane sono delle prostitute”, facciamo un’operazione di questo genere: identifichiamo in quell’individuo un gruppo, un gruppo con un individuo, diamo anche un giudizio di valore talvolta positivo, talvolta negativo. Giudizi anche positivi possono essere, no? Ah! Che belle le isole dell’amore della Polinesia, dove tutte le donne sono così belle e tutte così a disposizione. È per esempio lo stesso tipo positivo che voi trovate largamente presente in tutti i depliant turistici che vi promettono un viaggio nelle isole dell’amore. Immagini di questo genere popolano la nostra vita quotidiana in misura della cui onnicomprensività sono andata pian piano accorgendomi. E di cui ci si comincia adesso ad accorgere un po’ di più. Pensate, non so, quando per esempio, un Francese dà del “maccheroni” ad un Italiano, no? Dice semplicemente che è un “mangia maccheroni” oppure, alludendo, esprime opinioni, generalizza, stereotipizza, giudica negativamente? Pensate quando noi – l’ultima immagine che vedevo circolare lungo le strade era un po’ di mesi fa – vedevamo l’immagine di una nera con l’osso nel naso che era la pubblicità di un sapone. Chiaramente conteneva implicito l’accostamento che la pelle nera è una pelle sporca e quindi un nero porta contaminazione, porta sporcizia. Quando sfogliate una settimana enigmistica e ridete di una barzelletta con il cannibale che mette l’esploratore nel calderone – ne avrete incontrate 100 mila di queste – che cosa sono, che farne? Quando vedete la pubblicità in cui vi sculetta davanti una Morositas che è tutta una cioccolata da mangiare, che cosa ci suggerisce, che cosa ci sta dietro a questo tipo d’immagine? Quando andate al Luna Park ed entrate nel Padiglione del Mago d’Oriente e sentite la voce di un altoparlante che vi dice “Questo è l’Oriente dei mille pericoli!” ed il gioco vi rappresenta la vostra entrata nei pericoli dell’Oriente. Oppure quando giocate un video-game e vedete correre sullo schermo delle immagini di arabi terroristi pericolosissimi con tanto di fucili che vi assaltano e rispetto ai quali voi dovete misurarvi. Che cosa fare di tutto questo armamentario? Che cos’è? Come conoscerlo? È un armamentario che ci attraversa la vita quotidiana sia sotto forma di parole dette, sia sotto forma di immagini di cui noi quasi non ci rendiamo conto, tanto popolano la nostra quotidianità.
Non lo so. È difficile isolarlo dal contesto, un messaggio subliminale, se vi è. Pensare che una forza a voi estranea, esterna, possa prendervi per mano e condurvi con la mente vostra dove non pensate di andare voi. Quando vedete che in un carnevale le maschere dello straniero sono rappresentate da due immagini tipiche, da quella della zingara e da quella dello sceicco, oppure quando vi imbattete in pubblicità in cui il nostro zainetto viene regalato a dei Tibetani vestiti nel modo che più tibetano non si può, ed hanno bisogno del nostro zainetto, come interpretare tutto questo, come capire se c’è un rapporto tra di loro?
Quando sfogliate un depliant turistico e vi trovate di fronte all’immagine di un indigeno rappresentato negli abiti che più tradizionali non si può, come voi mai lo incontrate nella vita reale perché ormai qualsiasi indigeno porta i jeans, e invece lì è vestito nel modo tradizionale rappresentato iconicamente nel modo più tradizionale perché appunto l’arabo deve avere vicino una palma e un cammello e dev’essere quindi identificato con il paesaggio di cui fa parte, oppure l’Orientale dei vostri depliant lo vedete sempre compiere dei riti strani, adorare degli idoli e non far  altro. Quando, per esempio, nel depliant turistico che sfogliate vedete muoversi dei personaggi adeguati e vi domandate che fanno, che attività svolgono questi signori, vi accorgete che l’unica attività che esercitano è quella di essere dei vostri servi, perché vi offrono dei cibi o vi danno degli aiuti.
 
(4) Ecco come leggere questo mondo variegato, queste situazioni anche diverse, questi contesti diversi dal serio al faceto, dal giocato al sognato. Quando andate ad Arezzo e vedete la “Giostra del Saracino”, che cosa rappresenta questo bersaglio che si chiama Saracino, attorno al quale poi si costruisce l’identità antagonista dei diversi quartieri? È una rete di immagini e di significazioni estremamente complessa la cui analisi non è certamente facile. Tutte queste immagini, vivono in fondo di una opaca banalità camuffandosi dietro una insignificanza che è, invece, tutt’altro che reale ma è costruita. Che cosa sono? Sono effettivamente dei prodotti culturali che hanno una costruzione storica, una sedimentazione storica in cui sta dentro tutta la storia del nostro rapporto tra noi e gli altri. Ed è per questo anche che sono di facile riconoscimento e di facile manipolazione. Tutti sappiamo di che cosa si tratta quando vediamo l’esploratore nella barzelletta dei cannibali, perché ne abbiamo viste tante e continueremo a vederne tante giocate nei modi più diversi. Dalla sigla di un serial televisivo per bambini che continua a riproporci scherzosamente giocando queste immagini del cannibale fino alla barzelletta del… e fino all’ultima pubblicità che mi ricalca non so più se sia Indiana Jones o cosa, quell’indiano che mi sta dietro, mentre il mio eroe apre il tonno Palmera, per mangiarsi il tonno Palmera e l’indiano gli sta dietro per mangiarsi lui e il tonno Palmera. Chiaramente noi siamo in grado di leggere tutte queste cose perché siamo molto, molto abituati. Perché costruiamo una rete che continua di significati in significati e d’immagini in immagini. Rete che ininterrottamente si fa e continuamente si disfa. D’altra parte, senza queste immagini che noi chiamiamo stereotipi noi non potremmo vivere.
