LA PSICHIATRIA PER BENE
Dialoghi sulle buone pratiche in Psichiatria
di Gerardo Favaretto

PAOLA CAROZZA: Le risorse delle persone e il lavoro della riabilitazione psicosociale : orientare i DSM

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29 maggio, 2019 - 06:55
di Gerardo Favaretto
L’attività dei Servizi per la salute mentale comprende un sistema  eterogeneo di interventi che si collocano dentro momenti delle biografie di persone la cui vita è contrassegnata , spesso in modo importante, dalla presenza di un disturbo mentale. Che questo condizionamento da parte di una malattia  non sia una riduzione della dignità delle vite e non costituisca elemento di esclusione è uno dei  principi su cui si basa qualsiasi visione della riabilitazione  psicosociale che, per statuto culturale, disegna un ambito nel  quale  ciascuna persona trova obbiettivi da tradurre  dentro la propria storia che comportano  l’affermazione della propria identità, dentro la  comunità , in una condizione di appartenenza  e di condivisione .
 Questa visione riguarda in particolar modo il lavoro con le persone con un disturbo mentale grave ovvero con coloro che, a causa delle difficoltà causate dalla malattia, sarebbero i candidati a quella condizione di congelamento della loro storia personale e sociale  che molti chiamano cronicità.  Persone oggetto di una svalutazione della loro identità, definiti “anormali”, su cui ancora oggi, più di qualcuno,   pensa che il compito della psichiatria sia, sostanzialmente,  di  decidere dove “collocarli “ .
AI contrario i modi della appartenenza e della condivisione cui tende il lavoro della riabilitazione  sono, innanzitutto, le forme stessa  della condizione sociale: il lavoro, abitare, le relazione sociali, la partecipazione alla vita della comunità sia in senso formale che informale.
La visione di questi obbiettivi comporta lo studio e la applicazione consapevole e rigorosa di strumenti e metodi per raggiungerli ; una focalizzazione delle culture di chi fa questi interventi su una qualità di relazione con la persona nonché una instancabile determinazione al raggiungimento di quello che oggi viene chiamato recovery ma che in realtà a seconda dei momenti e contesti può significare la forma dell’equilibrio fra una persona e il suo contesto di vita..
In realtà parliamo di un rapporto fra servizi, operatori e persone che li utilizzano fondato su visioni e valori condivisi; di una cultura che non si ferma ai luoghi in cui stare (o mettere, a seconda del modo di intrepretare la psichiatria, le persone),  ma che ricerca il cosa fare con le persone; non cosa fare delle persone ; parliamo di una cultura che fa del rifiuto della esclusione e del pregiudizio il suo primo credo.
La riabilitazione psicosociale in Italia ha una storia estremamente ricca e significativa che ci porterà a incontrare più persone  che contribuiscono con le loro esperienze  ai momenti  e capitoli questa storia. All’ambito della riabilitazione psicosociale si deve, in ogni caso, l’emergere dell’evidenza della efficacia degli interventi definiti psicosociali ovvero di interventi finalizzati alle competenze e alla qualità delle  relazioni delle persone.

Paola Carozza dirige il Dipartimento di Salute mentale di Ferrara , e ha percorso nella sua attività i luoghi della riabilitazione psicosociale  arrivando nel suo lavoro e nelle cose che scrive a orientare sempre di più la cultura e l’organizzazione dei Servizi  nel senso di “fare con le persone” creando  supporti a una percorso di apparenza e pieno diritto di cittadinanza alla comunità. E presente da tempo  con i suoi contributi lucidi e molto significativi nello scenario del dibattito nazionale della Psichiatria.  Da tempo è membro del Board Internazionale della WAPR.  
Ha ideato un master con università di Ferrara di cui   è codirettrice con Luigi Grassi  ,  su trattamenti psicosociali basati sull’evidenza e orientati alla recovery nella psichiatria id comunità: http://www.unife.it/masters/ebr
 
GERARDO FAVARETTO: Ci descrivi quali sono i trattamenti psicosociali che vengono prevalentemente attuati nel DSM di Ferrara ? Quali punti di forza e quali possibilità di evoluzione ulteriore ?
PAOLA CAROZZA: La scelta di introdurre i principali   trattamenti psicosociali nel DSM di Ferrara è stata supportata dal bisogno, sempre più pressante, di offrire trattamenti integrati nella salute mentale.
