UNA INQUIETANTE OBESITA'
L'esigenza di un ripensamento critico sull’identità della psichiatria sembra oggi essere ritornata un tema di attualità: il primo numero della rivistaPsichiatria di comunità contiene due editoriali, uno di Julian Leff, "Nuove sfide per la psichiatria di comunità", e uno di Elvezio Pirfo, "Psichiatria di comunità e psichiatria sociale in Italia: problemi attuali e futuri", con i quali, nel secondo numero della stessa rivista, ha interagito Luigi Ferrannini attraverso l'editoriale "II Dipartimento di salute mentale è un servizio di psichiatria di comunità?". Nella rivista Gruppi (3, 2002), sul tema "gruppo e servizi", ci sono un articolo di Corrado Pontalti "Persone e gruppi: il lavoro ambulatoriale nella psichiatria pubblica" e uno di Franco Fasolo dal titolo "Come si pronuncia Jacques: nowere oppure nowhere?", in cui viene proposto il contrasto tra psichiatria e salute mentale. Nel n. 1/2002 della rinnovataRivista Sperimentale di Freniatria, Luigi Tagliabue, nuovo direttore della rivista, afferma che la linea editoriale sarà orientata a cercare "di rispondere alla domanda che, pur nel mutare dei tempi, ci si ripropone costantemente": Che cos’è oggi la psichiatria? Gli interventi di prestigio che inaugurano la rivista sono affidati rispettivamente a Ferruccio Giacanelli, "Il nostro ‘ieri’, ‘l’altro presente’ della psichiatria italiana", a Sergio Piro, "Il transito epocale e l'alternativa alla salute mentale" e ad Agostino Pirella, "Le innovazioni collettive".
Sono inoltre usciti due libri importanti sull’argomento: Gruppi che curano e gruppi che guariscono di Franco Fasolo e Psichiatria prossima di Giuseppe Riefolo, entrambi ricchi di riflessioni critiche sul lavoro nei servizi psichiatrici pubblici.
Non capisco cosa stia succedendo, forse qualcuno ha finito per sentire il grido del piccolo impertinente che urlava: "La psichiatria è sine psichiatri(a)" (Di Marco, 2001), oppure non sono più solo a cogliere l'evidenza naturale dello stato di crisi della psichiatria oggi. Ma non mi illudo.
Un rapido approfondimento delle varie posizioni che emergono dal dibattito in corso mi restituisce alla mia quasi totale solitudine da grillo parlante, cui i soliti ministri e faccendieri del re nudo, scandalizzati lanciano il martello di legno, fatto di responsabilità a venire a p(i)atti, di necessaria politica dei piccoli passi, di ineludibile esigenza di mediazione e, per non perdere modeste egemonie culturali, invitano a travisare le poche idee irrinunciabili e a rassegnarsi a perdere l’unico vero potere, il potere di poter fare lo psichiatra; oggi, comunque, sembra che la crisi cominci a trapelare attraverso beanze non più colmabili da discorsi accademici o demagogici.
L’autorevole articolo di Julian Leff rappresenta un forte richiamo ad esercitare un pensiero critico sulla pratica psichiatrica dei servizi e suona come un monito contro l’autoreferenzialità di tante pratiche in corso (anche quelle col bollino EBM).
Leff denuncia l’invisibilità dell’assistenza psichiatrica territoriale e la falsa percezione nei media e nella popolazione del suo fallimento, e tra le varie ragioni adduce la dispersività dei servizi e la non visibilità della funzione curante.
Pirfo, considerando il rapporto psichiatria di comunità e psichiatria sociale, evidenzia una sostanziale incapacità della psichiatria pubblica, anche per mancanza di risorse adeguate, a rispondere ai nuovi bisogni emergenti da un contesto sociale in continuo cambiamento, e comunque diverso da quello che aveva visto maturare le pratiche psichiatriche territoriali a partire dagli anni Settanta. Pirfo sembra implicitamente suggerire un allargamento del campo di intervento dell'azione psichiatrica e indicare che il mancato o incompleto passaggio da psichiatria a salute mentale sia responsabile delle crisi dell’assistenza psichiatrica odierna.
Il tema del rapporto tra salute mentale e psichiatria, variamente prefigurato e declinato, è centrale in tutti gli interventi, sembra prevalente la convinzione dell’utilità di un’estensione della prassi psichiatrica, sino a posizioni estreme come quella di Piro che auspica l’avvento "di prassi avanzate che ... non si configurano come una psichiatria, né tanto meno come una ‘salute mentale’, bensì come un’antropologia pratica illimitata".