Definiamo dunque in un certo senso uno stereotipo come (un) qualcosa che indica alcuni elementi caratteristici ritenuti particolarmente significativi che caratterizzerebbero nel caso dello stereotipo etnico determinati individui e determinati gruppi. Questi elementi sono di ordine fisico, psicologico e culturale. Per esempio avere un certo colore di pelle o una certa forma di occhi può diventare immagine significante. Parlare un certo dialetto o una certa lingua – quindi un dato culturale – può diventare un dato significante. Vestire un dato costume, mangiare un dato cibo, bere una data bevanda – per esempio gli Inglesi bevono solo the , gli Italiani mangiano solo maccheroni – avere determinati vizi o virtù per esempio i Francesi sono tutti amatori, i Maghrebini tutti stupratori. Oppure avere una determinata virtù: i Genovesi sono tutti avari come gli Scozzesi, dunque avere o non avere, essere laboriosi, i negri sono pigri, essere poltroni, quindi allora alla rovescia essere più o meno intelligenti o sciocchi.
Allo stesso tempo uno stereotipo caratterizza dei ruoli sessuali tipici di un determinato gruppo con particolare insistenza sulla specificità del ruolo femminile. Per esempio andava di moda un tempo lo stereotipo della Svedese, adesso è meno di moda. La Svedese è libera, però pensate quanto forte sia ancora l’immagine dell’odalisca velata da svelare su cui si fanno tutti i giochi dal serio al faceto fino all’ultimo “Harem” la trasmissione che voi conoscete dalla TV. Questa gioca proprio sullo stereotipo, lo sussume, cerca di metterlo in scena per smontarlo e anche su questo dovremmo tornare... e allora che cosa si può fare o non fare con lo stereotipo? Uno stereotipo è, può essere, una costruzione rigida e ripetitiva. E proprio per questa sua caratteristica non tiene conto della varietà degli individui che possono comporre realmente un gruppo. Tenete conto che ci sono tanti e diversi Maghrebini, come ci sono tanti e diversi Italiani e Italiane. Non solo, ma quindi capovolgendo, ogni individuo può essere stereotipato e… immagino un Maghrebino come tutti i possibili Maghrebini.
 
(5) Per comprendere la funzione di uno stereotipo dobbiamo però tener presente la sua natura. Uno stereotipo etnico è un prodotto simbolico. In quanto prodotto simbolico, costruisce uno specifico piano di realtà. Non è un fenomeno razionale. Non serve a conoscere razionalmente gli altri. Non ha una funzione cognitiva oggettivante, cioè non serve a conoscere una persona o una situazione attraverso un procedimento di razionalizzazione che oggettivi questa, ma serve a trasmettere un’opinione corrente prefabbricata. Io credo che parlando appunto a degli psicologi, siate più in grado voi di me, d’intendere cosa voglia dire procedimento di oggettivazione di un fenomeno. Serve piuttosto a costruire sul piano simbolico un’identità. Una identità mia di soggetto in quanto soggetto individuale e collettivo assieme. È immaginarmi quindi che gli altri soggetti abbiano questa identità che di fatto io costruisco per me stessa o per me stesso. Molto spesso uno stereotipo etnico indica assieme un noi e gli altri, ma questo noi viene indicato sia in termini di gruppo sia di sesso, come vi dicevo. Rappresenta, però, anche insieme, quindi costruisce un noi, serve per rappresentare noi, per dire noi, però si costruisce sulla relazione che noi costruiamo, che si dà di fatto tra noi e gli altri. Su una relazione che può essere paritetica o può essere dispari. Nella nostra storia culturale la relazione che si è costruita con i popoli, la relazione pratica, economica, politica che s’è costruita con gli altri popoli e con gli altri paesi è stata, come voi sapete, lungamente una relazione dispari. Il colonialismo ha significato dominio e di questo credo che ormai ne siamo abbastanza sicuri. Neocolonialismo significa una nuova forma di dominio. Le immagini che noi ci creiamo degli altri contengono anche giudizi… definiscono noi, ma definiscono anche noi nella relazione che ci poniamo e che si pone tra noi e gli altri. Relazione che è stata, come dicevo, storicamente dispari. Costruiscono pertanto un’idea di un noi dominante rispetto a dei possibili dominati. In quanto parte del nostro immaginario simbolico, uno stereotipo è di continuo attivato dalle produzioni culturali più diverse: il gioco, il teatro, il cinema, il romanzo e può rappresentarsi in scenari diversi. Dal sogno di evasione nell’esotismo alla presa in giro dello straniero nelle barzellette (cibi, contesti comici), alla paura o alla minaccia rappresentata in scenari di guerra, di avventura, di competizione.
Questi scenari, mi sono, in questi anni, abbastanza divertita a studiarli. Ho fatto diversi lavori e tra l’altro ho seguito la loro evoluzione nel tempo. Non vorrei sembrasse, diciamo, un autoincensamento. Lavoro sostanzialmente da 10 anni sull’immagine dell’arabo nella cultura occidentale, nei nostri mass media. Pensate, abbiamo fatto, 10 anni, fa una mostra che è stata anche il risultato di una nostra prima ricerca sull’immagine dell’arabo nella cinematografia di questo dopoguerra sia americana che italiana. Abbiamo effettuato una mostra di locandine cinematografiche che ha molto interessato. Abbiamo tenuto un convegno, il primo convegno in Italia sul razzismo, quando ancora di razzismo non si parlava, era il 1987. Quella mostra non suscitò quasi interesse, adesso invece circola, perché? Cos’è cambiato nella nostra coscienza? Anche questo è un punto su cui c’interrogheremo. Perché dieci anni fa questi temi non interessavano e adesso interessano? Cos’è entrato nella coscienza? Cos’è entrato nel dibattito?