Infatti, le numerose persone che, oltre ai sintomi, patiscono le conseguenze sconvolgenti della disabilità nelle principali aree di vita  (disadattamenti sociali e familiari, self- stigma, disoccupazione,  abitazioni indecenti, mancanza di opportunità sociali e ludico-ricreative), impongono l’offerta di trattamenti farmacologici e psicosociali a lungo termine, omnicomprensivi, flessibilmente adattati ai cambiamenti dei bisogni individuali, coordinati, coerenti e basati sulla competenza,  al fine di raggiugere buoni esiti sia nella dimensione sintomatica, sia in quella funzionale e soggettiva. Altre spinte ad andare in questa direzione sono state: la diffusione del concetto di recovery, secondo cui gli esiti di guarigione non riguardano  solo l’area sintomatica, ma anche la possibilità di riprendere  una prospettiva, di esercitare ruoli utili e validi e di scegliere e di dirigere la propria vita; la constatazione che circa il 70% delle persone affette da gravi psicosi accusa già una compromissione cognitiva concomitante con l'esordio o precedente, spesso aggravata dagli effetti delle sostanze; la maggiore comprensione dell’eziopatogenesi della malattia mentale, riconducibile a fattori  psicologici, biologici, sociali, come dimostrato dai  contributi delle neuroscienze e, in particolare, delle neuroscienze sociali. A questo proposito, come ampiamente dimostrato, molti disturbi psichiatrici possono essere causati da una neuro plasticità alterata, sulla quale potrebbero agire specifici trattamenti, indipendentemente dalla diagnosi clinica. Infatti, data la capacità dei neuroni di essere modificati dall’esperienza e dagli esercizi di apprendimento e di memorizzazione, e dato che ogni tipo di terapia promuove un'esperienza soggettiva, si potrebbe concludere che si instaura una naturale reciprocità tra terapia e neuro plasticità. In questo senso, le esperienze di intensa riabilitazione psicosociale, simili a quelle di psicoterapia, potrebbero influenzare i meccanismi fondamentali dell’attività neuronale, contribuendo allo sviluppo di nuove interconnessioni neuronali e alla correzione delle disfunzioni neuropsicologiche e neurofisiologiche nella psicosi. Inoltre, poiché i deficit della plasticità del cervello possono sorgere precocemente, un intervento offerto con la stessa precocità può avere implicazioni positive per l'esito. Per ultimo, l’aumento delle conoscenze sul funzionamento della mente e del cervello ha dato vita ad un movimento, che si batte per l’adozione più generalizzata di approcci di cura scientificamente fondati e, per quanto riguarda lo specifico della salute mentale, supportati dai risultati non solo della ricerca biologica, ma anche da quella psicologica e sociologica. L’inclusione di prove di efficacia provenienti dagli ambiti di ricerca multidimensionale (biopsicosociale) è motivata dal fatto che i servizi dovrebbero riflettere anche i molteplici obiettivi peculiari dei pazienti e non essere focalizzati esclusivamente sugli esiti tradizionali, come l’aderenza al trattamento e la prevenzione delle ospedalizzazioni e delle ricadute. Per tutti questi motivi, nel DSM di Ferrara offriamo i seguenti trattamenti psicosociali: SST, DBT, IMR, Rimedio cognitivo, CBT, Case Management, Psico-educazione familiare, IPS  e programmi di Ambienti Supportati (lavoro, abitazione e studio supportati), implementati nei 5 Centri di Salute Mentale, nei 2 Centri Diurni e nei 4 SerT, nelle 2 Residenze Psichiatriche, in SPDC   e in parte anche nella Neuropsichiatria Infantile.