Ferrannini, ponendo la domanda: "I Dipartimenti di salute mentale, nella loro attuale configurazione organizzativa e funzionale, sono davvero servizi di comunità?", evita la contrapposizione dicotomica tra psichiatria e salute mentale e la riassume dialetticamente all’interno della complessità del DSM, distinguendone "una mission generale - in quanto sistema di assistenza psichiatrica territoriale - che rimane quella di occuparsi della prevenzione, cura e riabilitazione della totalità delle malattie mentali che si presentano in una specifica popolazione, e una mission specifica per garantire una gamma di interventi ‘essenziali’, che va formulata a partire dalle politiche sanitarie definite a livello nazionale o regionale e dalle strategie locali (regionali o aziendali) di allocazione delle risorse".
Questa complessità è responsabile del quadro variegato con cui si presentano i servizi, che secondo l’autore non necessitano più di una modellistica unitaria ma del rispetto di un pluralismo di prospettive, teoriche e pratiche. Pertanto, per leggere la realtà dei DSM propone una linea di coesistenza più che di demarcazione. Esempi: "autonomia del sistema e forte integrazione alla rete sociosanitaria; natura esclusivamente pubblica come soggetto erogatore e presenza di erogatori di natura diversa; territorializzazione per tutte le funzioni e anche deterritorializzazione per aree di competenza o specializzazione" (Ferrannini, 2002).
Franco Fasolo sulla questione è categorico: "Il Dipartimento di psichiatria potrà anche rimanere a lungo nelle viscere e nel midollo di tanti professionisti, ma l'organizzazione indispensabile oggi è quella del Dipartimento di salute mentale" (Fasolo, 2002) e sostiene che le attuali organizzazioni sociosanitarie ci indicano la strada verso il welfare municipale e comunitario che prevede una clinica delle reti sociali.
L’intervento di Corrado Pontalti, centrato più sulla critica di ciò che si chiama lavoro ambulatoriale, contiene un esplicito e forte richiamo etico alla responsabilità di curare, e alla conseguente esigenza di un’identità della psichiatria contro "l’antropologia delle tante psichiatrie" in cui "siamo guidati dal pensiero di tante psichiatrie e non dall’unicità del singolo paziente" (Pontalti, 2002).
Le riflessioni su "che cosa è oggi la psichiatria" contenute nella Rivista Sperimentale di Freniatria ruotano intorno all’analisi delle ragioni di un calo di entusiasmo per i temi della psichiatria democratica italiana e del progressivo reflusso della psichiatria verso un nuovo scientismo, in sintonia con i mutamenti intervenuti nella società.
L’intervento di Ferruccio Giacanelli è, a mio parere, il più lucido e costruttivo. A differenza di quelli di Piro e Pirella che, partendo dalla difesa di una egemonia culturale ormai compromessa, insistono nel riproporre rinnovamenti concettuali e operativi, convinti della persistente necessità di un’alternativa alla psichiatria e alla salute mentale, Giacanelli ripropone "il passato come presente" e rimedia ad una incompletezza nella storia della psichiatria del passato prossimo, ricordando come questa non ha coinciso solamente con il movimento antistituzionale, ma con la ricerca di senso della sofferenza psichica che andava al di là del biologismo della psichiatria tradizionale, creando nuove possibilità di interpretazione della sofferenza psichica e garantendo alla psichiatria un’identità più vicina alla cura.
Fasolo nel suo libro coniuga con sapienza e ironia le esigenze imposte dal processo di aziendalizzazione con i principi della psichiatria di comunità, sottolineando il ruolo della matrice gruppale nel determinare impasti più o meno funzionali.
"La psichiatria territoriale in epoca di crisi" è il sottotitolo del libro di Riefolo, che parte appunto dal ruolo della crisi nel determinare processi di cambiamento, per fissare alcuni fenomeni che caratterizzano oggi i servizi psichiatrici pubblici: il processo di saturazione crescente dei servizi, la necessità di definire un limite al campo istituzionale, la messa in atto di soluzioni creative per predisporre diversi livelli di setting, la specificità del campo dell’accoglienza e il suo declinarsi come funzione specifica di competenza del servizio pubblico e il suo articolarsi con successive forme di presa in carico, anche quelle condotte in ambito privato. La posizione di Riefolo sul rapporto salute mentale/psichiatria è, a mio parere, la più puntuale e pertinente; già all’inizio del suo libro egli sottolinea "il continuo sforzo di riempire i nostri servizi di sempre maggiori opportunità concrete. Inseguendo il progetto - poi verificatosi parziale - che il disagio e la sofferenza mentale si potessero affrontare facendosi carico soprattutto non di ciò che il disturbo mentale è, ma di tutto ciò che può derivare dalla realtà sociale in cui viene a trovarsi, nella propria vita. Il paziente psichiatrico, particolarmente quello grave", evidenziando la tendenza dei servizi a rispondere a ogni domanda, che non può che esitare in quei processi di saturazione che impediscono l’assunzione di un limite che consenta l’esercizio delle competenze terapeutiche.