 
(6) Per esempio questo lavoro sull’immagine dell’arabo nei mezzi di comunicazione di massa ha avuto un esito positivo di recente. Ecco, vedete, c’è stato un vuoto durante il quale è avvenuto un lavoro segreto sotterraneo col quale per dieci anni su questi temi si sono prodotti mutamenti, che soltanto adesso vengono fuori. Allora, l’anno scorso abbiamo lavorato con la Rai assieme al sociologo Meletti e abbiamo rianalizzato un anno di emissioni televisive, sull’immagine dell’Islam e dell’Arabo. Io mi sono riservata la fiction cinematografica, che è quella che tanto mi piace e il sociologo Meletti si è riservato la parte dei notiziari politici e culturali. Ne è emerso un costante rilancio e reinterpretazione dello stereotipo dell’arabo che sostanzialmente si gioca su una tematica dell’evasione nel sogno d’Oriente e sulla tematica della minaccia incombente dell’altro in quanto fanatico e terrorista. Nel tempo queste due immagini speculari ci hanno alimentato continui sogni nella grande cinematografia nella storia del cinema. Col tempo, di queste due immagini speculari, la prima quella del sogno fantastico di Aladino è quasi messa da parte, quasi finita. Emerge sempre di più un altro tipo di Oriente che cambia i propri scenari, muta in un certo senso lo stereotipo visuale. Lo scenario dell’Oriente è sempre meno cammello, palme, deserto, ed è sempre più aeroporto, albergo, strade di una città moderna, moschee. Ma i ruoli giocati continuano ad essere quelli del vecchio predone del deserto che ora si trasforma in terrorista e che sempre (questo sempre) in nome della spada di Allah minaccia i nostri valori, le nostre sicurezze. Dalla filmografia non esce quasi altro. Diversa è la situazione dell’informazione su cui ha lavorato Meletti.
Dentro questo mio filone di studio prevalente che ho condotto sulla storia dell’immagine dell’Arabo della nostra cinematografia, ho lavorato più in particolare analizzando tutta una serie di presenze di immagini soprattutto come stereotipi visuali all’interno della nostra cultura di massa. Dalla pubblicità alle barzellette, ecc., vedendo come contesti diversi facciano anche giocare diversamente lo stesso tipo di stereotipo. Dentro questo stereotipo l’immagine dell’altro, in quanto a ruolo, si caratterizza per oscillare tra l’immagine del servo fedele della Morositas tutta da succhiare e quella dell’avversario insidioso che ci può uccidere con una scimitarra o metterci a bollire in un pentolone come un cannibale.
Dentro questo ragionamento continuiamo ad interrogarci sul ruolo e la funzione delle immagini. L’efficacia di queste immagini che sono più o meno materializzate in oggetti e beni di consumo, consiste in un semplice dato di fatto, come vi dicevo. Basta una sola a richiamarle tutte. Siamo inconsapevolmente contagiati, pur non essendo consapevoli che quando vediamo un cannibale, dietro a lui, insieme a lui ve ne stanno centomila e ci sta anche l’arabo con la scimitarra. Ciascuna di esse con le sue forme e i suoi contenuti specifici si presenta come una variazione sul tema. Un tema lungo, potenzialmente infinito, fatto di segni sempre uguali e sempre diversi. È proprio questo poter essere uguali e diversi che ne garantisce anche la possibilità di riprodursi nello spazio e nel tempo. Gli anelli di questa catena, però, non si fanno e non si disfanno a caso, ma di volta in volta si riformulano a seconda dei contesti, dei locutori, degli attori sociali con le rispettive intenzioni e le rispettive mosse più o meno strategiche.
 
(7) Ad esempio, non è un caso che durante la Guerra del Golfo, dal periodo della guerra del Golfo ad oggi, la nostra televisione non abbia quasi più passato film sul sogno d’Oriente, diciamo sugli Aladini e sulle odalische belle, ma abbia soltanto passato film in cui l’Oriente è uno scenario di guerra. Vi ricordate tutti i vecchi film anni ’60 con queste donne tutte glamour, tutte occidentali che fingono di essere delle odalische velate e questi eroi tutti macho che poi dovrebbero essere degli orientali ma sono quello che noi abbiamo definito “americanarabeggianti”. Ecco questi film che tutti voi conoscete non sono più passati. Adesso cominciano a ritornare un pochino, ma proprio in funzione di strategie che sono mosse di posizione molto precisa. Certi temi tirano o non tirano. Nei momenti duri di guerra o di rischio come nel periodo in cui noi abbiamo fatto la nostra analisi era un periodo di rischio di ritorno alla guerra del Golfo e non si videro che film di guerra. Spariti completamente! Adesso, gli “Arabini” vari cominciano a ritornare un pochino. I confini tra l’etnocentrismo e il razzismo, in questo senso sono molto complessi, molto rinegoziabili di volta in volta a seconda delle posizioni di chi gioca la partita del rappresentare se stesso e gli altri. Insomma, abbiamo a che fare con delle immagini, dei giudizi, dei colori che ci coinvolgono nel più profondo. Una costruzione culturale che prepotentemente contribuisce a far si che noi siamo quello che siamo. Di qui anche la difficoltà a cogliere questo oggetto che è una parte di noi stessi assumendone quella distanza che ci aiuti a prendere atto della sua esistenza e a guardare com’è fatta dentro questa cosa che sta appiccicata assieme: gli altri, noi e la relazione tra questi due termini.
Qui finisce l’apporto della prima parte del mio discorso. Quanto tempo abbiamo? Perché se ne resta un po’, vorrei portarvi su un altro piano di analisi.