Obiettivo comune delle suddette pratiche, che è poi il loro punto di forza, è aumentare il funzionamento psicosociale dei pazienti, attraverso l’apprendimento e l’esercizio delle social skills. Ciò comporta l’introduzione di strategie educativo/pedagogiche, mutuate da diverse discipline, le quali pur non essendo di natura prettamente sanitaria, sono fondamentali per promuovere processi di apprendimento, che, producendo cambiamenti nella neuro plasticità cerebrale, migliorano aree di funzionamento basilari, come quella cognitiva, emotiva  e comunicativa. Le discipline dalle quali si mutuano tali strategie sono: le scienze comportamentali, la teoria dell’apprendimento e dell’insegnamento, la neuropsicologia, la psicologia sociale e la teoria del Social Learning
Per quanto riguarda le possibilità evolutive di tale implementazione, direi che, al momento,  sono principalmente tre:  a) integrare il Social Skill Training con  la  Cognitive Enhancement Therapy (Rimedio Cognitivo),  dato che la prima  pratica richiede un cervello capace di assimilare e ritenere le informazioni e di apprendere le abilità. Pertanto la sua efficacia può essere ridotta dalle menomazioni cognitive presenti in gran parte degli individui psicotici, con particolare riferimento ai deficit di  cognizione sociale, considerati dalla pionieristica ricerca di  Brenner et al. la causa principale della  disfunzione sociale nelle gravi disabilità psichiatriche; b) ridurre la complessità del IMR per pazienti  con severi sintomi cognitivi o con disabilità intellettiva,  con grave sintomatologia negativa e conseguente ritiro sociale,  disabituati a qualsiasi forma riabilitativa, soprattutto di tipo gruppale, con perdita delle abilità necessarie per poter partecipare in modo sistematico a questi interventi; adattare maggiormente l’IMR ai pazienti con comorbidità psichiatrica e uso/abuso di sostanze, in modo da rendere fruibile tale pratica anche da parte del SerT; c)  Transitare dai trattamenti  psicosociali alle strategie psicosociali, alla luce della constatazione che non è sostenibile fornire EBPs psicosociali a tutti quelli che ne avrebbero bisogno con la frequenza e intensità indicate nelle linee guida  per tre principali motivi: mancanza di stabilità dell’organizzazione, depauperamento di risorse umane e difficoltà   nell’ apprendimento delle EBP e nella capacità di offrirle da parte di una percentuale non minoritaria di operatori. Rispetto a questo ultimo punto, c’è da constatare che mentre la pratica prescrittiva dei farmaci può essere modificata attraverso un segno di penna su un block-notes, i trattamenti psicosociali sono complessi e richiedono, oltre alla collaborazione multidisciplinare, anche il coordinamento tra diverse agenzie, un lungo periodo di tempo per acquisire le competenze necessarie a fornirli in modo appropriato ed un deciso impegno da parte della leadership dei servizi. 
Di conseguenza, alla luce delle evidenze, secondo le quali possono essere raggiunti notevoli esiti anche quando non si offrono trattamenti secondo le raccomandazioni, l’unico modo di aumentare l’efficacia curativa del sistema è formare tutte le figure professionali su uno stile di lavoro basato su prove di efficacia e sulla centralità del paziente, trasformando la pratica as usual (colloqui, visite domiciliari, accompagnamenti, accoglienze etc.) in azioni EB e orientate al recovery. Abbiamo chiamato questa politica dipartimentale: avvicinare all’evidenza scientifica la pratica as usual (anche ad iso-risorse).
 
GERARDO FAVARETTO: Ci descrivi come è cambiato il lavoro degli operatori nel tuo dipartimento in questi anni in relazione all’attuare questi interventi anche in riferimento alla evoluzione della integrazione fra le diverse professionalità dei gruppi di lavoro?
PAOLA CAROZZA: Direi che l’adozione dei suddetti trattamenti ha  contribuito alla diffusione della cultura della valutazione del proprio lavoro, nella misura in cui applicare un paradigma teorico accreditato e ricavare dati utili dalla sua traduzione operativa spinge a revisionare la modalità di erogazione dei servizi e i propri comportamenti operativi, a definire obiettivi, procedure comportamentali ed esiti, ad orientare il personale negli interventi quotidiani, a fornire parametri per leggere i cambiamenti e spiegare i fallimenti, a ridurre i conflitti dovuti al prevalere delle opinioni personali, delle colpevolizzazioni e del ricorso al buon senso come unico strumento  e, infine, a indirizzare all’esito la relazione con l’utente. Rispetto a questo ultimo punto, abbiamo sempre di più la necessità di integrare la relazione contenitiva,  i cui obiettivi sono accogliere,  accettare, far sentire a proprio agio, condividere i vissuti, manifestare empatia e accettare la diversità con la relazione orientata agli esiti, i cui obiettivi sono aiutare i pazienti ad emanciparsi dal sistema dei servizi e a cambiare la loro vita. 
Altra ricaduta dell’introduzione di trattamenti psicosociali è stato il constatare che questi devono essere offerti all’interno di una  differente relazione tra l’utente e il professionista, dove quest’ultimo, tradizionalmente  sentito lontano, perchè  “esperto ” che ha “autorità” , deve invece  comportarsi  più come un “personal coach o trainer”,  che spinge il paziente a stabilire obiettivi personali, lo dota di informazioni, abilità, reti sociali e supporti , mette a disposizione le proprie abilità e conoscenze e nel contempo impara da chi  è esperto attraverso l’esperienza (utenti).  
