Mente ad arte
Percorsi artistici di psicopatologia, nel cinema ed oltre
di Matteo Balestrieri

"Lamb", film fantasy o film neo-noir?

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6 aprile, 2022 - 15:28
di Matteo Balestrieri
Perdere il proprio bambino è una delle esperienze più dolorose che si possano provare. La forma più comune di sofferenza è certamente la depressione, che può giungere a estremi di espressione delirante, con un distanziamento marcato dalla realtà. Il film “Lamb” è una esemplificazione di tale condizione, anche se sarebbe riduttivo parlare del film solo seguendo questa visione interpretativa. “Lamb” è innanzitutto un film magico, ammaliante, e drammaticamente potente. La magia nasce dalle immagini dei luoghi, nonché dalla libertà di non rispettare il principio di verisimiglianza. Il dramma deriva invece dalla psicopatologia dei personaggi, ed in particolare della protagonista.
Iniziamo dal primo aspetto. L'ambientazione è quella di una grande vallata islandese dove vive una coppia di allevatori di pecore che ha perso la giovane figlia. Maria e Ingvar sono come molti allevatori islandesi, immersi in una natura incombente e distanziati di molti chilometri da altri simili a loro. La vita quotidiana di questa coppia è in apparente equilibrio con la natura circostante. Lui afferma di essere contento del presente, di quello che sta vivendo, mentre noi in realtà percepiamo un vago senso di inquietudine. Un’atmosfera di minaccia e presagio di pericolo viene evocata sin nelle prime immagini, dove in una tormenta di neve un branco di cavalli neri appare impaurito da qualche cosa che non vediamo.
L'equilibrio tra persone e animali viene improvvisamente e inesplicabilmente rotto dalla nascita di un agnello, una femmina, che viene sottratta dalla coppia alla legittima madre, per essere adottata e destinata a compensare la perdita della figlia perduta. Ma questa agnellina è in realtà un ibrido, metà bimba e metà pecora. La piccola ibrida assume lo stesso nome della figlia morta, Ada, e viene trattata come se fosse una neonata. La pecora che l’ha concepita però non ci sta e continua a belare lamentandosi e protestando sotto la finestra della protagonista. Tra la coppia e la natura attorno, incarnata dalle loro pecore, inizia così a crearsi una frattura. Il primo monito del film è dunque questo. Il rapporto tra uomo e natura è fatto di equilibri che devono essere rispettati, e la rottura da parte degli uomini di quell’equilibrio porta a tragiche conseguenze.
Sotto il profilo psicopatologico, si deve innanzitutto ricordare che negli Stati Uniti nel corso degli ultimi 50 anni ci sono stati circa 10 rapimenti di neonati all’anno e in diversi casi il rapimento è stato attuato da una donna che non poteva avere figli o che li aveva persi. Il lutto per una mancata maternità porta in questi casi a prendersi ciò che non può essere ottenuto in altro modo. Nel film il rapimento assume però connotati originali, ponendo uomini e animali su un piano assolutamente paritario: i diritti dei primi sono equiparati a quelli dei secondi.
Le conseguenze del lutto non risolto portano Maria e Ingvar prima ad un agito e poi a un progressivo distanziamento dalla realtà circostante. E qui introduco una mia interpretazione al film, che non si allinea con quella di tutte le altre recensioni disponibili perché sceglie un riferimento cinematografico diverso.
Se il film si accorda con lo spettatore per fare un atto di sospensione del giudizio e quindi credere a qualcosa di non realistico (la possibilità dell’ibrido), si tratta di cinematografia fantasy. Tuttavia questo non è un film di genere fantasy, perché il contesto è anzi molto reale, parla di una vita concretamente vissuta dove esiste un unico elemento dissonante, l’agnello ibrido. Quindi la spiegazione deve essere diversa, che è questa: proporre all’interno di un contesto di vita reale che i protagonisti vivano come normale l’impossibile può voler significare che loro stiano agendo un vissuto delirante e allucinatorio. Anche questo è un genere cinematografico, chiamato neo-noir psychological thriller, caratterizzato da aspetti noir dove la realtà presentata può essere soggettiva. Un esempio è il film “Shutter Island”, dove ciò che vediamo è in realtà ciò che vede il protagonista.
Io perciò propongo che Maria e Ingvar credano che l’agnellina abbia metà sembianze umane perché il loro bisogno è di rivedere la figlia perduta e riassaporare con lei un nuovo inizio. Essi stanno perciò esperendo un’allucinazione connessa a una forma particolare di delirio di misidentificazione. L’umanizzazione progressiva della agnellina, che veste e si comporta come una bambina, segna il progredire del distacco dalla realtà dei protagonisti, sotto le sembianze di una apparente normalità. Tutto questo è favorito dall'isolamento della coppia, dove Maria ha la maggiore determinazione, mentre il marito, caratterialmente disposto a trovare sempre il lato positivo delle cose, ritiene che ciò che sta avvenendo sia un bene perché la moglie sta ritrovando la felicità che aveva perduto. Lei cioè crede realmente di aver ritrovato una figlia umana, lui fa di tutto per crederci.
Il finale magico è degno della migliore mitologia nordica, lasciandoci stupiti e profondamente colpiti. La magia del film sta in effetti nel suo lato assurdo, preso precisamente dalla mitologia delle saghe nordiche, qui lasciate ad esprimersi in un piccolo e intimo mondo immerso tra verde e cielo.
Ho due notazioni finali. La prima riguarda il fatto che la mia interpretazione di natura psicopatologica non è condivisa da altri recensori, che sostengono invece che la coppia ha adottato Ada perché l’agnellina era concretamente un ibrido donna-pecora. E che la figura che appare nel finale è in realtà il padre, a sua volta un ibrido. Questo modo di leggere il film diminuisce in qualche modo la valenza psicopatologica e vira decisamente verso il fantasy. Ovviamente, a me piace di più la mia proposta.
Una seconda notazione riguarda l'ironia del nome dell’attrice protagonista, Noomi Rapace, cognome d'arte che lei stessa si è scelta sin dal tempo in cui ha magistralmente interpretato la protagonista del film “Uomini che odiano le donne” tratta dai thriller di Stieg Larssson. Mai come in questo film c’è però una perfetta coincidenza tra il suo cognome e il ruolo interpretato. Maria è una donna dura e temprata che non si ferma davanti a niente e che rapisce senza rimorso. E’ però anche una donna disperata e tragica, che potrà rimanere nella nostra memoria.
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