Che cosa succede, per esempio, quando lo stereotipo viene contestato? Un fenomeno al quale noi stiamo assistendo sempre più spesso e ci pone tutta una serie di problemi che concernono proprio il nostro rapporto con l’immagine stereotipa che è messa in gioco tra noi e gli altri. Vi cito un episodio di una Comunità lavoro. Un attimo d’intervallo per me ludico, ma vedremo che non è solo ludico. Vi leggo un trafiletto de il manifesto (di cui io sono assidua lettrice) del 12 giugno 1995. È il quotidiano in cui io trovo delle notizie cui gli altri danno poca attenzione, notizie diciamo così anche di politica culturale. Allora vediamo questa notizia. I Napoletani si sono stancati dello stereotipo e dello sfruttamento della loro immagine. Ora c’è un Napoletano, il consigliere provinciale dei “verdi” Mimmo Cordopatri, che ha deciso di lanciare una provocazione, una tassa appunto sull’immagine della città: centomila lire per una foto o una ripresa della vecchia dentro il basso, un milione per il motto di camorra e il disoccupato che si lamenta. Queste alcune delle tariffe proposte. Cordopatri chiede al deputato del suo stesso Partito Alfonso Pecoraro Scanio di istituire con una legge nazionale – naturalmente tutto questo è molto giocato – la tassa oleografica contro lo sfruttamento dell’immagine pauperistica, malavitosa e scarrupata di Napoli. È già pronto un vero e proprio tariffario. Telegiornali e programmi televisivi, ha spiegato il consigliere provinciale, dovranno fare i conti con le tasse. Trasmettere gli scugnizzi costerà 4 milioni, il bambino corriere della droga avrà un prezzo proporzionato al danno d’immagine per la città. I programmi televisivi pagheranno 10 milioni, mentre per i telegiornali il costo sarà di 4. Scanio dal canto suo ha sottolineato la necessità di aprire un dibattito sugli attacchi antituristici che giungono anche dall’estero. Le diffamazioni giungono soprattutto dagli stranieri, prova ne sia la triste vicenda nella quale è rimasta coinvolta la BBC a Reggio Calabria. Ricordate tutti l’episodio della BBC che arriva in un paese di Ndrangheta e si inventa, si costruisce, il morto ammazzato per restituirlo. Questo stereotipo etnico di cui si gioca l’effetto, non è certo lo stereotipo etnico nazionale ma è lo stereotipo etico di una città.
 
(8) L’episodio simpatico e bizzarro come questo non è l’unico. Narrazioni del genere sono successi di recente a Palermo dove addirittura, sempre il manifesto mi informa dell’iniziativa presa dalla municipalità di Palermo di affidare a un pubblicitario – Ferruccio Barbera – la consulenza, la promozione e l’immagine della città. Referenti primi sarebbero i media su cui esercitare un’operazione di convincimento perché s’impegnino a rappresentare Palermo quale essa realmente è in tutte le sue nuove e positive trasformazioni. Episodi di questo genere non si comprenderebbero se si tenesse conto esclusivamente del ruolo dei pubblicitari e dello stretto rapporto tra immagine, rinascita culturale di una città, eventuali ricadute positive sulla sua economia attraverso il turismo. L’elemento che mi sembra inedito al nostro panorama italiano è proprio dato dal valore forte assegnato all’immagine e allo stereotipo di una città da parte di alcuni rappresentanti della sua amministrazione i quali reagiscono allo stereotipo sfoderando l’orgoglio della propria cultura. Napoli ha una cultura e una storia, dobbiamo creare questa immagine. Lo stesso per Palermo. Non c’è mai stato nessun leader politico che non abbia lanciato nell’arena l’immagine di se, della propria città e della propria nazione come immagine positiva. Pensate a Charles De Gaulle con la grandeur francese per esempio. Però è recente nel panorama internazionale ed è relativamente nuovo nel nostro panorama interno la consapevolezza che l’immagine è una forza (immagine in quanto immagine funzionale, ricordiamoci bene) e che il suo uso implica  la messa in gioco di una partita politica. Si dice che siamo in un’era postmoderna dominata da un immaginario virtuale pregno di effetti di realtà. Detto questo, però, ben poco altro ci rimarrebbe da constatare, isoleremmo i nostri due casi senza connettere questi discorsi, queste provocazioni a tutta un’altra catena di discorsi, di provocazioni e di risposte in cui si articola la messa in scena pubblica di un’immagine collettiva.
Per quanto concerne il discorso più generale pensiamo a tutte le occasioni in cui la ribellione allo stereotipo è stata messa in scena da parte di gruppi minoritari, soprattutto negli USA. Gruppi minoritari che si sono dichiarati discriminati in base a criteri di sesso – è ovvio l’entrata in scena delle femministe – di razza, gruppi, li abbiamo visti di recente anche in televisione o di etnia, anche mediante sfilate, sit-in, travestimenti, slogan, canti. Questi gruppi minoritari mettono in scena il rifiuto di essere ingabbiati dentro uno stereotipo definitorio della loro presunta essenza. Quest’ultimo tipo di protesta è più prossimo al caso da cui siamo partiti, appunto il caso del sindaco di Napoli o di Palermo, almeno sul piano del discorso simbolico. Argomentazioni molto simili contribuiscono a sostanziare ad esempio, il conflitto etnico negli USA, con le debite differenze, però, che da subito possiamo notare tra i soggetti sociali di riferimento. Da una parte una città dell’Italia, dall’altro – che so io – l’etnia se vogliamo, detta così dei neri, definita tale anche dentro il contesto cosiddetto multietnico degli Stati Uniti; ma anche le donne, i gay e così via. Quindi c’è una diversità di soggetti sociali, c’è una diversità di progettazione nell’un caso e nell’altro e ogni soggetto poi porta avanti le sue argomentazioni.  