Per quanto riguarda l’integrazione multidisciplinare, ci stiamo muovendo in due principali direzioni: 1) avvicinare  le diversi figure professionali alla cultura dei trattamenti psicosociali EB e del recovery; 2)  costituire, per particolari target di popolazione, programmi interdisciplinari interservizi user-centered. Nello specifico del punto 1, stiamo offrendo una formazione permanente sul posto di lavoro per lo sviluppo di nuove competenze  degli psichiatri  (orientamento alla persona, coinvolgimento della persona, fiducia  nel potenziale di crescita, maggiore flessibilità nel permettere ai pazienti di regredire, di essere recuperati quando abbandonano e di provare ancora più e più volte, maggiore disponibilità a lavorare in team e ad accettare il contributo delle altre figure professionali); degli assistenti sociali (aprire percorsi e reperire risorse che favoriscono il social recovery  e la fase di generalizzazione delle abilità, intendendo per  social recovery il grado di inclusione sociale raggiunto dalle persone con malattia mentale); degli  psicologi, relativamente alle conseguenze sull’identità della malattia mentale, quale  evento traumatico accompagnato da perdite, intrappolamento e vissuti di vergogna e di umiliazione;  e del comparto, che ha il compito di  motivare e supportare i pazienti nel raggiungimento del loro obiettivo di vita, nonché di allenarli nell’apprendimento di abilità e di comportamenti funzionali.  
 
GERARDO FAVARETTO: Quali son gli aspetti che ritieni maggiormente significativi nel lavoro del tuo DSM per orientare questo lavoro al recovery ? Esiste una tua definizione di questo termine che oggi è spesso utilizzato ma non sempre con chiarezza e responsabilità?
PAOLA CAROZZA: La ripresa dalla malattia mentale implica prendere in considerazione l’esito in relazione alle molteplici dimensioni biopsicosociali sulle quali impatta il disordine. Infatti, nonostante i deficit cognitivi siano quelli che compromettono maggiormente il funzionamento sociale (Mueser et al.,1991; Corrigan et al., 1994; Lysaker et al., 1995), l’esito più considerato continua ad essere la presenza o l’assenza dei sintomi positivi.
Ma basarsi solo su questi, piuttosto che sul funzionamento dell’individuo in varie aree psicosociali, o non riconoscere gli effetti disabilitanti di altri sintomi, come la depressione, l’ansia, i sintomi cognitivi e negativi, non fornisce una rappresentazione completa del processo di ripresa e sottovaluta il grado di disabilità dei soggetti con malattia mentale. Pertanto, l’esito di recovery deve essere misurato in diverse aree (valutazione dei sintomi, abilità lavorative, grado di indipendenza, contatti sociali, competenze sociali, etc.) e, poiché tra di esse si riscontrano basse o medie correlazioni, è importante tenerle separate quando viene valutato un esito (Harding, 1987; Strauss e Carpenter 1974; Torgalsbøen, 2001).
Anthony (2007) ha individuato le seguenti dimensioni per misurare i progressi dei pazienti: dimensione del funzionamento (abilità emotive, cognitive, sociali, lavorative e comunicative); dimensione dell’adattamento psicosociale alla disabilità; dimensione dello stato soggettivo di benessere; dimensione dei segni e dei sintomi della malattia; dimensione del funzionamento di ruolo e dell’integrazione nella comunità.  
In conclusione, gli studi degli ultimi decenni hanno chiaramente dimostrato la natura multidimensionale del recovery e, di conseguenza, la necessità di misurare i suoi esiti su diverse aree: clinica (clinical recovery), funzionale (functional recovery);  soggettiva (personal recovery) e sociale (social recovery).