Il tema del rapporto salute mentale/psichiatria è da anni al centro del mio interesse: ritengo indispensabile avere cura dei sistemi di cura, presidiare con attenzione le finalità delle istituzioni psichiatriche che la comunità pubblica riesce ad esprimere.
Pertanto l’esame di queste posizioni rispettabili, specie di quelle che so per certo nate dall’esperienza e dalla riflessione, mi è utile per chiarire ulteriormente il mio pensiero sull’argomento.
L’equivoco di fondo, che condiziona ogni discorso e ogni pratica relativa a psichiatria e salute mentale, è la nozione onnicomprensiva di salute mentale, alla quale propongo di rinunciare. La cosiddetta nuova psichiatria nel suo entusiasmo innovativo intendeva occuparsi dei bisogni delle persone e non dei sintomi, per lo più considerati artefatto istituzionale, e ciò era plausibile in epoca manicomiale. Continuare a ritenere che la salute mentale sia una faccenda che riguarda prioritariamente la psichiatria ha perpetuato il malinteso, talora consapevole fraintendimento, della necessità di un transito dalla psichiatria alla salute mentale, legittimando posizioni che snaturano la psichiatria da disciplina che, come suggerisce l’etimologia, si occupa di curare la psiche a disciplina che si occupa della salute mentale dell'individuo, e della comunità in cui è inserito. Peraltro, lo scarto tra dichiarazioni programmatiche e realtà dei servizi è grande: situazioni di confusione, di ipersaturazione, di iperattivismo assistenzialistico, di sostanziale assenza di risposte alla sofferenza individuale caratterizzano non pochi servizi.
Ritengo che all’origine di questo modo di pensare ci sia storicamente un’identificazione superficiale della psichiatria con quella manicomiale, per cui si è continuato, e si continua, a rincorrere la costruzione di identità in negativo (deistituzionalizzare/depsichiatrizzare), valorizzando la funzione destruensdella critica o quando si valorizza la funzione costruens si allarga senza alcun limite operativo il campo di intervento, col risultato di contrapporre tanti modelli che diventano ontologicamente tante psichiatrie. Oggi è impossibile riferirsi alla psichiatria senza far seguire al termine un aggettivo qualificativo. Questa è un’operazione alienante in quanto viene negata l’essenza della psichiatria quale disciplina che cura la psiche.
Edgar Morin, nel suo L’identità umana, considera la psiche uno dei fattori che permettono l’emergenza dell'identità umana, emergenza derivante da una pluralità e da un incastro di trinità:
- la trinità individuo-società-specie;
- la trinità cervello-cultura-psiche;
- la trinità ragione-affettività-pulsione.
Questa visione comporta la necessità di una "connessione tra scienze biologiche e scienze umane, una loro ricomposizione, un riconoscimento della complessità, un concepire una sorta di auto-eco-ri-organizzazione" (Morin, 2002). In questa prospettiva i disturbi psichici sono dovuti a un disequilibrio all’interno di ogni singola trinità o tra di loro, l’equilibrio può essere ristabilito attraverso l’azione su vari punti di ingresso; solo una presunzione di onnipotenza può far porre alcuni esperti come condizionanti l’intero processo, incapaci di cogliere i limiti all’interno dei quali possono essere efficaci, avere una visione antropologica non coincide con l’essere antropologi; ad esempio, mi parrebbe più ragionevole per lo psichiatra occuparsi principalmente dello squilibrio della trinità ragione-affettività-pulsione, anche alla luce del fatto di quanto afferma Morin: "La concezione di homo aeconomicus vede solo un essere realista in stretto contatto con la materialità del mondo esterno. Occulta l’enorme parte dell'immaginario umano ... La nostra mente secerne continuamente immaginario. L’importanza del fantasmatico e dell’immaginario nell’essere umano attiene in parte all’importanza del mondo psichico relativamente indipendente, nel quale fermentano bisogni, sogni, desideri, idee, immagini, fantasmi: le vie di entrata e di uscita del sistema cerebrale, che mettono in connessione l’organismo e il mondo esterno, non rappresentano che il due per cento dell’insieme, mentre il novanta per cento concerne il funzionamento interno".
Il concetto di salute mentale, a mio parere, dà agli psichiatri una onnipotenza-impotenza che non esiste in nessuna altra disciplina ed è collusivo con il mai cambiato stigma della psichiatria come scienza che si occupa degli scarti (non sarebbe male, prima di occuparsi dello stigma di cui sono vittime i pazienti, occuparsi dell’azione stigmatizzante della psichiatria). Certo lo psichiatra, volente o nolente, ha un mandato sociale da rispettare, ma questo non deve essere l’unico e non esime, comunque, dal rivendicare con forza il mandato terapeutico. Gli psichiatri continuano a non essere in grado di far valere il loro potere terapeutico perché continuano a diluirlo e a svenderlo a tal punto che non è più visibile né negoziabile.