Di fatto l’immagine dell’altro come costruzione culturale che lo rappresenta in termini di etnia o di razza, si è proposto alla coscienza inquieta della cultura occidentale a partire da questo secondo dopoguerra. Da qualche decennio a questa parte è in atto a diversi livelli un reinterrogarsi sui modi attraverso i quali è potuto avvenire un simile processo e sui relativi condizionamenti delle sue trasformazioni interne. Ciò è avvenuto, per esempio, anche nell’ambito degli studi antropologici e delle ricerche che io perseguo, ma che ha cominciato de Martino stesso, da pioniere nella storia della nostra cultura.
Non è soltanto l’etnologia a guardare alla storia della sua disciplina e a porsi domande che finiscono per toccare le radici stesse della sua modalità di conoscenza. C’è anche un interrogarsi più variegato che si affaccia sui territori del nostro immaginario per esplorarne le forme e i contenuti nei più diversi settori della nostra storia culturale: la letteratura, le arti visuali, la stessa fotografia o il cinema come abbiamo visto. Attorno all’immagine dell’indiano d’America, del nero afro-americano, dell’orientale, ecc. si conducono ricerche che per quanto riguarda l’immagine dell’arabo hanno avuto un antesignano importante in Edward Said un palestinese d’America il cui libro Orientalismo è stato anche tradotto in italiano ed ha fatto storia, anche se molto controversa, e ha dato molta materia per polemizzare [06]. Sono libri che diciamo sollecitano nuove attenzioni anche a guardare a quei luoghi in cui l’esotico costruito a oggetto di scienza o di stupore viene esibito mediante istituzioni, musei, mostre, ecc. Le esposizioni, per esempio, sono istituzioni preposte in un certo senso a fare da ponte tra alta cultura e consumo popolare destinato col tempo a massificarsi. Si tratta evidentemente di un campo sterminato che richiede anche l’affinarsi di specifiche competenze perché studiare per esempio l’immagine visuale è una cosa, un’immagine, uno stereotipo presente nella letteratura è un’altra cosa. Diverso ancora è studiare l’immagine del buon selvaggio in un filosofo del 1700 o quella proposta da un depliant turistico nel 1900. La stessa parola “immagine stereotipa” rischierebbe di diventare un contenitore buono per tutti gli usi se non ne precisassimo ogni volta con estrema pertinenza l’ambito di riferimento. D’altra parte l’individuazione proprio di questi diversi luoghi in cui si gioca in modo diverso un’immagine che è sempre diversa ed eguale a se stessa, l’individuazione di questi luoghi, dicevo, è anche un percorso imprescindibile se si vuole arrivare a comprendere su quali diversi scenari si articoli un discorso e quali di essi vengano di volta in volta privilegiati. Se è lo scenario del cinema, se è quello della barzelletta, se è quello della pubblicità e così via. Ora, quello che vorrei sottolinearvi nel dibattito che si sta attualmente aprendo, appunto su questi temi, che cosa siano queste immagini, questo mondo del nostro immaginario che si coagula e che si può eventualmente coagulare in forme stereotipe e, così dicendo, torno a ribadire un concetto. Una immagine di questo genere è chiaramente di natura simbolico-finzionale e non oggettivante-conoscitiva. Molto spesso si sostiene che quest’immagine sarebbe lo specchio di noi stessi. E su questa parola specchio voi che frequentate psicologi e psichiatri pensate subito a Jacques Lacan. A questo proposito, se resterà tempo, potremmo fare un parallelismo con Karl Marx.
 
(9) Gli Arabi sono l’ultimo gruppo etnico negli Stati Uniti che entra sulla scena della variegata multietnicità statunitense (melting pot), la quale, come state vedendo, costruisce degli orribili steccati per cui i neri devono stare con i neri, gli arabi con gli arabi, gli ebrei con gli ebrei, gli italiani con gli italiani e i cinesi coi cinesi. Questo è il cosiddetto multiculturalismo americano che costruisce il gruppo etnico in quanto esso stesso razzizzato e razzizzante nella relazione. È proprio dentro questo tipo di relazione – un rischio quasi inevitabile oggi – che si può, anzi che è costruita tutta una serie di proteste degli arabo-americani contro l’immagine stereotipa che i film hanno proposto nei loro confronti. Questa protesta è iniziata nell’83, ve ne risparmio tutti i particolari che ho raccontato anche dentro questa mostra e questa pubblicazione [07]. I due casi più recenti sono quello di Aladdin e il Re dei Ladri, il cartone animato di Walt Disney (USA, 1992). Voi conoscete la famosa canzoncina di Aladdin: io vengo da un paese dove se rubi qualcosa ti tagliano, cos’è? non so più se le orecchie o le mani? Immediata protesta dei gruppi di arabo-americani. Si forma un comitato anti discriminazione e dice: dovete epurare. La lotta si apre su questo, sull’epurazione dei particolari ritenuti discriminatori e offensivi. Un film con Arnold Schwarzenegger, più recente ancora, il famoso True Lies (USA, 1994). Nel film, Schwarzenegger è una spia, io non l’ho visto quindi vi do il riassunto da come l’ho appreso dai giornali, è una spia impegnata in una crociata contro terroristi arabi che si autodefinisce come “gi ad (jihad) porpora” che minaccia di distruggere gli USA, quindi proprio lo scenario più classico di film che ormai conosciamo da 20 anni. Ecco la cosa interessante è che questo film è stato criticato, anzi, diciamo che ha sollevato proteste ma non ha avuto epurazione. Segno che i tempi stanno cambiando. Negli anni passati si faceva l’epurazione di particolari. C’era un film in cui lo Sceicco era troppo donnaiolo e allora gli arabo-americani entravano, protestavano e gli sceneggiatori trasformavano lo sceicco in un po’ meno donnaiolo. Un “contrattare” di questo genere attorno allo stereotipo.