Se consideriamo la ripresa della salute mentale un processo/ esito multidimensionale, ne consegue che i trattamenti psicosociali EB sono una parte integrale dell’assistenza e del recovery pathway e ne riflettono gli esiti, essendo gli obiettivi delle pratiche riabilitative fortemente correlati alle diverse dimensioni in cui si declina il recovery. Infatti, nella misura in cui le persone con malattia mentale lavorano  (Supported Employement), conducono una vita indipendente (Supported Housing), definiscono un obiettivo personale e imparano a gestire la loro malattia per raggiungerlo con successo  (Illness Management & Recovery), riprendono o continuano gli studi (Supported Education), imparano a gestire le disregolazioni emotive e i passaggi all’atto (DBT), aumentano il livello di funzionamento (SST), migliorano le loro funzioni cognitive (Rimedio Cognitivo), migliorano le relazioni familiari  (Psicoeducazione individuale e familiare), hanno l’opportunità di beneficiare di supporti continui e flessibili  (Case Management), mettono in discussione le credenze distorte e, quindi, modificano i comportamenti disfunzionali (CBT) e riducono l’uso di  sostanze  (Trattamento Integrato per la Doppia Diagnosi), possono essere anche in grado di aumentare  l’autostima, l’efficacia personale, l’autodeterminazione e la capacità di scelta, di ridurre il self stigma  e, in parte, anche di guarire dai traumi precedenti l’esordio della malattia e ad essa associati (perdite, intrappolamento, senso di helplessness, di hopelessness, di umiliazione e di vergogna).  
 
GERARDO FAVARETTO: Secondo la tua esperienza quanto sta cambiando e quali sono  gli aspetti scientifici , e culturali su  cui il modello della “psichiatria di comunità“ avrà la necessità di trarre maggior insegnamento dalle esperienze?
PAOLA CAROZZA: La Psichiatria di Comunità deve imparare un po’ di più a giustificare le proprie conoscenze e scelte e a rispondere alle domande: “Quale è l’evidenza che supporta la tua decisione? Perché stai prendendo questa decisione? Quali sono i presupposti della tua azione? Quali risultati vuoi ottenere?”. Si tratta, a mio parere, di uno stile di lavoro altamente etico particolarmente importante nel nostro settore, al fine di sfidare i convincimenti personali, i giudizi morali e le mode. È la cosiddetta Pratica Razionale, che nel campo della salute mentale significa: valutare i propri comportamenti operativi e utilizzare un riferimento teorico accreditato per conferire alla ruotine la dignità di una pratica in parte misurabile, superando il diffuso convincimento che farsi e fare domande come quelle sopra elencate azzeri la componente umana e creativa del nostro lavoro.
Un'altra area importante in cui la Psichiatria di Comunità deve trarre insegnamento è quella dell’influenza dei traumi precoci e dei disturbi dell’attaccamento sul neuro sviluppo che, quando alterato,  costituisce la base della vulnerabilità ai disordini della condotta e del comportamento nei minori e negli adolescenti e ai disturbi di personalità negli adolescenti e negli adulti, da quelli più benigni (borderline) a quelli più maligni e, purtroppo, a volte anche incurabili (disturbi antisociali e psicopatia). Sempre più studi, infatti, evidenziano come le patologie descritte derivano da traumi psicologici nell'infanzia (maltrattamenti, abusi sessuali, psicologici  e fisici), i quali che aumentano la probabilità disviluppare un Disturbo da Stress Post-Traumatico e una sorta di "dipendenza" da comportamenti violenti o aggressivi. In altri termini, è stato accertato che l'interazione tra una predisposizione biologica nel bambino (come aumento dell'impotenza e impulsività) e genitori inadeguati crea un modello di attaccamento insicuro, che, a sua volta, genera difficoltà nel controllo comportamentale, nei processi di adattamento e nello sviluppo di un senso di appartenenza sociale e dell’empatia.
L’aumento sempre più significativo di pazienti minori ed adolescenti con disturbo della condotta , del comportamento o della personalità, accompagnati da atti auto ed etero aggressivi e da uso di sostanze, e l’ evidenza che molti disturbi, liquidati in modo semplicistico come esordi psicotici, in realtà sono gravi Sindromi da Stress Post Traumatico ci spinge sia a riprendere i contributi dei maestri  della teoria dell’attaccamento e del trauma (Bowlby, Kohut, Kemberg e Fonagy) sia ad introdurre tecniche psicoterapiche finalizzate al contenimento, elaborazione e trasformazione delle esperienze traumatiche, che dovrebbero essere in parte propedeutiche e in parte contestuali ai trattamenti psicosociali EB. Si tratta quindi di capire e studiare come questi ultimi devono e/o possono essere modificati a servizio di un intervento più intrapersonale e psicoterapico, finalizzato alla guarigione dal trauma. In questo senso potremmo aggiungere una quinta dimensione in cui si potrebbe misurare l’esito di recovery, quella della risoluzione dei blocchi emotivi/cognitivi al funzionamento e all’inclusione sociale, correlati alle memorie traumatiche ancora vive e attive, anche se a livello inconscio.