Il mito della salute mentale viene però incontro ai mai sopiti desideri psicocratici, e rende piccoli privilegi sul piano politico, al prezzo del mantenimento di un collusivo status quo, che non turbi la comunità. Il Dipartimento di salute mentale rischia di essere la nuova forma con cui si ripresenta il manicomio, infatti, l’affannosa ricerca di come tamponare, di come far combaciare la psichiatria con il nuovo che avanza, rischia di non farci vedere che sotto il nuovo si nasconde sempre la richiesta prioritaria di controllo e non di cura.
Solo affermando con forza la dimensione del curare come mission fondamentale la psichiatria potrà recuperare visibilità, rispetto, credibilità, spostandosi sempre più dall'illusione di guarire al piacere di curare, cioè di funzionare e di far funzionare.
La gente, l’opinione pubblica, la comunità chiedono che il cittadino abbia il diritto alla cura, non, alla salute mentale; la salute mentale in ogni caso non può essere garantita solo dagli psichiatri, anche se rivendicano e vicariano funzioni di promozione della salute, che legittimamente dovrebbero spettare al dipartimento di prevenzione, di cui gli psichiatri sembrano ignorare l’esistenza.
Gli psichiatri dovrebbero tornare a curare la sofferenza individuale in ambito istituzionale, come fanno negli studi privati il pomeriggio, dopo aver trascorso la mattina ad occuparsi di psichiatria sociale, o come fanno quando in pensione mettono una targa di psichiatra e non di igienista mentale.
Sono consapevole che le mie considerazioni possono apparire reazionarie e controtendenza, in un momento storico in cui c’è un’ampia convergenza nel reputare necessario lo spostamento d’interesse dalla malattia alla salute, non solo in ambito psichiatrico, ma sono sempre più convinto che questo spostamento è motivato più da esigenze economiche, non sempre eque, e dall’incapacità nel governare i principi della riforma sanitaria, piuttosto che dall’esigenza di migliorare la qualità della risposta alla sofferenza, e in special modo a quella psichica
Commenti
Giacomo riprende un tema radicale e lo argomenta con estremo rigore epistemologico. Non entro nel merito perchè non saprei quali ulteriori costrutti apportare. Sono ancora invitato come supervisore in alcuni CSM . Ogni volta, con i colleghi, siamo confrontati, spesso con consapevolezza tardiva, che i pazienti dei quali parliamo, ancora giovani, sono entro storie di sofferenza e di alienazione dal loro percorso di vita personale e sociale che dura da tanti anni. Spesso fin da bambini sono venuti in contatto con vari Servizi, pubblici e privati, spesso già in Comunità per adolescenti. Ma niente sembra arrestare un destino di marginalizzazione di una vita cronicizzata che è cronicità personale e familiare. Porsi queste domande con i colleghi apre l'interrogativo sull'efficacia dei nostri sistemi terapeutici. Quali paradigmi e quali procedure per riorientare il destino oltre la disperante coazione a ripetersi? Se non è questa la mission della psichiatria (e professioni connesse, in primis psicologia e psicoterapia) quale altra disciplina terapeutica bisognerà inventare?
No le tesi sono plausibili e le critiche ai modelli di Psichiatria e anche di Salute Mentale prevalenti nel nostro paese, sono fondate. La promozione della salute mentale e della salute in generale, non solo non sono prerogativa degli psichiatri o dei medici in genere, ma nemmeno dei Sistemi Sanitari. Dalla Carta di Ottawa in poi è stato chiaro che la salute può essere promossa solo da un insieme di politiche: sanitarie anche, ma assieme a politiche dei trasporti, dell’ambiente, dell’Istruzione ecc. Nel nostro piccolo mondo, e questo è il valore dell’articolo, tutt’altro che reazionario, per portare il nostro doveroso contributo (un granello certo ma importante) alla Salute Mentale e alla sua Promozione non dobbiamo dimenticare che il principale se non l’unico contributo che noi possiamo portare, si fonda sulla nostra attiività/capacità di cura. Ed è vero che questo deve essere percepito dalla gente. Non siamo antropologi, come non siamo filosofi e se siamo legittimati a parlare, accanto agli altri “promotori” è in quanto “psichiatri” cioè in quanto ci occupiamo di “cura”. Se ce ne allontaniamo troppo rischiamo di non portare un contributo specifico, come “psichiatri” e di dire banalità.