Quello che sta avvenendo è a mio avviso molto interessante. Dobbiamo andare oltre la denuncia per capire anche come si gioca proprio la battaglia sugli stereotipi oggi. Per esempio il film True Lies ("Autentiche Bugie") che non ha avuto effetti negativi, o meglio la cui protesta non ha avuto ricadute negli Stati Uniti, ha avuto però ricadute in Indonesia dove il consiglio degli Ulema ha protestato e ha detto che il film dovrebbe essere messo al bando dai cinematografi indonesiani.
Allora successo da una parte, insuccesso dall’altra di una stessa protesta. L’insuccesso negli Stati Uniti ci fa pensare alla possibilità di un restringimento di quegli spazi di negoziazione che sembravano essere stati guadagnati in anni relativamente più liberali di quelli che stiamo attualmente vivendo. D’altra parte le ricadute stesse sul piano internazionale ci fanno pensare come appunto il dibattito sullo stereotipo, sull’immagine stia diventando una questione che non coinvolge soltanto il Sindaco di Palermo ma è un tema che tocca molto da vicino anche rappresentanti di diverse culture o di diversi gruppi.
La rielaborazione di un’immagine in americano ha un nome preciso che la indica e si chiama re-imaging. Prima dei casi che ho studiato per gli arabi di questi ultimi decenni è stata variamente praticata per ri-imbellettare nei film l’immagine di italo-americani troppo mafiosi, adesso ne vedete meno nei cinema. L’immagine dell’italo-americano è più articolata di quanto non fosse in passato. Neri troppo servili, adesso è molto difficile trovarne. Il nero servile che vedevate un tempo non lo incontrate più da quando, appunto, è uscito “Indovina chi viene a cena” (USA, 1967). L’immagine del nero ha cominciato a cambiare e adesso ricambia ancora con la sussunzione, da Spike Lee in avanti, di un’immagine molto variegata e complessa e contraddittoria. Antistereotipa o con uno stereotipo giocato da parte di neri che dicono ci gestiamo noi la nostra immagine. Lo stesso è stato fatto in parte per i Cinesi che però sembrano meno interessati a questo gioco per cui continuano a essere sempre perfidi e misteriosi, a costruire le armi segrete o a trafficare cose nascoste dietro gli idoli.
A che cosa serva dunque lo stereotipo e facile immaginare. Serve a costruire una comunità etnica, per esempio negli Stati Uniti d’America, attraverso l’immagine che essa si dà di se stessa, impone e propone agli altri. Risultato di strategie non univoche, questo tipo di operazione può condurre a effetti molto diversi. Per esempio nei film con soggetti (il soggetto) che io ho studiato, questa operazione di ri-imbellettamento, diciamo così, può toccare particolari, ma non incidere sulla trama totale. Un sorriso in più nell’Emiro, una canzoncina in meno sulla giustizia islamica, eccetera. Dettagli, però, avvertiti come particolarmente significanti e offensivi da parte dei soggetti stigmatizzati. Anche per questo, però, se viene oculatamente gestito un re-imaging può sortire l’effetto opposto. Vi ricordate l’esempio di Alladin? Tanto si parlò della canzoncina, stigmatizzando il fatto che i bambini venivano da un paese dove ai ladri tagliano le mani... che fu epurata. E questo elemento è servito effettivamente come pubblicità al film una volta arrivato in Europa. Quindi vedete come si giocano queste strategie molto complesse in una guerra che è una lunga guerra di posizione. Ai re-imaging di solito per le persone rappresentanti delle comunità etniche e dunque potremmo dire del sindaco di Napoli o di Palermo si attribuiscono in genere effetti positivi. Si segnala però un fatto, almeno negli Stati Uniti e noi lo abbiamo effettivamente verificato anche nella nostra ricerca su “Televisione e Islam”. La trasformazione sinora avrebbe inciso piuttosto sull’informazione e quindi l’informazione televisiva in generale e il telegiornale che sono più attenti a non proporre stereotipi biechi, che non invece sui film e gli sceneggiati televisivi, oppure sugli sketch comici, oppure negli scenari di un gioco con le odalische dove lo stereotipo ritorna più frequentemente.
 
(10) Queste precisazioni ci fanno pensare. Segnalano molto bene tutto il peso di un immaginario simbolico fortemente radicato nella nostra tradizione culturale e sul quale si sono possentemente costruite, nel bene o nel male, importanti dimensioni della nostre identità. Rinunciarvi totalmente credo sarebbe impossibile, sarebbe rinunciare alla nostra infanzia, alla nostra storia. Insomma distruggermi Aladino non mi fa piacere, fa parte di me anche se so che cosa Aladino significhi. Anche per questo, io sono sicura, anzi per lo meno me lo chiedo, se si possa realisticamente mai dare una fiction, cioè un piano finzionale, un racconto, un film una pubblicità, un gioco, ecc. che non abbia una buona dose di stereotipi nel proprio costrutto. Caso diverso dovrebbe, invece, essere quello dell’informazione: telegiornali, radiogiornali, ecc. di cui si può e anzi si deve esigere la correttezza dell’informazione e dell’indagine.
Allora chiarisco le mie posizioni prima di fermarmi. Non condivido quelle posizioni semplicistiche che talvolta sono presenti nel dibattito antirazzista e antirazzista mi professo. Non condivido neppure quelle posizioni superficiali e schematiche che accusano tout court di razzismo il nostro immaginario senza fornirci strumenti per la conoscenza di come il nostro immaginario si sia costituito e cosa lo abbia popolato. Magari per andare alla fine a scoprire che effettivamente è un immaginario razzista. Per piacere conosciamolo bene e vediamo com’è fatto! Non sono la sola a guardare con un certo sospetto questa sorta di braccio di ferro ingaggiato tra produzione mediatica e rappresentanza di qualsivoglia gruppo etnico di minoranze di donne per la costruzione di un’immagine di cui si denunci il carattere discriminatorio, ma di cui si richieda un intervento censorio epurativo. Questo è molto pericoloso. L’operazione non è inutile di per se, voglio dire l’operazione di denuncia, ma qualsiasi censura dev’essere combattuta. Quello che va fatto è un processo di decostruzione che operi e si possa effettuare attraverso un confronto democratico e attraverso la crescita di atteggiamenti critici e liberali. C’è il rischio come sta succedendo negli Stati Uniti che proprio il gruppo più forte, tra i minoritari, fra quelli messi in minoranza, imponga una altra immagine di sé, contribuendo così alla costruzione di steccati e di barriere tra gli uni e gli altri, dentro la cosiddetta città multietnica.