Altra dimensione squisitamente “psicologica” da cui trarre esperienza per adattare sempre meglio i trattamenti psicosociali ai bisogni strettamente individuali dei pazienti, è l’influenza del processo di auto-stigmatizzazione sull’esercizio delle abilità. Il processo di auto-stigmatizzazione è una progressiva distorsione del senso di sé, che porta i pazienti ad attribuirsi le stesse caratteristiche negative, socialmente attribuite alle malattie mentali.  Come risultato, essi soffrono di una ridotta autostima e autoefficacia, condizione che li dissuade dal perseguire i loro obiettivi personali (effetto “Why try” = perché provare), evitando  anche di utilizzare i trattamenti che potrebbero aiutarli a migliorare la loro vita.
Come ultimo “apprendimento dall’esperienza” di questi ultimi anni, si pone la necessità di costruire team interdisciplinari/interservizi user-centered. Infatti, l’aumento dei pazienti con necessità di trattamenti integrati, multidimensionali e interprofessionali, intercettati da più UO di uno stesso Dipartimento (CSM, SERT, Neuropsichiatria Infantile) o da più servizi (Salute Mentale, Cure Primarie e/o Servizi Sociali), implicano il superamento della presa in carico delle singole UO o dei singoli servizi (fallimento del modello di intervento sequenziale o di intervento parallelo). Bisogna, quindi, tendere ad un metodo di presa in carico focalizzato sul percorso di  cura, in cui sono coinvolte  le competenze necessarie, a prescindere dal servizio di appartenenza  (CSM, Neuropsichiatria Infantile, SERT, SPDC, Servizi Sociali, MMG, PLS, etc.). Ciò per  superare le difficoltà di passaggio dai servizi per minori ai servizi per adulti, per facilitare il passaggio di informazioni e la comunicazione tra tutti i professionisti coinvolti, per adottare una valutazione multidimensionale dei bisogni di cura e per ragionare sugli esiti da raggiungere e non su una generica presa in carico,  prevedendo un percorso formativo per tutti gli operatori delle UO e dei servizi coinvolti nel trattamento di quel paziente. Riteniamo che i target di pazienti che, oltre ad un trattamento integrato inter UO di uno stesso Dipartimento, necessitano di cooperazione con altre agenzie  sociali e sanitari siano: pazienti con comorbidità psichiatrica e dipendenza da sostanze, pazienti   con gravi disturbi di personalità (borderline e antisociale), pazienti adolescenti con disturbi mentali e del comportamento, pazienti autistici, pazienti psicotici con bisogni sociali, pazienti con grave /media disabilità intellettiva, pazienti psichiatrici con disturbi fisici dovuti all’invecchiamento e pazienti autori di reato.
       
GERARDO FAVARETTO: Ci descrivi l’esperienza formativa che viene offerta dal percorso del Master di Ferrara? Come la collochi nell’ambito delle necessità formative collegate alla conoscenza e alla diffusione degli interventi psicosociali?
PAOLA CAROZZA: Attualmente, le due maggiori sfide con le quali il campo della salute mentale si misura per aumentare la qualità dei servizi psichiatrici  sono: ridisegnare i servizi sui principi del recovery e implementare trattamenti biologici e psicosociali sostenuti dall’evidenza scientifica. Per migliorare, il campo ha bisogno sia delle conoscenze delle persone che hanno personalmente sperimentato gravi malattie mentali, sia delle conoscenze apportate dalla ricerca scientifica. Applicate insieme, le due strategie sono in grado di favorire lo sviluppo di un sistema di servizi ottimale che la maggior parte delle persone vorrebbe per sé o per la propria famiglia.
La crescente domanda di Servizi di Salute Mentale capaci di dare prestazioni di alto livello qualitativo sul piano assistenziale, coniugato con sostenibili ricadute su quello economico, ha prodotto, quindi negli ultimi decenni, la proliferazione di numerose linee di pratica clinica (APA, 2000; NICE, 2000, Hoge et al., 2005; Herz et al., 2002; Lehman et al., 1998; McEvoy et al., 1999), che hanno enfatizzato i trattamenti Evidence-Based (Drake et al., 2001). Tale tesi si è parzialmente infranta sia per la rigidità e per le disfunzioni organizzative dei servizi, sia per la difficoltà di tradurre le linee-guida teoriche nelle attività quotidiane, dovuta, in parte, anche a carenze formative dei professionisti.  Da qui si è sentita sempre più la necessità di spostare l’attenzione sulle competenze professionali del personale, assumendosi la responsabilità di prepararlo ai compiti demandati.
