IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

La scomparsa di Majorana

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20 gennaio, 2022 - 13:03
di Antonello Sciacchitano
“Non ho più il fisico”. Stefano Sciacchitano

 

Per Natale mio figlio Stefano mi ha regalato il romanzo di Leonardo Sciascia La scomparsa di Ettore Majorana con la dedica spiritosa, riportata in esergo.L’avevo già letto 40 anni prima, quando ero ancora un lacaniano di scuola, in occasione del congresso organizzato sul tema da Paola Carola proprio a Napoli. Quarant’anni non sono passati invano. Quello che prima mi si presentava come un mistero, ora è chiaro. Solo il romanziere non se ne avvide, forse perché non si tratta di verità narrativa.
Il romanziere compone una storia. Sciascia è un bravo romanziere. Scrive una storia su diversi registri: familiare, universitario, amicale. Crede di avvicinare la verità, ma gli sfugge il senso della ricostruzione che va conducendo, tentando di individuarne il nucleo tragico. La banalità è che non c’è nessuna tragedia. Tutto è conseguenza del normale spirito antiscientifico dell’epoca, in particolare dell’ambiente universitario dove Majorana operava, suo malgrado. Lo dichiara Sciascia in esergo, citando Camus: “Vivere contro un muro è vita da cani. Ebbene, gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nella facoltà hanno vissuto e vivono sempre più da cani. Grazie anche alla scienza, soprattutto grazie alla scienza”. Lo sintetizza in due parole la madre: Ettore, “vittima della scienza”.




In questo contesto, Sciascia non sa che pesci pigliare. Non si orienta. Cerca di capire. Cita altri romanzieri, da Stendhal a Brancati, Pirandello compreso, amato da Majorana. Tutti in modo un po’ confuso. Quando si tratta di scienza, il letterato è un pesce fuor d’acqua, come molti di noi. Gli hanno insegnato, da Aristotele in poi, che la vita si vive in un certo modo, seguendo certe finalità. Ma il paradigma finalistico non quaglia in Majorana, in generale nella scienza. Il romanzo, scritto in modo brillante, fa un buco nell’acqua.

Sono tentato, ancor prima di cominciare la mia semplice analisi, di sviare in una digressione, che in verità è l’asse del mio discorso, poco accademico. Romanzo e scienza sono fratelli. Hanno lo stesso sangue, ma destini diversi. Sono nati da poco allo stesso tempo, circa nel XVI secolo. Nell’antichità non esistevano come generi letterari. Gli unici romanzi dell’antichità sono la Bibbia e l’Odissea. L’unica opera scientifica dell’antichità sono gli Elementi di Euclide, che hanno paralizzato la ricerca matematica per duemila anni, ostacolandone la trasformazione in algebra. Archimede fu l’eccezione che conferma la regola: anticipò il calcolo infinitesimale, ma non ebbe allievi. Nel XVI secolo lo scoppio parallelo: da una parte Rabelais e Cervantes, dall’altra Galilei. Poi romanzo e scienza procedettero di conserva, con il romanzo sempre in testa a guidare la corsa alla pubblicazione. Ma non hanno niente in comune. Il romanzo tratta la vita, individuale e collettiva, la scienza la materia inerte, per non dire la morte. Non c’è possibilità di interazione tra i due filoni di pensiero: uno immaginario, l’altro simbolico. Usano entrambi la scrittura, il primo narrativa, il secondo algebrica. Non si parlano proprio. Separati in casa. Il romanzo di fantascienza tenta un collegamento, ma serve a poco. 

Ettore Majorana sta sul crinale di questa divisione. È lacerato dentro. Pensa e scrive, risolve l’equazione differenziale di Riccati, ma pubblica poco. Scoprì la composizione del nucleo atomico in protoni e neutroni. Smascherò Fermi, che credeva di aver scoperto il neutrone, invece realizzò la prima fissione nucleare, la madre della bomba atomica. Tutto sommato, il pensiero scientifico gli sembra un gioco da bambini un po’ pericoloso; come quello dei ragazzi che giocano sui binari del treno.

Cosa farà da grande, Ettore, ammesso che crescerà? Da grande si interroga sulla morte, in modo particolare, un po’ diverso dal solito. Non si chiede “Come sarò io da morto?” ma “Come mi vedranno gli altri, quando non ci sarò più, quando non ci sarà più il fisico?”. Questo è un problema che si può trattare scientificamente. È l’interazione tra due soggetti: l’individuale, supposto morto, e il collettivo, che sopravvive. È possibile fare l’esperimento: basta scomparire, occultando le tracce della scomparsa; non c’è il cimitero degli scomparsi. Non si può celebrare il culto dello scomparso come si fa con il morto. Un gioco da ragazzi scomparire per un fisico teorico. Che, da dove è nascosto, osserverà le mosse di chi è rimasto al proprio posto, ma non farà nessun report scientifico, perché gli altri devono crederlo morto. La soluzione del problema morirà con lui, stavolta nella morte vera. Altri tenterà lo stesso esperimento: Federico Caffè, economista. Ma sarà sempre la stessa storia, con la stessa conclusione solipsistica. In fondo, inutile. C’è chi ci scriverà sopra un romanzo, altrettanto inutile.
A pensarci bene, a cosa servono gli esperimenti scientifici? A nulla. Non servono a vivere. Ma la scienza procede per la sua strada. Ha da poco lanciato nello spazio il telescopio Webb, un progetto concepito trent’anni fa. Indagherà sulla nascita dell’universo sull’onda dell’infrarosso. Lascia la morte ai romanzieri. Con un gioco di parole meno intelligente di quello di mio figlio: “Lasciascia”. È l’esilio del soggetto.

Avevo un amico psicanalista, Sergio Contardi. Negli ultimi anni della sua vita ebbe un’intuizione: “La vita è un esilio”. Ovvio, no? Il primo a prendere la via dell’esilio è l’uomo di scienza. Al di là della formulazione romantica, Contardi voleva dire che il soggetto della scienza non ha un suo posto. È atopico. In psicanalisi la scomparsa del soggetto si chiama “afanisi”. Il titolo corretto del romanzo di Sciascia sarebbe stato “L’afanisi di Ettore Majorana”. Ettore è scomparso nel senso che non è in alcun luogo e ovunque. Come il neutrino di cui fece la teoria.
 
 

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