In Italia siamo ancora relativamente lontani da questi tipi di esperienze e probabilmente non sono trasferibili sic et simpliciter in una città come Napoli o come Palermo che non sono certo una minoranza etnica costruita politicamente come tale all’interno di una nazione. Certamente negli USA questo sta avvenendo ed è proprio su questa grossa contraddizione che si sta giocando anche una partita che ha degli effetti di realtà. Una partita attorno al buono e al cattivo uso di immagini che non sono né false né bugiarde, che non sono valutabili sul piano del vero o del falso, ma che sono comunque reali e la cui gestione ha quindi dei potenti effetti di realtà. Posta in questi termini – e qui mi fermo – la questione delle immagini così come si apre oggi e così come tende ad emergere con crescente evidenza in uno scenario in cui le stesse regole del cosiddetto politically correct cominciano ad essere oggetto di contestazione è una questione aperta e dai possibili esiti differenti.
Nel luglio del 94 ad Atlanta [08], si sono riuniti seimila giornalisti di diverse comunità etniche: afro-americani, asiatico-americani, ispano-americani nativi d’America, cubani, ecc. Volevano discutere appunto di stereotipi e di correttezza politica nell’uso di un’immagine rispetto alla quale, peraltro, sembra che gli stessi giornalisti non siano riusciti a trovare vie d’uscita capaci di fornire quell’impossibile norma valida per tutti e per sempre.
Ad Atlanta come a Palermo, insomma, sono i media ad essere i principali accusati di cui si chiede la riforma, però il problema è molto più vario perché i media incidono nel nostro discorso sul quotidiano. L’epurazione che si domanda non si appella certo ad alcuna autorità censoria ma il grado della sua realizzabilità dipenderà in ultima analisi dalla forza che il gruppo di pressione riuscirà a dimostrare in questa nuova guerra delle immagini.
Ed ecco che qui mi fermo per aprire con voi eventualmente un dibattito appunto su questa problematica del vero e del falso, del reale o non reale che si mette in gioco e degli esiti e delle strategie che questa guerra delle immagini sta attualmente comportando.
 
Commento finale.
Purtroppo non è stato possibile trascrivere la discussione che ne è seguita. I nastri si sono rivelati inutilizzabili. Chi scrive, ritiene invece più utile per continuare il tema in questione nella medesima temperie culturale, accennare brevemente all’intervento I luoghi comuni della migrazione e della follia, effettuato, in qualità di Relatore ufficiale della ASL Roma “B”, sette mesi avanti (6-8 aprile 1995), ad un Convegno Internazionale di Sociologia all’Università di Roma “La Sapienza “[09].
... Già il titolo del presente Convegno “Stereotipi e pregiudizi”, ha il merito di riattualizzare l'antico conflitto fra epistème e doxa, uno degli snodi centrali del sapere, spesso dimenticato oppure confuso banalmente con ciò che appare ovvio o viene ritenuto tale, mentre non lo è affatto. Nella filosofia platonica epistème è il sapere certo, la conoscenza scientifica e logica, la cognizione, l'intendere. Oggi saremmo tentati di dire le "scienze esatte" (ove quelle ritenute tali lo fossero realmente) ovvero tutto quanto viene contrapposto alla opinione personale, al "punto di vista", alla supposizione che si generalizza spesso nell'immaginario popolare, nel modo di vedere corrente, nel giudizio comune: la doxa, appunto, dal verbo greco dokeo.
Dal punto di vista delle conseguenze pratiche nessuna differenza parrebbe esistere tra stereotipi o luoghi comuni e pregiudizi o preconcetti. Infatti dire che gli Scozzesi sono tirchi, i Marocchini maggiorati sessuali, oppure pensare che gli Africani siano primitivi, i Levantini lestofanti e che gli "extracomunitari" portino la droga, la prostituzione e le malattie che noi Europei avevamo sconfitto, è ugualmente inesatto, confondente, offensivo e per giunta di facile suggestione, nella vulgata di bassa istruzione. Invece, riflettendo più approfonditamente, ci si accorge che dal punto di vista teoretico il pregiudizio è una dimensione culturale incompiuta o meglio una visione del mondo parziale - spesso extracosciente - che ci preclude ogni ulteriore speculazione scientifica, ogni altro tipo di conoscenza. In particolare per ciò che concerne l' ambito psichiatrico l' unificazione dello stereotipo e del pregiudizio vanifica l' indagine psicopatologica, l' approccio all' interculturalità e la progettualità terapeutica... è più facile correggere un luogo comune che curare un pregiudizio. Chiunque, dopo aver conosciuto un turco atabagico, cesserà immediatamente di usare la locuzione "fumare come un turco". E' anche possibile che taluno dopo aver detto di un etilista che "beve come una spugna" si corregga leggendo un trattato di botanica allorquando scopre che lo scheletro corneo, elastico e flessibile, dei poriferi non "beve" ma assorbe. Forse più difficile è cercare di far recedere l'imbecille dalla convinzione che un chilo di ferro pesi più di un chilo di piume "... Perchè se te lo dò in testa!!..." Fin qui tutto facile perchè ci si mantiene sul piano linguistico, ma quando si passa al livello della vita psichica, della eleborazione mentale, del simbolico e della convinzione catatimica o del pensiero ipodotato, appare arduo recedere dalla credenza che alcune "razze" siano "superiori", "elette", rispetto ad altre... Ambedue le categorie: quelle degli stereotipi e quelle dei pregiudizi hanno la caratteristica di essere spesso inconsce e di richiedere un minimo d’interrelazionalità per essere agite, cioè per divenire manifestamente negative. Ciò significa che vengono esplicitate più facilmente quando si costituisce un gruppo che osserva e denomina (di solito dominante) e un gruppo che è osservato ed è connotato (di solito una minoranza o una maggioranza senza potere). Nell' interfaccia di questo rapporto si sviluppa lo stereotipo, il pregiudizio e anche la reazione difensiva (per usare un linguaggio psicodinamico), dove ciascuno guarda ed è guardato, meglio, immagina ed è immaginato, senza che si renda conto o che tenga in considerazione l'angolo visuale della parte speculare... Termino con un aneddoto di Bertrand Russel attribuito a Socrate e messo in bocca ad Aristotele, perchè notoriamente nulla ha lasciato di scritto il filosofo ateniese. In una lezione ad Oxford o una disputa con gli “induttivisti”, Russell accusava Socrate di sostenere che le donne avevano meno denti degli uomini. Ironizzava anche, sulla presunta “superficialità” del grande maestro, perchè non era andato a verificare contando i denti della moglie. Noi che siamo più pacifisti di Russell non ci saremmo mai azzardati di mettere le mani in bocca a Santippe!