Il Master di II livello “Trattamenti Psicosociali basati sull’evidenza e orientati al recovery”, promosso dall’Università di Ferrara, di cui io sono il co-direttore insieme al Prof. Luigi Grassi,   vuole in parte colmare queste lacune.  Il programma  di studi si articola in un anno accademico e in quattro macro-insegnamenti: Diagnosi Psichiatrica, Trattamenti Biopsicosociali EB, Concetto di recovery, outcome in psichiatria, strumenti di valutazione, Modelli organizzativi orientati all'evidenza e al recovery, più la Supervisione dei casi clinici.
Il Master è diretto, in primis, ai dirigenti responsabili di servizi e ai dirigenti infermieristici, oltre che a professionisti di diverse discipline (psicologi, educatori, TERP, infermieri), purché in possesso di laurea magistrale Tale scelta si basa sul convincimento che la dirigenza dei Servizi di Salute Mentale, sia  essa rappresentata da medici, da psicologi o da infermieri, abbia un ruolo fondamentale nel cambiamento del sistema e nell’orientarlo  verso un paradigma olistico e comprensivo dei bisogni biopsicosociali delle persone in cura. I dirigenti ispirati da principi etici e da conoscenze aggiornate (Principled Leaders) sanno bene che il cambiamento dei comportamenti operativi dei professionisti è  essenziale per raggiungere esiti positivi con i pazienti. Di quì, l’investimento  sulla formazione e sulla “cura” delle “tecnologie umane “ (human technology training and care), che devono essere  considerate un  presupposto per il successo dell’organizzazione e un capitale da proteggere e  difendere soprattutto in tempi difficili, come quelli attuali. 
Riteniamo anche che il conseguimento del Diploma di Master da parte di dirigenti di struttura e di coordinatori infermieristici possa avere importanti implicazioni per la politica dei servizi. Molti studi di esito ci dicono che un sistema di salute mentale è efficace quando la  funzione di supporto ai pazienti è bilanciata con quella finalizzata ad allenare le loro abilità cognitive e sociali; che notevoli risparmi e migliori esiti possono essere ottenuti da forme alternative alla ospedalizzazione tradizionale; che iniziare un trattamento psicosociale  mesi o, peggio, anni dopo l’esordio della malattia  aumenta la lunghezza delle ricadute; che fornire trattamenti efficaci tempestivamente e prevenire le recidive dovrebbero rappresentare una priorità; che la gestione della crisi  consuma approssimativamente due terzi delle risorse disponibili, mentre solo il  terzo rimanente delle risorse disponibili è dedicato al case management e ai trattamenti psicosociali; che il deterioramento funzionale e i sintomi  da deficit indicatori di cronicità possono originarsi nei primi anni del disordine; che la riduzione dei bisogni assistenziali  nel corso della vita è possibile se i pazienti ricevono trattamenti psicosociali e servizi di supporto nella prima fase della malattia; che la  vulnerabilità ai fattori stressanti è specifica per età e può essere modificata da interventi psicosociali somministrati tempestivamente e che bisognerà sempre più ridimensionare i servizi per l’acuzie e i servizi  residenziali, a favore di programmi che supportano la vita indipendente, il lavoro, la ripresa degli studi e la qualità delle esistenze  delle persone con malattia mentale.

 

NDR: Nel momento in cui abbiamo pensato a questo nuovo spazio su Psychiatry on line Italia, lo abbiamo immaginato anche e soprattutto come un "luogo" di dibattito il più possibile allargato.
Per questa ragione da una lato rivolgiamo un CALDO INVITO agli utenti registrati della rivista a pubblicare, in calce a questo e ai pezzi che seguiranno, il loro commento volto ad arricchire e allargare la proposta culturale e clinica che vogliamo portare avanti, dall'altro abbiamo, appositamente, aperto una  PAGINA FACEBOOK DEDICATA ALLA RUBRICA dove il dialogo e il confronto sui contenuti proposti e segnalati potrà essere portato avanti anche da chi non è UTENTE REGISTRATO.


   

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