Intervista a R. Ferini-Strambi

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27 novembre, 2012 - 20:53

 

D. Durante una delle sessioni di questo congresso, abbiamo visto come i disturbi del sonno siano coinvolti in numerosi disordini neurologici, influenzandoli ed essendone influenzati. Possono, a suo parere, i disturbi del sonno aiutarci anche a comprendere i meccanismi fisiopatogenetici delle patologie a cui associa?

R. Innanzitutto bisogna riconoscere che ci sono patologie del sonno che possono favorire alcune malattie neurologiche, e sicuramente uno degli esempi più eclatanti è quello dell’epilessia, dove una condizione di privazione di sonno o di sonno disturbato e frammentato può essere causa scatenante di una crisi epilettica o comunque di anomalie elettroencefalografiche. Del resto l’esecuzione di un elettroencefalogramma dopo privazione di sonno è una delle metodiche più utilizzate per slatentizzare un’epilessia. Il messaggio che deriva da questa considerazione è molto importante: l’assunzione della terapia per un paziente epilettico è di cruciale importanza, ma di altrettanto cruciale importanza è la regolarità del sonno.

Ricordiamo poi il problema della sindrome delle apnee ostruttive (OSA) in relazione all’ictus ischemico (stroke). La OSA determina ipossia cronica durante la notte, che può essere un fattore favorente di stroke; la OSA inoltre, causando continua frammentazione del sonno, determina un aumento del cortisolo nel corso della notte, e questo può favorire lo sviluppo di un’ipertensione arteriosa, uno dei più importanti fattori di rischio per lo stroke. Oggi sappiamo inoltre che la OSA è un fattore di rischio per lo stroke indipendente da altri possibili fattori come l’ipertensione arteriosa o l’obesità. Ci si potrebbe però domandare: ma lo stroke è effetto o è causa di OSA? La risposta viene da studi che hanno valutato non soltanto gli stroke ma anche i TIA, nei confronti della OSA. Si è visto che la prevalenza delle OSA è significativamente alta anche nei paz con TIA, suggerendo quindi che lo stroke non sia una causa di OSA, bensì molto più probabilmente una sua conseguenza. E’ dunque giustificato che nell’ambito del politrattamento dei pazienti degenti in stroke unit sia incluso anche il trattamento della OSA, allo scopo di migliorare la prognosi.

Possiamo poi individuare condizioni dove il disturbo del sonno diventa la spia di una patologia neurodegenerativa. Entriamo in particolare nell’ambito del disturbo comportamentale in sonno REM (RBD), fenomeno caratterizzato dal fatto che i soggetti vivono e "mimano" i propri sogni, che spesso sono a contenuto aggressivo, portandoli ad agitarsi, cadere dal letto o addirittura essere violenti nei confronti di chi dorme con loro. L’RBD è stato recentemente dimostrato essere spia di patologia neurodegenerativa che può essere diagnosticata anche a distanza di 5-10 anni dall’esordio del disturbo del sonno. Questo vale per la Malattia di Parkinson e la Demenza a Corpi di Lewy, le due patologie più strettamente associate alla RBD, accanto anche all’MSA.

Nell’ambito del nostro gruppo di ricerca stiamo sviluppando un progetto per creare una batteria di valutazioni specifiche da applicare ai soggetti con RBD, che ci permettano di seguirli nel tempo ed evidenziare la possibile evoluzione in una patologia neurodegenerativa. I risultati sarebbero il razionale per l’utilizzo di trattamenti per i disturbi del sonno che abbiano anche uno scopo preventivo nei confronti della neurodegererazione.

D. Riguardo al suo intervento sui disturbi del sonno nelle demenze: è interessante ciò che lei ha sottolineato, circa il fatto che l’igiene del sonno sembri quasi avere più rilievo della terapia farmacologica per il benessere di questi pazienti…

R. Non è che la terapia comportamentale sia più importante, ma sicuramente ha un ruolo fondamentale, per diverse ragioni. La prima, perché abbiamo osservato che ci sono delle alterazioni fisiopatologiche che giustificano un trattamento di tipo non farmacologico (es. l’abbassamento della temperatura corporea che determina un precoce risveglio, che potrebbe essere prevenuta mettendo il malato a letto più tardi). Secondo, ci sono i dati recentissimi relativi ai vantaggi emersi dallo studio combinato degli effetti della terapia di esposizione alla luce associata alla mobilizzazione frequente e alla riduzione della permanenza a letto durante il giorno. Terzo: l’utilizzo di farmaci antidepressivi cosiddetti sedativi in sostituzione dei classici ipnotici, come la mirtazapina, può avere un effetto positivo sul sonno, però può determinare come effetto collaterale importante un aumento del peso, e questo può significare un peggioramento dei disturbi respiratori nel sonno. Lo stesso sedativo ipnotico può far dormire meglio il paziente andando però ad incidere negativamente sulle funzioni cognitive. Se consideriamo poi i neurolettici , i loro effetti negativi sul sonno sono noti (ad es. possono scatenare o peggiorare la sindrome delle gambe senza riposo o il mioclono notturno e quindi frammentare il sonno).

Ecco alcune ragioni valide per cui nel management dei disturbi del sonno nel soggetto demente la terapia farmacologia dovrebbe essere scelta solo dopo avere preso in attento esame anche la possibilità di utilizzare strategie non farmacologiche, pur essendo queste ultime spesso difficili da attuare per le prevedibili problematiche gestionali di questo tipo di malato.

 

(a cura di M. Ossola)

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