 
Note.
[01]. Si veda su POL.IT Psychiatry on line Italia Tullio Seppilli. Curanderos Made in Italy? 3 gennaio 2019 - 9:26
[02].  Si veda su POL.IT Psychiatry on line Italia Michele Risso. Lo psichiatra che negli anni ’70 curava gli psicotici gravi e congedava i nevrotici. 12 luglio, 2018 - 11:57
[03]. Si veda su POL.IT Psychiatry on line Italia Sergio Mellina. L’ultimo incidente di percorso di Clara Gallini. Un Maestro un ricordo, una recensione ritrovata. 24 aprile 2019 - 12:37
[04]. Posso aggiungere che anch’io quando ho frequentato il corso di Clinica Dermosifilopatica (allora così si chiamava) col Prof. Mario Monacelli (1900-1981), marchigiano da Fabriano, poliglotta, facondo oratore e gradevole ospite di Colleghi nella sua Clinica, quando venivano a Roma, ho sentito dirgli, a lezione, che le accuse di essere portatori di sifilide erano spesso rinfacciate reciprocamente coi nostri “cugini”, tant’è vero che loro la chiamavano “la maladie des italiennes” e noi “il mal francese”. Usare gli stereotipi è sempre un’arma molto efficace per denunciare i danni dei pregiudizi e quanto sia stupido questo tipo d’ignoranza. Giorgio Ferreri (1893-1961), romano, mio professore di Clinica Otorinolaringoiatrica (ORL), era contrario alla asportazione delle tonsille per prevenire le cardiopatie reumatiche e soleva dire a lezione che tonsillectomizzare un bambino sofferente di frequenti angine tonsillari era come castrare un paziente dopo che avesse contratto la sifilide.
[05]. Si vedano Ernesto De Martino. Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino 1997; e l’edizione Einaudi 2002, curata da Clara Gallini, con Introduzione a cura di Clara Gallini e Marcello Massenzio. Ernesto de Martino. La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali. Una summa del vario e articolato pensiero di De Martino sulla filosofia della storia, sulle espressioni culturali della vita religiosa, sul ruolo e la funzione delle discipline psichiatriche ed etno-antropologiche].
[06]. Si veda Edward Said, Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente. Traduzione di Stefano Galli, collana Nuova cultura (n. 27), Bollati Boringhieri, Torino, 1991. Prima pubblicazione: 1978 Orientalism. Edward Said. Editore Pantheon Books, New York.
[07]. “Le seduzioni del razzismo” (2001). La Mostra ha costruito, intorno ai pregiudizi e agli stereotipi più frequentati dai nostri mezzi di comunicazione - i potenti media della pubblicità, del cinema, della televisione, dei fumetti - un percorso particolarmente divertente e 'spregiudicato': capace di coinvolgere, per la stessa seduzione degli strumenti di comunicazione (film, spot, vignette umoristiche), il pubblico dei giovani, delle scuole e della stessa cittadinanza. La Mostra prevedeva un percorso articolato in 50 pannelli con disegni, manifesti pubblicitari, titoli giornalistici e vignette, sagome sugli stereotipi dell'italiano, rassegne di materiali televisivi e cartoni animati - e negli anni è stata riproposta in innumerevoli occasioni in tutta Italia. Allegata, c’era una pubblicazione (copertina rossa e nera): Piccola Biblioteca Millelire 16 On Race / Materiali antirazzisti a cura di Massimo Ghirelli. Millelire - Stampa Alternativa - Compasso d’oro 1994 Direzione Editoriale - Marcello Baraghini – I Presentazione di Clara Gallini.
[08]. Ad Atlanta si tenne un convegno internazionale di giornalisti di varie etnie avente per titolo “Unity ’94 - Conference Georgia”.
[09]. Convegno Internazionale "Immigrazione, Stereotipi e Pregiudizi" curato da Marcella Delle Donne. Facoltà di Sociologia, Università di Roma La Sapienza, Roma (6-8 - Aprile 1995). Atti, in Relazioni etniche stereotipi e pregiudizi. Fenomeno immigratorio ed esclusione sociale. Ed UP, Roma, 1998, Si veda: Mellina Sergio. I luoghi comuni della migrazione e della follia, pp. 213-221.

 

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